Donne contro il Femminicidio #55: le parole che cambiano il mondo con Maria Lidia Petrulli

Le parole cambiano il mondo. Attraversano spazio e tempo, sedimentandosi e divenendo cemento sterile o campo arato e fertile.

 

Jakub Schikaneder, Omicidio in casa (1890) – Femminicidio

Per dare loro il massimo della potenza espressiva e comunicativa, ho scelto di contattare, per una serie di interviste, varie Donne che si sono distinte nella lotta contro la discriminazione e la violenza di genere e nella promozione della parità fra i sessi.

Ho chiesto loro, semplicemente, di commentare poche parole, che qui seguono, nel modo in cui, liberamente, ritenevano opportuno farlo. Non sono intervenuta chiedendo ulteriori specificazioni né offrendo un canovaccio.

Alcune hanno scritto molto, raccontando e raccontandosi; altre sono state sintetiche e precise; altre hanno cavalcato la pagina con piglio narrativo, creando un discorso senza soluzione di continuità.

Non tutte hanno espresso opinioni univoche, contribuendo, così, in modo personale alla “ricerca sul campo”, ma tutti si sono dimostrati concordi nell’esigenza di un’educazione sentimentale e di una presa di coscienza in merito a un fenomeno orribile contro le donne, che necessita di un impegno collettivo.

Oggi è il turno, per Donne contro il Femminicidiodi Maria Lidia Petrulli, medico psichiatra, scrittrice e appassionata di storia e mitologia celtica e medievale. È stata finalista al Kobo Writing Life 2017 con il romanzo Il Volo Della Libellula in cui tratta la violenza sulle donne.

 

Femmina

Ho iniziato questa mia piccola ricerca partendo dal significato delle parole femmina e femminilità, per poi passare ai concetti e ai luoghi comuni più diffusi cui sono associate. Da un punto di vista biologico, il termine femmina definisce l’individuo che produce solo gameti femminili; negli organismi unicellulari, quello che nella specie umana, si indica l’individuo di sesso femminile. Nel linguaggio corrente viene usato in senso dispregiativo per definire una donna, anche nel diminutivo “femminuccia”. Pensiamo a modi di dire come “chiacchiere da femmine”, “si comporta come una femminuccia”, “piange come una femmina” (o come una femminuccia), che denotano l’attribuzione alla donna di tratti di personalità che prevedono debolezza, fragilità, stupidità. Sempre nell’opinione e nel linguaggio comune, essere considerata una vera femmina comporta una serie di significati e luoghi comuni:

  1. Essere in grado di fare figli: se ne fai è tutto ok, se non ne sei capace o se non ne vuoi, non sei più una vera femmina, sei una fuori dal mondo e tutti ti guardano come la sfigata di turno, come una donna inutile. Oppure ti compatiscono.
  2. Essere capace di sedurre gli uomini: se sei bella, sexy e capace di flirtare con gli uomini, allora sprizzi femminilità da tutti i pori, altrimenti non vali nulla.
  3. Impazzire per lo shopping: solo una vera femmina è follemente innamorata dello shopping.
  4. Accanirsi per essere sempre giovane ed attraente: una vera femmina fa della cura del proprio aspetto il centro cardine della sua esistenza. Solo una vera femmina è in grado di valorizzarsi sempre, tutte le altre non sono femmine ma esseri indegni di tale nome.
  5. Non saper guidare: pensiamo al detto “donna al volante pericolo costante”. Se sai guidare non fai testo e rientri nella classica eccezione che conferma la regola;
  6. Essere debole: la vera femmina non è in grado di difendersi e non è in grado di cavarsela da sola, ha sempre bisogno di un uomo per vivere, un compagno forte e dominante che la protegga. La società guarda con diffidenza le donne non accompagnate.
  7. Deve stare al suo posto: una vera femmina non può avere una sua vita, non può essere indipendente. Deve dipendere dal partner o dalla famiglia o da chi vi pare, ma non può assolutamente avere un’esistenza propria.

Questo fa parte in generale della nostra cultura. Ma vediamo cos’è in realtà una vera femmina

  1. Sa creare una famiglia: anche senza fare figli. La visione tradizionalista della famiglia, che si limitava a considerare tale solo le famiglie con figli, è ormai anacronistica.
  2. Non fa necessariamente follie per lo shopping: cosa che comunque può dare buone soddisfazioni a entrambi i sessi, e che quando diviene compulsiva è patologia per le une quanto per gli altri.
  3. Fa del proprio corpo qualcosa da rispettare: a prescindere dall’aspetto e dalla capacità di giocare e sedurre gli uomini, una vera femmina si prende cura di se stessa considerandosi nella propria totalità e curando il proprio corpo quanto il proprio mondo interiore.
  4. Apprezza il passare del tempo: come un evento inevitabile a cui non opporsi con accanimento. Una vera femmina ama curarsi e sentirsi a posto, adora valorizzarsi, ma non solo in funzione della moda, men che meno in funzione della società o delle pretese del proprio partner. Punta ad essere se stessa sia che si vesti in tuta da ginnastica che in abito da sera.
  5. È in grado di fare qualunque cosa: una vera femmina non ha nessun limite di capacità e può fare tutto ciò che prima era considerato appannaggio dei soli uomini, purché abbia interesse verso quell’attività, esattamente come ogni essere umano pensante. A questo proposito, è vero che spesso l’uomo mal si adatta ad accogliere donne al potere o in tutte quelle mansioni che ha sempre considerato tipicamente maschili.
  6. Sa essere forte: la debolezza o la forza di una persona non hanno a che vedere col sesso, un individuo è forte o debole a seconda di molteplici fattori, fra cui la propria storia personale. Anche riguardo la forza fisica è spesso questione di abitudini e allenamento: per cultura, le donne si dedicano meno allo sviluppo della forza fisica. In linea di massima, è altrettanto vero che le donne hanno più resistenza e capacità di rispondere alle avversità in modo positivo. Il mito del sesso debole è per l’appunto un mito creato da una società maschilista. Nello sviluppo di tale concetto ha avuto un gran peso anche la chiesa.
  7. Non si accontenta di stare “al suo posto”: perché non accetta di essere messa in un angolo per rispettare un ruolo che la società e l’uomo le hanno riservato. Una vera femmina è consapevole del suo valore e fa il possibile, tanti sacrifici per essere sempre attraente, i compromessi per essere accettata, la fatica di essere se stessa, non fanno di una donna una vera femmina. La rendono schiava di un ruolo che non ha scelto. Una vera femmina non fa alcun sacrificio per essere tale: asseconda semplicemente la propria natura e si accetta e si apprezza per quel che è.

La femminilità può essere definita come l’insieme delle caratteristiche fisiche, psichiche e comportamentali giudicate da una specifica cultura come idealmente associate alla donna e che la distinguono dall’uomo. Ma anche questo dà il via a tutta una serie di luoghi comuni che fanno parte

della nostra cultura e che spesso sono accettati passivamente:

  1. Sei troppo emotiva per affrontare i fatti.
  2. Sei disinformata, te la dico io la verità.
  3. Sei un agnello nella giungla, lascia che ti indichi la strada.

Come si può facilmente intuire, sono tutte definizioni che rimandano a un concetto di donna ingenua, inesperta, un esserino privo di personalità da guidare, proteggere, consigliare. Non è prevista alcuna autonomia in concetti di questo tipo, nessuna personalità ben definita, e, contrariamente a quel che può sembrare a un’occhiata superficiale, non contengono alcun significato di rispetto verso la persona donna.

Sarà forse questo uno dei motivi di una delle aberrazioni più diffuse in Italia e all’estero: quando si parla di salute e dei diritti riproduttivi delle donne, sono quasi sempre gruppi di uomini che prenderanno decisioni etiche e legislative sull’argomento.

 

Femminismo

Maria Lidia Petrulli

Personalmente, non sono stata educata al rispetto del sesso forte e, al contrario, mi è stato insegnato che potevo realizzare qualunque cosa e che non avevo niente di meno rispetto a un uomo. La mia educazione si è basata sull’autonomia da chiunque: io dovevo essere in grado di badare a me stessa senza l’aiuto di un uomo. Se poi mi fossi sposata, avuto figli o quant’altro, era una faccenda di altro genere, una mia scelta. Questo per me è femminismo. Ma non per tutte è così, per cui femminismo è anche lotta per abbattere le diseguaglianze e lavorare culturalmente, soprattutto perché le donne stesse non si sentano inferiori agli uomini, e combattere le sacche dure che ancora sono convinte dei luoghi comuni di cui parlavo prima.

 

Femminicidio

Nonostante se ne parli molto e i passi avanti fatti, il fenomeno non accenna a diminuire e ancora tante donne non denunciano i maltrattamenti: perché sottovalutano la cosa, perché hanno paura, perché sono sole, e perché ancora credono che la gelosia è amore e che l’amore è appartenenza, nel senso che è normale per una donna considerarsi essa stessa proprietà di un uomo. Il concetto che, se c’è violenza non c’è amore, non è ancora entrato completamente nella nostra mentalità. Le cause sono storiche: in una buona parte delle culture è sempre tanto che la donna è stata a lungo sottomessa all’autorità dei padri e dei mariti. Oggi assistiamo a un fenomeno particolare: anche se viviamo un periodo di emancipazione che permette alla donna di accedere a lavori di responsabilità, di scegliere liberamente chi frequentare, chi amare, sposare…, questo non esclude la presenza di asservimento e dipendenza. La donna può ancora diventare oggetto di proprietà dell’uomo da cui è difficile separarsi, esattamente come in tempi meno recenti, con la differenza che, prima, nessuna osava ribellarsi, e quando osava farlo veniva uccisa. La differenza sta nel fatto che oggi, grazie ai media, questi eventi non possono più essere nascosti. Il risultato di questa situazione, è che la violenza di genere si sta divulgando sempre più nella nostra realtà, interessa tutti gli stati sociali, le diverse modalità di relazione e di stili di vita. In genere, i carnefici sono conosciuti come brave persone che finiscono con l’uccidere la compagna o ex compagna: perché lei non lo ama, perché lo vuole lasciare… Sembrerebbe che una certa percentuale di “maschi” non sopporti l’idea di essere messo da parte da una donna. È sorprendente constatare quanti uomini ancora oggi credono di avere accanto non una donna ma un oggetto. Una suppellettile. Bello, perfetto, impeccabile e obbligato a rimanere in quella condizione. Se si ribella, merita di essere rotto. Il femminicidio è l’atto più esasperato, esistendo tantissime forme di violenza, fisica e psicologica, che ledono la dignità della donna. Quando ciò accade, la donna si riduce a un nulla. Denigrata e disprezzata con frasi che rimbombano tra le mura domestiche come fossero parole d’amore, la derisione e gli insulti atti, il senso di impotenza, fanno nascere in lei la percezione di non valere nulla e di non poter aspirare a niente di diverso, tanto da accettare l’isolamento da ogni relazione sociale fuori dalle mura domestiche. Prevenire queste forme di violenza non è facile poiché avvengono nelle case di gente comune. Spesso le donne che subiscono si chiudono nel dolore e nella sofferenza, mostrando una gaiezza di facciata, è inoltre purtroppo vero che, nella maggior parte dei casi, la donna si lascia così tanto sopraffare dalle dicerie del suo uomo, da convincersi di essere il vero e solo problema, e interpreta la rabbia, le mortificazioni e le umiliazioni che le vengono inflitte come qualcosa di normale o che “fa parte dell’amore”. La prevenzione dovrebbe cominciare cercando di sensibilizzare il più possibile le donne a denunciare. Una denuncia che difende, una denuncia che combatte, una denuncia che libera, una denuncia che illumina, una denuncia che salva la vita. Una denuncia che ogni donna può fare chiamando il 1522.

Prima di osservare la situazione dal punto di vista statistico, è utile esaminare il fenomeno dal punto di vista legislativo. Seguendo le direttive della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979), il Consiglio d’Europa ha intrapreso una serie di iniziative per promuovere la protezione delle donne

vittime di violenza: l’apice, a livello legislativo, è arrivato nel 2011 con l’approvazione della Convenzione di Istanbul. Questo atto rappresenta lo strumento internazionale, giuridicamente vincolante per gli stati, in cui per la prima volta si riconosce la violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione, includendo una serie di definizioni e obblighi che hanno portato all’adozione, nei diversi paesi europei, di differenti disposizioni e norme. In Italia, l’applicazione delle direttive dell’Unione europea si è materializzata con il decreto legge 93 del 2013, convertito poi nella legge 119/2013, in cui si prendono in considerazione maltrattamenti, violenze sessuali, atti persecutori, modifiche al codice penale, misure di prevenzione relative alla violenza domestica e azioni a favore dei centri antiviolenza e delle case rifugio. Tra questi si inserisce anche il protocollo EVA, Esame Violenze Agite, della Polizia di Stato: è una modalità operativa per il primo intervento in cui, attraverso una banca dati aggiornata, si cerca di anticipare e limitare le esplosioni di violenza. Nonostante tali interventi legislativi, il fenomeno dei femminicidi non accenna a diminuire. La caratteristica principale dei femminicidi è che maturano in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali, e il cui artefice è in genere il marito, il compagno, ex o meno. Nel dossier del Viminale del 1° agosto 2018 vengono esposti i dati sui femminicidi avvenuti tra il 1 agosto 2017 e il 31 luglio 2018: su 134 delitti commessi, 92 vittime sono donne e nella maggior parte dei casi, gli autori sono partner oppure familiari. A livello europeo, le statistiche dell’Eurostat dimostrano che il numero di omicidi commessi da partner è maggiore rispetto a quelli in cui l’autore è un familiare o parente. In un’altra analisi condotta dall’Istat, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, dove si prendono in considerazione le sentenze di femminicidio in Italia emesse tra il 2012 e il 2016 e i dati raccolti tra il 2010 e il 2015, viene evidenziato come questo fenomeno rappresenti l’85% dei casi. Nel documento vengono rilevati anche i dati relativi alle armi utilizzate: nella maggior parte dei casi si rispecchia la natura “primitiva” del gesto. La percentuale maggiore è riservata alle armi da taglio, comunemente presenti nell’ambito domestico; a seguire ci sono lo strangolamento e gli oggetti contundenti. Stando ai dati diffusi, sono in calo tutti i reati legati alla violenza di genere: maltrattamenti in famiglia, stalking, percosse, violenze sessuali. Allo stesso tempo, aumentano le segnalazioni di presunti autori di reato e le azioni di contrasto da parte delle donne.

1.Lo stalking. Nel periodo gennaio-agosto 2018 sono stati 8.414 i casi di stalking, a fronte di 9.905 nello stesso periodo del 2017 (con un calo del 15,05%). Le segnalazioni di presunti autori di questo reato sono invece aumentate, con un +4,49% (9.351 totali) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (8.949). In più, i soggetti ammoniti per stalking sono aumentati del 23%, passando da individui. Di questi, solamente il 19% ha commesso di nuovo lo stesso delitto dopo essere stato ammonito.

2.Maltrattamenti in famiglia. Sono diminuite anche le denunce per maltrattamenti in famiglia, segnando un -4,47% (da 10.682 a 10.204). Anche in questo caso, però, sono di più i presunti autori di reato segnalati all’autorità giudiziaria: in totale 11.801 individui sono stati denunciati, contro i 10.644 dello scorso anno. Ad aumentare, anche gli ammoniti per violenza domestica che nel periodo gennaio-agosto 2018 sono stati 538 (rispetto ai 409 dello stesso periodo nel 2017). A macchiarsi di recidiva, solo il 17% dei soggetti già ammoniti.

3.Violenza sessuale. I casi di violenza sessuale sono stati 2.977, a fronte di 3.189 nello stesso periodo del 2017 (-6,65%). Sono 3.217 i presunti autori di reato segnalati nel periodo gennaio-agosto 2018 (erano 3.011 nel 2017, quindi un +6,84%).

4.Percosse. Chiude la lista il reato di percosse, in diminuzione come tutti gli altri. Si è registrato in questo caso un -11,25% (8.718 totali contro le 9.823 denunce nello stesso periodo del 2017). In controtendenza rispetto a tutti gli altri dati, per questo reato si segnala una lieve diminuzione dei presunti autori denunciati che passano da 6.545 a 6.346 (-3,04%).

Dai dati diffusi dalla polizia, emerge che la Sicilia è la regione in cui le donne denunciano di più, seguita dalla Campania e dall’Emilia Romagna. Per quanto riguarda gli autori di questi reati, in media nel 27% dei casi si tratta di stranieri. Una percentuale che sale al 34% se si considerano i soli presunti autori minorenni. Secondo l’Istat, ci sarebbe una riduzione dei casi di cosiddetta “violenza leggera”, (molestie), mentre non sarebbe intaccato lo zoccolo duro della violenza nelle sue forme più gravi (stupri e tentati stupri). Ci sarebbe anche un aumento della gravità delle lesioni. Un dato reale è che un numero maggiore di donne dichiara di aver avuto paura per la propria vita, che soprattutto le donne più giovani interrompono la relazione alle prime avvisaglie, e che la reazione maschile all’allontanamento della donna diviene più violenta. Così diminuisce la violenza nell’insieme e aumenta il rischio di femminicidio. È da tener presente che, nella maggior parte dei casi di femminicidio, le donne avevano già denunciato ma il pericolo era stato sottovalutato, oppure non avevano denunciato per paura di ulteriori violenze, vivendo in un contesto sociale che ancora le colpevolizza e giustifica maltrattanti e maltrattamenti.

Affinché la violenza diminuisca realmente non occorrono nuove misure normative ma una corretta applicazione di quelle esistenti, essendo il problema reale la sottovalutazione della pericolosità della violenza maschile, della gravità delle condotte e dell’entità dei danni provocati, da cui derivano sentenze che applicano pene irrisorie e riconoscono attenuanti negate dai fatti. A ciò si aggiunge che le donne hanno bisogno e chiedono protezione nell’immediatezza della querela: una risposta superficiale o addirittura assente delle autorità rinforza i maltrattanti che, di conseguenza, aggravano la loro condotta perché avvalorati nella loro pretesa di impunità. Aggiungiamo il problema dei fondi destinati ai centri antiviolenza. Un’analisi della loro ripartizione e dell’efficacia della legge 119/2013 eseguita da Action Aid, dimostrerebbe che non è possibile stabilire se le risorse stanziate per il 2015-2017 siano state effettivamente rispondenti ai bisogni di prevenzione del fenomeno della violenza di genere e della protezione delle donne che la subiscono. Esiste inoltre un ritardo nell’erogazione dei fondi a livello centrale e regionale che mette a rischio la continuità e la qualità dei servizi e dei programmi dei centri.

 

Educazione sentimentale

L’altro fronte riguarda la prevenzione culturale e sociale. C’è stato sicuramente uno sforzo notevole e diffuso di sensibilizzazione, educazione e formazione a vari livelli, non è stata però implementata nessuna azione sistematica, che vada dall’educazione della prima infanzia fino alla trasformazione di comportamenti e atteggiamenti in età adulta. Inoltre, la trasformazione profonda della mentalità comune – che considera le donne come qualcosa che l’uomo ha diritto di possedere e che quindi non accetta di vedere allontanarsi – richiede tempi lunghi e un lavoro complesso, che non avviene in pochi mesi o in pochi anni. Nel nostro paese le soluzioni sarebbero più facili da attuare, se solo se ne avesse la voglia politica, e credo anche che una profonda analisi storica e sociologica aiuterebbe molto. Da convinta sostenitrice che l’educazione è fondamentale per il cambiamento delle mentalità, ritengo che la scuola dovrebbe essere incaricata di introdurre l’educazione sentimentale, poiché poco si può contare attualmente sulla famiglia, dove spesso il problema non è recepito. A volte sono esse stesse il problema. I giovani oggi si formano sui social, i media, i giochi, che rimandano loro una visione distorta della realtà, se alla scuola venisse delegato il compito di formare al rispetto, a quel che sono un uomo e una donna, prima di tutto persone con la medesima dignità, a cosa sono i sentimenti, cosa comportano…, a mio avviso assisteremmo a una progressiva ripresa di valori e di consapevolezza che faranno dei bambini, degli adolescenti meno problematici e magari degli adulti migliori. Se vogliamo avere una società paritaria, si può passare soltanto per una rivoluzione culturale, e questa va iniziata nell’infanzia. Ci vorrà del tempo, ma a mio avviso meno di quel che si pensa.

 

Written by Emma Fenu

 

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