“Age of consent” di Marti Leimbach: la difficoltà delle vittime di stupro a raccontare gli eventi
California. Barbara è una donna di quarant’anni che conduce una vita mediamente serena. Un divorzio alle spalle, un lavoro stabile e una casa appena rimodernata.
Il giorno in cui riceve un’email da Daniel, il suo primo amore, Barbara è confusa: secondo Dan, il patrigno di Barbara, Craig, è sotto processo per stupro minorile. In allegato all’email c’è un articolo di giornale. La ragazza che ha denunciato Craig sostiene di aver avuto ripetutamente rapporti sessuali con l’uomo. Craig viene dichiarato innocente, ma Dan incoraggia Barbara a denunciare a sua volta il patrigno.
Barbara, spinta da un senso di lealtà nei confronti della ragazza, decide di raccontare alla polizia quanto è accaduto con Craig quando aveva 13 anni, prima che Craig sposasse sua madre. Quando la data del processo si avvicina, Barbara si imbarca su un volo per il Maryland, luogo della sua infanzia dal quale è scappata quando aveva 15 anni.
June, la madre di Barbara, non ha avuto contatti con sua figlia da allora, ma decide di andare a trovarla nella stanza del motel in cui è alloggiata per convincerla a non testimoniare contro Craig. Sua figlia rifiuta e la costringe a tornare a casa, decidendo tuttavia di non segnalare alle forze dell’ordine e al suo avvocato quanto accaduto.
June testimonierà in favore di Craig, ma Barbara sa che sua madre non potrebbe mai mentire su quanto è accaduto. Testimonianza dopo testimonianza, il processo arriva al verdetto.
“Age of consent” di Marti Leimbach non è un romanzo facile e non è neppure scontato.
La violenza psicologica, prima ancora di quella sessuale, che viene raccontata fa venire i brividi e rende impossibile una lettura scorrevole. La trama non dà tregua: si continua a leggere, rivelazione dopo rivelazione, fino a che non si arriva alla fine. D’un fiato. E quando si gira l’ultima pagina, è come se terminasse finalmente un processo in cui abbiamo preso parte noi stessi. I flashback e le testimonianze prendono per mano il lettore e lo costringono a sperare in un lieto fine.
La prima tematica che salta agli occhi è la difficoltà che hanno le vittime di stupro, specialmente se sono passati anni dal fatto, a convincere una giuria a credere a ciò che raccontano. La seconda è il problema davvero cruciale del romanzo: come può una famiglia sopravvivere a un’accusa di stupro nei confronti di uno dei suoi membri?
Come si fa a scegliere da che parte stare?
Come ci si assicura di aver scelto la parte giusta?
Ma la tematica che mi ha davvero commossa, e che si intuisce solo a metà romanzo, è la solitudine, che si traduce in una ricerca di una vita migliore, di una felicità (coniugale e non) che continua a sfuggire. Tantissimi problemi nel mondo nascono dal senso di solitudine che ci sommerge.
Non è un romanzo per tutti, ma dovrebbe esserlo. Al di là del peso della storia, del coinvolgimento emotivo che questa implica, ci sono messaggi importanti, come quello di essere meno egoisti, di non pensare sempre a ciò che si desidera.
Di ascoltare i propri figli, di leggere tra le righe, di fare loro domande, di non sottovalutare i loro sentimenti.
Di avere rispetto per il proprio corpo, di volersi bene, di non permettere a nessuno di portarci via l’autostima.
Di non credere a chi ti dice che sei speciale, perché come diceva Jovanotti “i complimenti costano poco e certe volte non valgono di più”. Di ricordarci, insomma, che possiamo fare la scelta giusta.
Nel complesso, credo sia un romanzo imperfetto perché, almeno nel mio caso, se ne saltano moltissime frasi, dato che si ha fretta di sapere come andrà a finire. Nello specifico, si saltano i passaggi nel bosco, si saltano alcuni dei pensieri dei personaggi e si attende con ansia il momento in cui June testimonierà.
Il rapporto tra June e Barbara è degno di una seria riflessione a fine lettura, che qui non farò per evitare di spoilerare la trama. Per quanto possa essere un romanzo doloroso, ha comunque un suo spessore e un suo ritmo, scandito da una struttura piuttosto complessa, e merita di essere letto.
Su una nota molto meno letteraria, ho trovato interessate come Barbara si decida a sporgere denuncia a seguito del verdetto del processo della minorenne. È qualcosa che accade anche nel mondo reale: molte vittime di stupro denunciano i propri aggressori perché “così non potrà farlo ad altre” oppure “perché so di non essere l’unica a cui lo ha fatto”.
Questo fattore è spesso sminuito, si pensa che le donne sporgano denuncia in massa dopo #meToo perché è diventato una moda. Non è così. Le donne denunciano, o meno, perché vogliono proteggere altre donne, perché vogliono giustizia per sé e per le altre, ma soprattutto perché la cultura oggettificatrice del corpo femminile deve terminare.
Una lettura da affrontare con calma, in un momento sereno della vita. Ma soprattutto, da leggere con mente e cuore aperti.
Written by Giulia Mastrantoni