“Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto” di Claudio Poli: un documentario eccezionale
“Il fuggitivo più simbolico della modernità” ‒ Manuel Vazquez Montalban, scrittore
Un nuovo film documentario si inserisce nel progetto la ‘Grande Arte al Cinema’ in programmazione da oggi sino al 27 marzo 2019 nei cinema convenzionati.
Prodotto da Nexo Digital e da 3D il film, diretto da Claudio Poli su soggetto di Marco Goldin e sceneggiatura di Matteo Moneta, è dedicato a Paul Gauguin, uno fra i maggiori interpreti del postimpressionismo.
Ma chi era questo eclettico artista che ha lasciato la Francia per cercare ispirazione altrove, e non in patria?
Raccontare di Paul Gauguin non è facile, a causa della sua arte singolare e colma di pathos.
Ma il film celebra in maniera eccellente l’artista, grazie anche alla partecipazione di Adriano Giannini e ad un’originale colonna sonora a firma di Remo Anzovino.
Ma, prima di addentrarci nel resoconto filmico è utile fare un breve excursus sulla vita di Paul Gauguin. Nasce a Parigi nel 1848, ma per motivi legati alla sua famiglia d’origine trascorre la sua infanzia in Perù; ma ritorna a Parigi nel 1872. Ben presto, però, insofferente di tutto e di tutti, nel 1886 lascia la moglie e cinque figli e si trasferisce in Bretagna.
In questa terra aspra e selvaggia, Gauguin, attraverso la sua pittura, interpreta le espressioni di devozione popolare cogliendone la religiosità spontanea come il connubio tra sacro e profano, manifestazioni celebrate durante le feste pagane oppure durante i riti cristiani.
Sono occasioni in cui, sempre grazie alla sua pittura, Gauguin fa un lavoro di trasposizione: traduce le credenze di un mondo arcaico in espressioni semplificate, ridotte all’essenziale.
Dopo l’esperienza bretone Gauguin raggiunge Arles, dove con Van Gogh condivide una breve parentesi artistica; ma anche questa volta fugge, dopo una violenta lite che lascia Vincent Van Gogh prostrato e in preda a un delirio che lo porta a tagliarsi un orecchio.
“Io sono un selvaggio, un lupo nel bosco senza collare.” Paul Gauguin
Il suo successivo approdo sarà l’Oceano Pacifico, le isole polinesiane nello specifico, all’epoca entrate nella sfera di influenza francese.
Raggiunta la Polinesia, nel periodo compreso fra il 1891 e 1893, Paul Gauguin soggiorna a Tahiti, vivendo a contatto con una natura incontaminata. Alla ricerca di una maggior autenticità peregrina di isola in isola alla ricerca di elementi primitivi da cui poter trarre ispirazione artistica.
Ed è in questi luoghi esotici, colmi di particolare suggestione, che la cultura di Gauguin si incontra con quella polinesiana, mentre le modelle maori con i loro corpi sinuosi gli suggeriscono un nuovo canone di bellezza femminile.
In Polinesia resta fino al giorno della sua morte: era l’8 maggio del 1903.
“Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire”.
Personaggio singolare, Gauguin ha lasciato il suo mondo soprattutto perché uomo in conflitto con la società contemporanea in cui è inserito.
Il suo bisogno, quasi viscerale, è rivolgersi ad una società primordiale e simbolica; motivo per cui si distacca dalla visione impressionista, a suo parere, troppo dipendente dalla natura. Elemento questo da superarsi, onde rappresentare il proprio universo interiore. Lo strumento di cui Gauguin si serve per pervenire ad una nuova visione è il colore, intenso e fedele alla realtà.
L’artista serba in sé la convinzione di superare l’impressionismo, per dare spazio all’invenzione stilistica definita sintetismo; termine che rimanda a un tipo di pittura dalle forme semplificate e antinaturalistiche, gremite di un colore piatto dai toni accesi e violenti.
Un esempio concreto di quest’intuizione artistica di Paul Gauguin è l’opera Cristo giallo. Sintetismo, perché tale sistema pittorico, nelle intenzioni dell’artista, dovrebbe creare una sintesi fra piani e colori, al fine di dare forma ai colori e a quella visione interiore, nuova intuizione dell’artista, piuttosto che ad una percezione dell’immagine come avveniva nelle opere degli impressionisti.
Gauguin abbandona l’impressionismo per restituire all’immaginazione un nuovo significato, e persegue una ricerca personale sulle proprie emozioni e sulle origini simboliche dell’espressione artistica.
Nella sua pittura, ispirata all’arte primitiva e alle stampe giapponesi, adopera colori puri, piatti e contrastanti, scomponendo e appiattendo i piani visivi.
“Gauguin fu anche l’artista delle avventure travagliate, delle fughe dalla moglie, dai figli, dagli amici e maestri come Camille Pissarro, dal quale Gauguin assorbì lo stile impressionista poi fortemente personalizzato.”
Chi siamo, donde veniamo, dove andiamo? Si chiese a un certo punto Paul Gauguin.
E, a rispondere alle domande che l’artista si poneva è il docufilm Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto. E lo fa sulle tracce della vita di un personaggio dall’animo inquieto, diventato in seguito un mito. Da prima attraverso i grandi musei americani dove sono conservati i suoi più grandi capolavori.
Dal Metropolitan Museum di New York, al Chicago Art Institute, alla National Gallery of Art di Washington, al Museum of Fine Arts di Boston. E poi la geografia dei posti che ha eletto a luogo della sua anima, la Polinesia soprattutto.
Inoltre, gli interventi di autorevoli addetti ai lavori fanno da corollario a una pellicola esaustiva e di grande valenza artistica.
Considerato tra i maggiori interpreti del postimpressionismo, la sua pittura primordiale è illustrata nel film attraverso l’utilizzo di particolari tecniche di ripresa, che consentono allo spettatore di seguire il percorso umano e artistico di Gauguin.
Le sue inquietudini, le motivazioni per cui ha scelto di rifugiarsi in quello che lui riteneva essere l’eden sono ben evidenziate nella pellicola. Luoghi che, nonostante la sua vita travagliata, ispirarono i suoi più grandi capolavori.
Ed è proprio il punto di vista scelto dal regista, che va a confermare la rivoluzione messa in atto da Gauguin nella storia dell’arte dove, in un equilibrio che non conosce spazio e tempo, emergono con forza in quelle immagini polinesiane dai colori brillanti e particolarmente accesi.
Rivoluzione sì, ma forse incompiuta, perché attraverso il film si avverte anche la storia del fallimento di Gauguin, soprattutto perché l’artista non fu capace di affrancarsi dalla propria origine di uomo legato alla modernità.
Il suo, quindi, è rimasto una sorta di paradiso perduto, come si evince da alcune parole scritte dallo stesso, e brani tratti da lettere spedite a familiari e ad amici.
“Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me.”
Written by Carolina Colombi
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