Le Isole Mobili: “Le Isole Mirabili” di Angelo Arioli ed il passaggio dall’archetipo al mito dell’Isola
Dall’Isola Combusta e dall’Isola di Ǧāšk riprendiamo la nostra navigazione incontrando alcune Isole Mobili tratte da “Le Isole Mirabili ‒ Periplo arabo Medievale” di Angelo Arioli, pubblicato dalla casa editrice Giulio Einaudi Editore nel 1989. Di seguito potrete addentrarvi nei racconti di Ibn Wasīf Shāh e di Al-Himyarī.
“E v’è un’isola con case e cupole bianche che appaiono e prendono forma agli occhi dei naviganti che subito anelano di giungervi. Ma più s’avvicinano, più quella s’allontana, e insistono finché disperati non volgono altrove.” ‒ Ibn Wasīf Shāh
“È un’isola che appare ai marinai i quali vorrebbero approdarvi ma, quando credono d’averla avvicinata, quella da loro s’allontana. Talvolta passano così giorni e giorni senza poterla toccare. Nessuno di quelli che vanno per mare dice d’averla mai raggiunta, ne d’esservi sceso, eppure vi scorgono persone, animali, costruzioni, alberi.” ‒ “Isola di Sarīf” di Ibn Wasīf Shāh
“c’è nell’Oceano un’isola visibile a distanza nel mare; quando qualcuno vuole avvicinarla, quella s’allontana celandosi, ma se quegli torna la donde era partito, di nuovo, come prima, la vede.
Si dice che su quell’isola c’è un albero che col montare del Sole cresce fino a mezzogiorno, poi torna a decrescere fino al tramonto del sole.
I marinai affermano che in quel mare v’è un pesce chiamato al-Sakil: chi lo porta con se riesce a scorgere l’isola, che più non scompare, e a entrarvi. Cosa questa che avvince e sorprende.” ‒ Ibn Wasīf Shāh
“Nel mar Verde v’è un’isola che appare per sei mesi, e per gli altri sei, con tutto ciò che v’è sopra, scompare. E ritorna sempre alla stessa maniera. Si dice che sia un’isola mobile” – Ibn Wasīf Shāh
“… concordi attestano i marinai l’esistenza dell’Isola Mobile e tra loro v’è chi pretende d’averla ripetutamente veduta, senza nutrir dubbio alcuno. È un’isola con monti, alberi, costruzioni e quanto il vento soffia da Occidente, si sposta a Oriente; a Occidente se il vento soffia da Oriente: tale è il suo costume.
Le pietre di quest’isola, si rammenta, sono sottili, leggere assai; quelle enormi che peserebbero quintali, sono una decina di chili e anche meno. Senza avvertirne il fardello si possono portare sulle spalle enormi pezzi di montagne.” – “La Mobile” di Al-Himyarī
Dall’affascinante lettura di questa breve serie di racconti, appare evidente il filo conduttore che lega queste isole: le isole sfuggono al navigante, e per questo egli desidera giungervi.
Salvo rari casi, quando il navigante riesce a sbarcarvi, quali che siano le meraviglie trovate sull’isola raggiunta, questo riparte verso più salde e reali coste.
Facciamo un passo indietro nel tempo, sino al “tempo del mito” e trasliamo dal grande Oriente al mondo greco narrato da Omero: scampato alla terra dei Ciclopi, Odisseo riprese il viaggio e giunse in Eolia, un’isola galleggiante, protetta da un muro di rame infrangibile e da un’alta scogliera, impossibile da scalare. Ne era re il dio dei venti Eolo. Questi lo accolse con molta cortesia, gli chiese di Troia, della flotta dei Greci e dei Nostos. Odisseo rispose.
Dopo un mese giunse l’ora di partire ed Eolo gli donò un otre che imprigionava i venti tempestosi, lasciò fuori solo Zefiro, un vento leggero che avrebbe dovuto favorire una tranquilla navigazione.
Odisseo tenne il timone per nove giorni e altrettante notti e, quando giunsero nel decimo giorno vicini alla patria, lo sorprese il sonno. I compagni di Odisseo, sospettando che l’otre custodisse cose di gran valore, una parte delle quali spettava anche a loro, lo sciolsero.
Tutti i venti uscirono con furia, provocarono una violentissima bufera e sospinsero le navi verso l’isola da dove erano partiti. I dodici figli di Eolo si meravigliarono nel rivederli e ammutolirono, dopo aver sentito la giustificazione di Odisseo, ma Eolo, sdegnato, li cacciò via, negò loro asilo ed aiuto, convinto di avere da fare con gente maledetta dagli dei, come dimostrò anche il sonno che prese Odisseo in vista della patria.
Nelle Argonautiche invece, Giasone ed i suoi compagni devono superare l’ostacolo delle Simplegadi, due rupi semoventi che cozzano tra loro nel Ponto Eusino (Stretto dei Dardanelli) e che nessuno è mai riuscito a superare.
Gli Argonauti possono però contare sui consigli dategli dal veggente Fineo, grato di essere stato salvato dalle Arpie. Il consiglio di Fineo è di lanciare una colomba verso le rupi: se la colomba le supera indenne, possono superare le Simplegadi senza timore, altrimenti conviene desistere dall’impresa. Al momento di riprendere il viaggio si alzano i venti del nord, gli Etesi, che impediscono per giorni e giorni la partenza.
Prima di partire, quando i venti ritornano favorevoli, gli Argonauti erigono un altare agli dei dell’Olimpo e prendono la colomba consigliata da Fineo. Eufemo era costretto a tenere stretta la colomba, per paura che volasse. La dea Atena, vedendoli partire, li seguì su una nuvola.
Quando gli eroi arrivarono allo stretto, un vortice prese la nave da sotto, ma gli Argonauti, seppur con timore, proseguirono. Quando le rupi si aprirono, Eufemo liberò la colomba, che riuscì a passare indenne, perdendo solo le piume della coda fra le rocce che si chiudevano. Allora Tifi ordinò di remare velocemente. Prima che la nave venisse sommersa, Tifi ordinò di alleggerirla gettando a mare tutto il carico. Ma ogni volta che la nave si muoveva, la corrente la riportava indietro.
Atena spinse la nave con la mano destra e questa riuscì a superare lo stretto. Nella fase finale del passaggio gli argonauti piombarono in quella rassegnata impotenza che è il tema ricorrente di tutta l’impresa e che diventò totale durante il viaggio di ritorno.
Il passaggio venne prima percepito, sentito; quando lo videro furono colti da un grandissimo terrore. Le rocce vengono descritte in modo molto dettagliato, e la colomba riesce a passare tra le rupi, anche se con fatica, unico segno divinatorio che anch’essi riusciranno nell’impresa.
Una scuola di pensiero vorrebbe interpretare queste isole come avvistamenti di bestie marine, terremoti e vulcani, ma altri racconti ci dimostrano che questa seconda tipologia di “isole” è ben identificata in altri racconti come “isola vivente”.
Possiamo identificare in queste storie il tentativo di correlare il mito a un’origine per così dire “naturale”, lontana dalla fantasia dei naviganti. Nelle numerose descrizioni l’isola vivente assume forme diverse, in cui l’elemento animale può essere costituito da un pesce, una balena o, più raramente, da una tartaruga.
Buzurg ibn Shahriyàr Ram’Hurmuzi, capitano di una nave mercantile persiana, nel suo “Libro delle meraviglie dell’India”, in cui narra mezzo secolo dei suoi viaggi (900-953 d.C.), ci offre questa descrizione: “Avvistai di prua qualcosa che rassomigliava a un’isola. Accostai e la raggiunsi in un attimo, ma quella mi colpì: era una bestia marina sconosciuta. Non appena si accorse della nave, la colpì mandandola in pezzi”.
Nella metafora della navigazione della vita, l’avventura è foriera di tempesta, bonaccia, contemplazione di spazi infiniti e sacro terrore di essi, ma anche di orizzonti nuovi e sconosciuti.
Senso di smarrimento, superamento delle sfide, esplorazione: niente più di un viaggio per mare riesce a richiamare al lettore la piccolezza dell’uomo di fronte alla potenza del cosmo, di forze naturali incontrollabili, del senso di solitudine dell’esistenza.
Viaggiare per mare assume il significato di avere il coraggio di attraversare gli sconfinati territori di una geografia senza limiti.
Osare perdere ogni riferimento, abbandonandosi all’elemento primordiale per eccellenza, l’acqua, incubatrice di ricordi ancestrali e di mistero. Spingendosi ai limiti del mondo conosciuto, fino ai confini con l’aldilà, il navigatore diventa esploratore della propria anima.
Nel mito, il viaggio reale e quello psichico coincidono: l’uno spiega l’altro e ne determina il senso.
La caratteristica degli archetipi è invece quella di manifestarsi alla coscienza in immagini (immagini archetipiche) che mantengono ancora oggi un significato propositivo per ognuno di noi e che si legano e si intrecciano con gli eventi della nostra vita reale e oggettiva.
L’isola assume così una fortissima valenza iniziatica. L’approdo in essa definisce sempre l’accesso a un livello di consapevolezza e di evoluzione spirituale che segnano la storia personale in modo definitivo. Un’altra caratteristica fondamentale degli archetipi è la loro duplicità, la compresenza degli opposti, e in questa loro funzione possono assumere un aspetto positivo quanto negativo.
L’isola è già di per sé una metafora. Di volta in volta nella letteratura è stata proposta come immagine della lontananza, della purezza, della libertà, della costrizione e dell’imprigionamento, dello stato di natura, dell’impervietà, del laboratorio del possibile, del paradosso, dell’insolito, della fuga, della felicità e della bellezza realizzabili, della limitazione, della deprivazione, della vita da poter vivere, del premio raggiungibile.
Immagini contrastanti, sempre capaci di evocare forti sentimenti, perché la sua definizione avviene sempre in base ad elementi in forte contrasto. Si potrebbe affermare che un’isola è una realtà che non riesce mai a passare inosservata, in virtù del fatto che essa si definisce esattamente in rapporto a tutto quanto le sta intorno: essa si caratterizza in modo diverso rispetto a ciò che la circonda, stabilendone in qualche modo un legame di continuità che la differenzia e la connota-denota, ma senza escluderla totalmente.
Nel secondo libro della Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, è contenuta una celebre metafora sull’isola:
“Il territorio dell’intelletto puro […] è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra delle verità (nome seducente!) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.” ‒ Critica della Ragion Pura, Kant
Secondo Kant, il territorio dell’intelletto si fonda su qualcosa di solido, il terreno dell’esperienza sensibile. Ci troviamo nel regno del fenomeno. E quello che l’intelletto conosce è conoscenza certa, è verità. La verità, infatti, poggia su un sistema di strutture conoscitive immutabili (le intuizioni a priori e le categorie dell’intelletto), che ricevono dal terreno dell’esperienza i dati e li organizzano.
L’isola diventa il campo dell’analitica, separata dalla dialettica da un confine (le quali rientrano entrambi nella logica trascendentale).
Quando l’uomo si spinge oltre i confini dell’isola (e quindi oltre i limiti dell’intelletto e dell’esperienza, nel campo della dialettica), alla ricerca di nuove terre, del noumeno, il mare in tempesta ha sempre la meglio, o l’isola sfugge.
Nonostante questo, l’uomo è continuamente spinto a superare i propri limiti di conoscenza.
L’isola non comporta, di per sé, l’aspetto dell’isolamento, ma questo può però essere costruito, per motivi propri o a causa dell’atteggiamento mantenuto da chi vi vive o vi naviga vicino.
Ed ecco perché le isole vengono talora lette come archetipi dello stesso spazio immaginario, non perfettamente conosciuto, della differenza e dell’estraneità (ovvero dell’isolamento).
L’interpretazione del concetto di “Archetipo” suggerita in tempi a noi più vicini, da Elémire Zolla si fonda su considerazioni inerenti l’esperienza metafisica che ogni uomo può vivere durante la propria esistenza: tale esperienza si propone come il filo conduttore dell’intero patrimonio culturale dell’umanità, dall’Estremo Oriente, all’India, al mondo classico, all’Africa, all’Europa e all’intera società occidentale di oggi.
L’archetipo è per Zolla essenzialmente una “esperienza metafisica”, intesa come chiave capace di aprire a ciascuno di noi l’enigma dell’esistenza umana; è in questa luce che l’“Archetipo” consentirebbe all’uomo di rendersi padrone della propria esperienza di vita, sia che si tratti di politica, sia che si tratti di poesia, come di collocarsi adeguatamente nella dialettica fra soggetto e oggetto, o per dirla meglio, fra conoscente e conosciuto.
Di nuovo si affaccia la questione dibattuta in Platone: sebbene la distinzione fra mito e ragione sia intuitivamente evidente, risulta difficile anche a Platone stabilire con precisione quali siano la natura e i procedimenti del pensiero mitico, tanto che sulla questione si è sviluppato un dibattito che accompagna l’intera storia della filosofia occidentale.
Durante tale lungo percorso si sono alternate due interpretazioni: il mito, incapace di provare razionalmente le proprie affermazioni, è apparso, ed è stato definito, come una forma di intellettualità imperfetta, contrapposta e subordinata al percorso logico.
D’altra parte però, si è anche fatto osservare che il mito possiede sempre una propria coerenza interna, dimostrandosi comunque capace di esprimere livelli “profondi” di sapere, attraverso l’impiego di procedimenti pre-razionali, simbolici, estetici, col ricorso anche alla funzione dell’Archetipo.
Nel quadro complessivo di più o meno marcata “condanna” del pensiero mitico espressa dalle diverse filosofie del mondo classico, era stato proprio Platone a costituire un’eccezione, sia pur parziale, in quanto egli non esitò a sfruttare la capacità del mito di “esprimere l’indicibile”, ossia di esprimere intuizioni profonde “secondo verosimiglianza”.
Nella letteratura araba medievale, l’isola mobile, si differenzia dagli altri mirabilia, e assume le sembianze di un miraggio all’inverso: in un mare di sabbia, la visione è quella dell’acqua. In un deserto d’acqua, la visione è quella della terra.
Interessante risulta a questo punto l’interpretazione che Angelo Arioli fa del lemma sarāb ‒ miraggio – termine di origine persiana, derivante dall’aramaico šerab. La moderna lingua araba definisce questa parola come “ciò che si scorge di giorno, acqua”, ma Arioli si spinge oltre, e risalendo alla radice s-r-b, il significato viene connesso all’espressione di due gruppi concettuali: il primo all’idea di “andare liberamente per la propria via”, e il secondo di “colare, filtrare”, e nessuna delle due interpretazioni è riconducibile al concetto di miraggio.
A confondere ancora di più le idee, arriva dalla toponomastica persiana il nome Ra’s Sarāb – Capo Miraggio – a indicarci nel mondo fisico e nella cartografia un lembo di terra che non è isola, ma non è neanche acqua. In opposizione al puro fenomeno ottico, abbiamo un altro possibile miraggio: quello che partendo dall’occhio dell’osservatore visionario proietta su una qualsiasi superficie le immagini della propria fantasia.
Odisseo torna vecchio e stanco dagli anni di faticosa ricerca di sé. Il suo viaggio si è compiuto anche attraverso l’incontro con le diverse dimensioni del femminile. Il suo è il ritorno di un uomo rinnovato nella maturità conquistata, pronto a guardare la propria storia con occhi nuovi. Quello che Carl Gustav Jung chiamava “l’archetipo Odisseo” vive in ognuno di noi. L’Odissea è l’epos di ogni individuo, che anche nel peregrinare più remoto non può mai fuggire da se stesso. La forza di trasformazione insita in ogni viaggio parla alla nostra parte più profonda. Le isole, nelle turbolenze del viaggio, ci offrono orizzonti da contemplare. Per lasciarsi affondare nel tempo…
Ad Occidente, i visionari di altri tempi proiettavano, cercavano, e vedevano, nell’irragiungibile Isola del Paradiso (che troviamo anche nella letteratura Orientale), il simbolo di uno stato di felicità cui si voleva far ritorno.
“Odisseo: Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa?
Calipso: Di posare la testa e tacere, Odisseo.”[1]
“Le Isole Mirabili ‒ Periplo arabo medievale” raccoglie un inventario di mirabilia tratti da diversi autori arabi, sotto forma di isolario. Un periplo da Oriente a Occidente scandito dall’apparire all’orizzonte del navigante di isole più o meno reali o metaforiche, viste, immaginate e raccontate da mercanti e viaggiatori i quali, nell’universo chiuso dell’isola, evocano proiezioni e fantasie immaginarie. Nella prefazione l’autore, docente di lingua e letteratura araba presso il Dipartimento di Studi Orientali della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma La Sapienza, mette subito le mani avanti, specificando che la sua traduzione dei testi “non è che una traduzione”, e che da un traduttore all’altro ogni traduzione, per quanto “bella e fedele, è tuttavia diversa”. Le traduzioni di un testo sono “molteplici ed infinite, come infiniti sono i punti di una circonferenza, connessi da infiniti raggi ad un unico centro, ovvero il testo nella sua lingua originale.” Ogni traduzione, ha un legame col testo originale, e ad esso conduce e ne è una lettura, ma non coinciderà mai con l’originale. Spiega l’autore: “la coincidenza si avrebbe se fosse possibile realizzare, e non solo immaginare, un cerchio il cui centro si trova su ogni punto della circonferenza.” Il testo si divide in tre parti: nella prima, la traduzione dei racconti, nella seconda un commentario agli stessi con un tentativo di localizzazione geografica delle isole ed una interpretazione dell’autore sui racconti stessi, ed infine una terza parte più biografica sugli autori citati.
Di questo autore ho rinvenuto scarsissime notizie, presumibilmente attivo in Egitto attorno all’anno 1000, di matrice culturale copta, gli è stato attribuito il libro Mukhtasar al-‘aga’ib “Il compendio delle meraviglie”, Le cui tre copie son conservate presso la Bibliotheque Nationale di Parigi, e da cui Arioli ha estratto le storie delle Isole Mobili.
Il termine “compendio” fa supporre che ci si trovi davanti all’opera di rielaborazione di uno scrittore sedentario, più che di un viaggiatore. Le stesse relazioni del mercante Sulayman e del Capitano Buzurg erano già note in precedenza, e vanno a ravvivare un genere letterario incentrato sul meraviglioso. Assieme alle descrizioni delle merci che giungono dall’India e dalla Cina, il libro narra degli usi, stranezze e prodigi disseminati nel mondo, da un Dio creatore, a ennesima riprova della sua onnipotenza sul creato, il libro non raccoglie più i resoconti di terre lontane frammentari e provvisori, ma denota un impianto stilistico che fa supporre ben altri intenti da parte di questo misterioso autore.
Nella prima parte, vengono narrate le meraviglie del creato, in uno stile cosmografico enciclopedico, seguendo le opinioni di altri autori in voga sul tema della cosmographia. Nella sezione dedicata all’Oceano e alle sue meraviglie, troviamo uno dei massimi esempi di isole “meravigliose” reperibili nella letteratura araba. Nella seconda parte del libro, diventa evidente che la prima parte non è altro che una preparazione a questa, che continua a trattare di mirabilia, ma unicamente riferite all’Egitto.
“Nel mirabile creato, il posto più mirabile spetta all’Egitto” ‒ Ibn Wasīf Shāh
Info
La foto in rilievo partecipa del dipinto di Agostino De Romanis “L’illusione del tempo” (2002), del volto di Angelo Arioli e della parte inerente a Platone del dipinto di Raffaello Sanzio “La scuola di Atene”.
Note
[1] C. Pavese, Dialoghi con Leucò