FEFF 2019: Sezione Competition – “Door Lock” di Lee Kwon
Un genere che non (si) può mancare al Far East Film Festival di Udine è il thriller, le cui poetiche sono da tempo largamente esplorate, vagliate e gradite in Paesi dalla cinematografia energica come la Corea del Sud.
“Door Lock” di Lee Kwon si aggiunge al novero delle produzioni di livello medio, non meritevoli di particolare lode così come di severa infamia. Il giudizio complessivo difetta di per sé del necessario confronto col titolo originale di cui il film si fa remake, “Bed Time” del catalano Jaume Balagueró, a detta della critica più genuinamente perverso e cruento anche perché interessato a rendere lo spettatore onnisciente piuttosto che investigatore.
Kong Hyo-jin reinterpreta il ruolo affidato nel 2011 a Marta Etura, presentando la giovane Kyung-min come una donna sola, privata di alcuna amicizia al di fuori dello stressante ambiente di lavoro, trasferitasi da poco in un piccolo anonimo appartamento di un grande condominio nella ricerca di maggior sicurezza: l’inviolabilità della soglia di casa è infatti garantita da una serratura elettronica, il cui codice a quattro cifre viene cambiato periodicamente.
A partire da una notte in cui percepisce chiaramente la presenza di un estraneo intenzionato a irrompere nel suo monolocale, Kyung-min matura la consapevolezza di essere stalkerata da un essere dapprima senza volto né voce, poi incarnato forse da un individuo iroso e vendicativo incrociato allo sportello in cui esercita la professione; rivoltasi alla polizia, non riceve che un sostegno vago, quando non diventa deliberatamente sospettata di aver dichiarato il falso…
I soggetti deboli divengono le prede più facili: le parole dell’unica vera amica, che invita la collega a individuare i talloni d’Achille dei clienti affinché si prestino a una fidelizzazione sempre più marcata, assumono una connotazione assai più inquietante se riferite alla protagonista molestata, il cui timore di essere vulnerabile si tramuta giorno dopo giorno in amara coscienza, specie in quelle occasioni dove ella ha mancato della prontezza necessaria a ripristinare il controllo dell’agire proprio e del nemico.
Si tratta di un espediente narrativo che solo in parte aggira il pericolo di cadere nelle classiche banalità di scrittura, situate immancabilmente in corrispondenza dei momenti clou: la sprovvedutezza della vittima rischia di essere percepita, più che componente decisiva di una fisionomia del personaggio suscettibile di giustificati sviluppi, come sintomo di pigrizia creativa.
La natura dell’ingenuità è affine a quella di quei vizi che stanno alla base della disseminazione di numerosi indizi operata man mano che il mistero si infittisce, per cui gli snodi fondamentali del racconto finiscono per confondersi con una moltitudine di dettagli di minor importanza strategica, responsabili piuttosto di tirare l’epilogo un po’ per le lunghe, a sfavore di un’invece apprezzabile capacità di sintesi.
Si tratta dei noti difetti ascrivibili a un genere inflazionato, con tanto di serial killer psicopatico e incline agli squartamenti (ovviamente, è meglio si sorvoli sulla convenienza di esplicitare le ragioni di una tale mania): se però il pubblico è di quelli che ricercano anzitutto una buona dose di violenza visiva e uditiva, al punto di saltare più volte sulla poltrona, e sono soliti godere di una tensione alimentata con costanza e destrezza, è probabile che dalla sala esca soddisfatto.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni
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Rubrica Far East Film Festival