Lo Haiku #2: le caratteristiche peculiari della poetica ed il concetto del non-detto
Scopo di questo secondo articolo è quello di trattare delle caratteristiche e peculiarità che contraddistinguono il genere poetico dello haiku, genere unico nell’intero panorama della letteratura mondiale che, nonostante la sua brevità e concisione, non perde, nel modo più assoluto, evocatività e forza espressiva ma, al contrario, queste connotazioni ne amplificano la sua portata.

Esamineremo, quindi, gli elementi distintivi che ritroviamo nel genere haiku, sperando così di fornire al lettore le nozioni di base per poter comporre uno haiku corretto da un punto di vista stilistico-formale.
Ricordiamo che ogni haiku viene definito come un componimento “aperto” nel senso che è compito del lettore completare l’interpretazione e i possibili significati evocati dallo haijin (scrittore di haiku), a tal proposito ebbe a dire Ogiwara Seisensui (1884–1976): “Ciascun haiku è come un cerchio, di cui una metà è frutto del lavoro dello haijin, chiudere il cerchio è però compito del lettore”. Da queste considerazioni nasce l’importanza di non iniziare mai un componimento haiku con la lettera maiuscola o apporre il punto alla fine dello stesso. Ma andiamo a vedere, più nello specifico, su che cosa vertono le caratteristiche salienti di un buon haiku.
Il metro. Un componimento haiku in lingua italiana segue una metrica prestabilita, ossia presenta un numero di sillabe precise, al primo verso (kamigo) abbiamo cinque sillabe, al secondo verso (nakashichi) sette e al terzo (shimogo) ancora cinque sillabe. Quindi tre versi che seguono lo schema 5/7/5 sillabe. Questo particolare tipo di metro viene usato perché è stata storicamente provata la miglior resa fonetica rispetto ad altre forme e modelli in lingua giapponese; in italiano, quindi, si adatta e si adotta il “calco” del modello nipponico a questo particolare metro che, secondo le direttive dell’ex Associazione Italiana Haiku (AIH), può sussistere sia nella maniera del conteggio sillabico ortografico sia nel metrico.
Il conteggio sillabico metrico segue, evidentemente, le regole della metrica italiana fra cui l’uso della sinalefe, della doppia sinalefe e della posizione dell’accento tonico sulla parola a fine verso (es. parole sdrucciole, piane e tronche): ciò che è importante precisare è che, in un preciso componimento haiku, non è possibile mescolare i due diversi tipi di conteggi sillabici: se si parte con l’ortografico si seguirà esso per tutto il componimento, se, invece, si decide di adottare il metrico si dovrà proseguire con questo.
È lasciata libera scelta allo haijin quale dei due conteggi sillabici adoperare. Altra cosa da ricordare è che, in poesia haiku, abbiamo il rifiuto di qualsiasi impianto rimico: non è lecito, quindi, far rimare fra loro le parole a fine verso.
Esempi dei due diversi tipi di conteggio sillabico:
“luna velata -/ solo una cicala/ in questa notte” (qui è stato usato il conteggio sillabico ortografico)
“sole al tramonto:/ si infiammano anche i petali/ di quei papaveri” (qui, invece, è stato usato il conteggio sillabico metrico con sinalefe e parole sdrucciole a fine verso).
Altro elemento caratterizzante della poesia haiku è il “termine stagionale” (kigo) e/o il “tema stagionale” (kidai): uno haiku, per esser tale, deve possedere il riferimento stagionale. Questo vuol dire che uno haiku necessita di essere contestualizzato indicando in che periodo dell’anno ci si riferisce o nel quale ci troviamo, almeno che non lo si voglia considerare in una categoria a parte cioè un “muki”, ossia uno haiku senza riferimento stagionale.
Per kigo (i.e. “termine stagionale”) intendiamo un termine specifico che fa capire al lettore il periodo dell’anno preciso a cui lo haijin si riferisce: esso può essere diretto o indiretto. Diretto se viene espressamente menzionata la stagione, esempio:
“toccata dal filo/ della canna da pesca:/ luna d’estate”
Indiretto se viene adoperato un termine, che può essere un animale, una pianta o un fiore, una festività o un fenomeno atmosferico, che metonimicamente induca a comprenderne la stagionalità alla quale è riferito il componimento.
Esempi di kigo indiretti: la neve per l’inverno, la margherita per la primavera, la nebbia per l’autunno e la lucciola per l’estate.
Il kigo rappresenta il fulcro, il centro di una poesia haiku perché è grazie ad esso che lo haijin esprime il proprio sentire attraverso il dato naturalistico: dire, ad esempio, “sfiorisce il ciliegio” o “sboccia il ciliegio” rimanda a sentimenti sottostanti al dato naturalistico ed è attraverso questo che il poeta di haiku esprime i suoi moti emotivi interiori. In uno haiku, dunque, molto raramente emozioni e stati d’animo vengono espressi in maniera diretta dallo haijin bensì essi vengono mediati e filtrati. Ciò è reso possibile dallo hon’i (“significato originale”) di ciascun kigo: proprio per la presenza dello hon’i si supera l’immagine naturale espressa per arrivare alle emozioni che dipendono da tali immagini (es. “sfiorisce il ciliegio” come sentimento sottostante di transitorietà delle cose, caducità, nostalgia ossia il “mono no aware”).

Esempio:
“cade una foglia di paulonia -/ perché non vieni/ nella mia solitudine?” ‒ Matsuo Basho (1644-1694)
Per kidai, invece, s’intende un “tema stagionale” cioè un periodo di tempo relativamente ampio suscettibile di ulteriori dettagliamenti nel corso del componimento stesso. Esempio di kidai: “raccolta dei narcisi”, “campo di grano”.
Ci si potrebbe chiedere il perché e quale sia l’origine di questa caratteristica peculiare di definire il periodo dell’anno nella poesia haiku, ebbene la risposta è da ricercarsi nella storia e nella nascita di questo genere poetico quando si istituivano le così dette “poesie collaborative” o “renga” in cui i primi tre versi (all’epoca chiamati hokku dal quale deriva lo haiku moderno) erano quelli più importanti per la buona riuscita del componimento ed erano anche quelli in cui l’intera poesia collaborativa veniva contestualizzata con il riferimento stagionale: è quindi nella storia dello haiku che affondano le radici di questo tratto distintivo del kigo/kidai.
Nella maggior parte degli haiku, anche se non in tutti, inoltre troviamo una pausa, una cesura al termine del primo verso (o primo ku) o alla fine del secondo (secondo ku): è lo stacco (kireji).
Il kireji ha come scopo quello di indurre nel lettore una sospensione del giudizio e/o creare un effetto suspance ma, cosa ancor più importante, è che il compito preciso dello stacco è suggerire un cambio d’immagine in chi legge. Infatti la stragrande maggioranza degli haiku presenta due immagini distinte “giustapposte”, ossia collegate, fra loro ed è proprio lo stacco che rende evidente il cambio fra queste due immagini distinte. Lo stacco è reso in italiano attraverso l’uso dei segni interpuntivi come il trattino, la virgola o i due punti; c’è da aggiungere che abbiamo due possibili modi di inserire lo stacco in uno haiku a seconda di come l’Autore propone le diverse immagini al lettore:
V.1: prima immagine (stacco)
Vv.2-3: seconda immagine
Oppure
Vv. 1-2: prima immagine (stacco)
V.3: seconda immagine
Esempi:
Primo caso: “vento fresco -/ sui campi verdi/ un’ombra di nube” ‒ Morikawa Kyoroku (1656 – 1715)
Secondo caso: “c’è una meta/ per il vento dell’inverno:/ il rumore del mare” ‒ Ikenishi Gonsui (1650 – 1722)
In rari casi può succedere che lo stacco cada all’interno del verso e non alla fine di esso, in questo caso la cesura prende il nome di “chukangire”. Sottolineo, comunque, il ruolo dello stacco nel caso in cui lo haiku sia costituito da due immagini distinte (toriawase).
La toriawase non è una prerogativa di tutti i componimenti haiku: abbiamo cioè anche degli haiku in cui la toriawase (i.e. la giustapposizione di due immagini distinte in una poesia haiku) non è presente perché il componimento in questione è formato da una sola immagine, ciò implica che nemmeno lo stacco sarà presente appunto perché non c’è nessun cambio d’immagine.
Esempio di uno haiku che presenta una sola immagine sviluppata nei tre versi:
“ad una ad una/ si affacciano nel freddo/ le stelle” – Tan Taigi (1709 – 1771)
Ora andiamo ad esaminare più nel dettaglio lo stacco con questo celebre componimento:
“nel vecchio stagno / una rana si tuffa:/ rumore d’acqua” ‒ Matsuo Basho (1644 – 1694)
Questo è fra i più famosi, se non il più famoso, haiku in Occidente del Maestro Basho. In esso lo stacco (espresso dai due punti alla fine del secondo verso) ha un valore sia visivo sia sonoro e sia concettuale: ha valore visivo perché ci indica che lo sguardo distoglie l’attenzione dalla calma piatta dello stagno per focalizzarsi sul tonfo della rana; sonoro perché l’attenzione acustica si sposta dal silenzio al rumore dell’acqua; concettuale perché abbiamo un cambio d’immagine con una lieve sospensione o incertezza di senso. È comunque importante ricordare come il kireji, pur creando uno stacco fra gli elementi e le immagini non li separa totalmente ma li rende compresenti in un’unica scena.
Bisogna inoltre tener presente come nella poesia haiku si miri a realizzare quello che i giapponesi chiamano “kikan” ossia il binomio inscindibile Uomo/Natura, anche questo concetto possiamo annoverarlo fra quelli caratteristici del genere haiku: questo tipo di poesia può venir considerato come una sorta di modello di approccio alla realtà, come una specie di collante fra l’Io poetante e l’Altro, la realtà esterna. Non solo, il tempo dello haiku, come quello di tutta la poesia, è adesso, è il qui ed ora, altro valore peculiare della poetica haiku, dunque, è essere completamente e totalmente nel tempo presente in questo preciso istante, in questo preciso luogo. Suggerire più che dire esplicitamente, mostrare più che dimostrare sono valori importanti e pregnanti della poesia haiku ed è proprio dello haiku il carattere fondante del “non-detto”: gli spazi bianchi fra le parole di uno haiku hanno ugual peso (se non più valore) delle parole stesse!

Abbiamo esaminato gli elementi caratteristici principali del genere haiku: metro, kigo/kidai, stacco, toriawase, kikan, lo hic et nunc e il non-detto.
Resta da dire che tutte queste peculiarità ancora non bastano per comporre un buon haiku: ci sono componimenti che sebbene rispettino da un punto di vista stilistico-formale tutte queste caratteristiche ancora non possono venire considerati veri e propri haiku nel senso più stretto e dogmatico del termine. Questo perché, affinché si possa scrivere un buon haiku, è necessario calarsi in quello che io chiamo lo “spirito dello haiku”: uno stato mentale nel quale un particolare significativo della vita quotidiana si cristallizza in una goccia di poesia, in uno haiku appunto.
Concludo questa disamina sulle peculiarità del genere haiku adattando un vecchio adagio, caro agli gnostici, a questo genere poetico: “Un buon haiku: 1 su 1.000, 2 su 10.000” ma questo non può e non deve scoraggiarci dal tentare di produrre nuovi splendidi e pregnanti componimenti haiku.
Written by Antonio Sacco
Bibliografia
– Haiku: il fiore della poesia giapponese; Mondadori 1998
– La poesia salva la vita; Donatella Bisutti – Mondadori 2009
– La luna e il cancello. Saggio sullo haiku; Luca Cenisi – Castelvecchi Ed.
– Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi; Arena – BUR
– Yves Bonnefoy, Sull’haiku – O barra O Edizioni
Info
Articolo “Lo haiku come modello di approccio alla poesia”