Intervista di Alessia Mocci a Luc Vancheri: la pubblicazione italiana del saggio francese “Cinema e Pittura”
“Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili.” ‒ Luc Vancheri
Pubblicato nel 2007 dalla casa editrice francese Armand Colin, “Cinema e pittura” è stato diffuso in Italia il 30 giugno 2018 con la casa editrice Negretto Editore per la collana editoriale Studi cinematografici, diretta dal prof. Alberto Scandola, docente di Storia e Critica del Cinema presso l’Università di Verona.
L’autore, Luc Vancheri, è docente di Studi Cinematografici nel dipartimento di Cinema e Studi Audiovisual presso l’Università Lumière di Lione.
Il saggio, con progetto grafico di Ornella Ambrosio, si presenta in copertina con un fotogramma del film del grande regista francese Jean-Luc Godard “Passion” (1982) che presagisce la posizione avanguardistica del suo contenuto.
Suddiviso in quattro capitoli, “Cinema e Pittura” è composto di tre parti fondamentali dedicate alla questione dell’estetica, della poetica e di analisi ‒ plasmate dal confronto fra l’immagine e l’arte ‒ che aprono lo sguardo verso la letteratura, lo studio teorico e l’analisi filmica.
“Dando alla metafisica il senso stesso della sua storia e quasi l’immagine del suo ribaltamento, il nichilismo di Nietzsche ha lasciato aperta all’artista (l’artista-filosofo chiamato ad essere il medico della civiltà) la possibilità di essere nel pensiero così come nell’opera, anche se Heidegger si sente ancora troppo debole per assumere «che davvero un dire poetico possa essere anche l’opera di un pensiero». Poiché Nietzsche considera l’arte «il grande stimolante della vita» (Af. 851, 1888) e il valore supremo, di questo privilegio costante dell’artista rispetto alla vita permane l’affermazione di un regime del soggetto e dell’arte che non può ridursi alle sole regole e maniere, e quasi lo sviluppo di un’affermazione vitale dell’opera, vale a dire che essa è effettivamente connessa agli stati fisici, agli stati creatori dell’artista.” ‒ “Cinema e Pittura”
Il Professor Luc Vancheri si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande di presentazione dei concetti esposti sul saggio “Cinema e Pittura”. L’intervista è stata redatta in francese con traduzione in lingua italiana di Francesca Capasso e traduzione in lingua inglese di Claudio Fadda.
A.M.: Professor Vancheri sono lieta di presentarla ai lettori italiani con questa intervista. Come prima domanda mi piacerebbe che ci raccontasse di com’è nata la passione per il cinema, se da ragazzo o da adulto.
Luc Vancheri: Come molte persone della mia generazione vengo dalla cinefilia, cioè un’epoca in cui si scopre il cinema nelle cinemateche e nei cinema d’essai. Ad ogni modo, quando iniziai a interessarmi al cinema, alla fine degli anni ’70, la tradizione critica dei Cahiers du Cinéma e di Positif non è più sola, ma è accompagnata ormai da una teorizzazione sul cinema influenzata dalle scienze umane. Dal lato della critica, sono stato segnato dal pensiero di André Bazin e della nuova guardia dei Cahiers che avrebbe poi formato la Nouvelle Vague (Godard e Truffaut che sono stati dei critici estremamente brillanti, ma anche Rohmer e Rivette). Tuttavia, sono stato particolarmente sensibile al momento politico dei Cahiers dopo il maggio sessantotto e alla radicalità teorica di una critica militante. Alla fine degli anni ‘70, quando Daney e Toubiana operano quello che si chiama il ritorno al film, comincio a misurare la complessità del cinema come fatto estetico e sociale. Sotto il profilo teorico, se in Francia, alla fine degli anni ’60, la letteratura accademica sul cinema resta ancora influenzata dalle opere-somma di Sadoul e Mitry, le cose cambiano all’inizio degli anni ‘70 con i lavori ispirati dallo strutturalismo, dalla semiologia e dalla psicanalisi. Vengo così influenzato da Christian Metz e i suoi lavori sul linguaggio cinematografico (Il significante immaginario, 1977) che diedero un impulso essenziale al pensiero teorico, ma anche dai primi libri di Pierre Sorlin (Sociologia del Cinema, 1977), da Raymond Bellour sul cinema americano (1980), Jean-Louis Schefer sulla condizione dello spettatore (L’uomo comune del cinema, 1980) e da Pascal Bonizer sulla forma filmica (Il campo cieco, 1982). Inoltre, alla fine degli anni ’70, ha luogo il rinnovamento della storia cinematografica (Congresso di Brighton, 1978) che fa posto al “cinema dei primi tempi”. Vari fenomeni cambiano il mio rapporto col cinema, che da cinefilia diventa ricerca universitaria. La creazione del primo dipartimento di studi cinematografici in Francia alla Sorbonne Nouvelle nel 1969 segna un cambiamento decisivo nella maniera in cui il cinema sarà ormai pensato. Come è stato già osservato da Francesco Casetti (Teoria del Cinema, 1993), il cinema è ormai oggetto di un triplo investimento. È accettato come fatto di cultura divenuto finalmente legittimo; è sottoposto ad una specializzazione del discorso che subisce l’influenza delle scienze umane; e, infine, il fenomeno si diffonde su scala internazionale. Paradossalmente, non sono mai stato tentato dalla critica cinematografica, poiché fin da subito attirato dal versante teorico. Questo forse è dovuto alla mia formazione universitaria dove si affiancano filosofia, storia dell’arte e letteratura moderna. I miei primi testi sono quindi fin da subito analitici e teorici. Il mio primo saggio sul cinema Figurazione dell’inumano (1992), edito dal Presses Universitaires Vincennes nella collezione Hors Cadre diretta da Marie-Claire Ropars, è dedicato alle possibilità plastiche della figurazione umana nel cinema. Non mi sono mai allontanato da questo approccio ragionato al cinema: il mio ultimo libro, edito presso le Presses Universitaires de Rennes in questo mese di agosto, Le cinéma ou le dernier des arts, presenta un panorama storico dedicato alla maniera in cui il significante cinema è stato risemantizzato dalla teoria nel corso della sua breve storia. È chiaro come io abbia conservato lo stesso gusto per la teoria.
A.M.: La copertina del saggio “Cinema e Pittura” omaggia il film del 1982 “Passion” di uno dei più grandi registi francesi Jean-Luc Godard. Film che ritroviamo esaminato nel quarto capitolo con il sottotitolo: “l’elogio dei classici”. Possiamo affermare che ancora oggi Godard non è stato superato in quanto a ricerca estetica in connessione con la settima arte?
Luc Vancheri: Jean-Luc Godard è innanzi tutto un modello e un mito. La sua opera, che è al tempo stesso critica, teorica e filmica, costituisce, per portata storica, per profondità estetica ed esistenziale, per forza audiovisiva (È uno dei rari cineasti ad aver fatto del rapporto tra questi il punto di partenza di una teoria politica del cinema durante il periodo del gruppo Dziga Vertov) e per potenza teorica (penso alle Histoire(s) du Cinéma) un’opera totale senza pari. Con Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, appartiene a quella cerchia di rari artisti che hanno pensato il cinema come un fatto di civiltà al quale hanno attribuito un messianismo estetico e politico, cosa che non ha comunque evitato un profondo pessimismo, come per Pasolini alla fine della sua vita. I film di Godard hanno, del resto, raccontato i momenti essenziale della seconda metà del XX secolo, sono stati sintomi delle metamorfosi culturali e politiche che hanno scandito questo pezzo di storia. Prendiamo, ad esempio, Le Petit Soldat sulla guerra di Algeria, o La Chinoise, che anticipa la svolta rivoluzionaria del Maggio ’68, o Je vous salue, Marie, che riprende la problematica religiosa della società occidentale, etc. Tuttavia, il suo rapporto con l’arte è largamente preparato dal classicismo degli anni da critico ai Cahiers – lo si è dimenticato, ma i primi riferimenti sono a Poussin, Crébillon, e Madame Lafayette, come si è dimenticato che a quell’epoca Godard non esitava a definire anticinematografica la modernità di Bresson e Welles. Solamente più tardi farà posto alla pittura di Goya, Manet e Delacroix, che non cesseranno più di abitare la sua opera. Ma anche in questo caso i riferimenti teorici sono in fondo piuttosto classici. Jean-Paul Belmondo legge Elie Faure in Pierrot le Fou. Jacques Aumont ha del resto giustamente osservato che con Histoire(s) du cinéma, realizzato tra il 1988 a 1998, Godard diviene egli stesso l’Elie Faure del cinema. Il solo vero cambiamento consiste nel passaggio all’installazione e all’esposizione museale con Voyages en Utopie (2006) a lui commissionata da Domenique Païni per il Centre Pompidou. Agnès Varda, Claire Denis, Apichtpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch, Abbas Kiarostami approdano tutti all’arte contemporanea e presentano delle installazioni in spazi museali. Vediamo allora come Godard sia stato un osservatore estremamente lucido: allo stesso tempo una Cassandra di un secolo traumatizzato dalle sue guerre e un infaticabile profeta della potenza redentrice del cinema.
A.M.: L’introduzione intitolata “L’arte alla prova del cinema” cita ampiamente “Blow Up” di Michelangelo Antonioni. Se ai primordi del cinema la contaminazione tra cinema italiano e cinema francese era estesa e proficua, come vede la situazione odierna?
Luc Vancheri: Blow up (1966) è un film paradossale, realizzato e prodotto da due italiani, Michelangelo Antonioni e Carlo Ponti, che è riuscito a imporre l’immagine della Swinging London degli anni 1960. Il film segna del resto una svolta nella carriera del regista che girerà quello successivo negli Stati Uniti (Zabriskie Point, 1970). Il modernismo colto di Antonioni incrocia la modernità della pop culture. Non dimentichiamo che fu lo studio di John Cowan, al 39 Prince’s Place, che servì da appartamento a Thomas, il personaggio interpretato da David Hemmings. Non dimentichiamo nemmeno il suo arredamento: delle poltrone di John Wright (Dodo Design), delle stampe di John Cowan, una tela di Alan Davie, Joy Joy Stick, un’altra di Ian Stephenson, Still Life Abstraction (1957). Antonioni non si accontenta semplicemente di ispirarsi alle fotografie di moda di David Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan e David Montgomery per la seduta di shooting di Thomas; ha anche intuito che il cinema poteva essere l’arte che avrebbe documentato la rivoluzione culturale e artistica degli anni ’60. È precisamente quello che descrive Antonioni in un’intervista al giornale Playboy nel novembre del 1967, dove dichiara “tutto quello che so è che siamo schiacciati da un’accozzaglia di cose vecchie e logore – abitudini, costumi, attitudini radicate, già morte e passate. La forza dei giovani inglese in Blow Up risiede nella loro capacità di gettare a mare tutto ciò” (A candid conversation with Italy’s master of cinematic anomie). Quanto alle prime fotografie che Thomas porta al suo editore all’inizio del film, sono delle stampe di Don McCullin, Man about Time, che aveva realizzato un reportage fotografico sui poveri dell’East London nel 1961. Blow up non si è solamente imposto come l’emblema chic della pop culture (le modelle posano con vestiti di Courrège e Mary Quant) o come una reinterpretazione teorica della pop art; è riuscito a legare due fenomeni estetici differenti. Uno ha a che vedere con il vecchio conflitto fenomenologico tra fotografia e realtà, qui riletto a partire dai saggi sull’astrazione in pittura (a questo titolo Still Life Abstraction è proprio il doppione astratto della fotografia ingrandita nei dettagli di Thomas). L’altro verte sulla tensione etica che oppone i difensori dell’art pour l’art e i sostenitori di un’arte sociale e politica (si tratta di una ripresa della querelle estetica nata in Francia verso il 1830). Ciò che è interessante in tutto questo è il fatto che sia un erede del neorealismo a riprendere i fili di questa svolta estetica, fenomeno ben lontano dall’essere isolato visto che il giallo che nasce nella stessa epoca in Italia è inseparabile da una riappropriazione della pittura degli anni ’60. Mario Bava e Dario Argento non hanno semplicemente inventato un nuovo genere cinematografico, ma hanno profondamente rinnovato i rapporti tra pittura e cinema. Pauline Mari ha lasciato su questa questione un saggio importante alle Presses Universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). È evidente che stiamo parlando di un film-manifesto che ha sintetizzato la sua epoca, un po’ come L’inumano di Marcel L’Herbier per gli anni venti, o Passione di Godard per gli anni ’80, o ancora Visage di Tsai Ming Liang per gli anni 2000. Questi film costituiscono un evento non soltanto perché sono riusciti a pensare visualmente la loro epoca, ma anche perché hanno identificato i problemi estetici che questa si pone.
A.M.: Sotto quali aspetti gli studenti che hanno seguito i suoi corsi presso l’Università di Lyon 2 hanno ispirato “Cinema e Pittura”?
Luc Vancheri: Questo libro che la Negretto Edizioni ha tradotto è assai vecchio. L’ho scritto dieci anni fa e posso dire che costituisce la prima fase di un approccio teorico che ho poi portato avanti e arricchito con un approccio figurale e iconologico dell’immagine tipico dei miei ultimi libri. Se Les Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) è un’esplorazione teorica dell’apporto freudiano a una nuova analisi dell’immagine che è ormai accettata nel campo degli studi cinematografici, Psycho. La lezione di iconologia di Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) e La Grande Illusione. Il museo immaginario di Jean Renoir (Presses Universitaire du Septentrion, 2015) sono due studi monografici condotti sulle orme di Aby Warburg, autore che Carlo Ginzburg ha diffuso in Italia ben prima che lo scoprissimo in Francia (Miti, Emblemi e Spie, 1986). Le mie ultime opere hanno cercato, quindi, di verificare negli studi cinematografici l’euristica di nozioni elaborate nel campo della psicanalisi e della storia dell’arte. Mi sono allora interessato alla figurabilità freudiana così come alle nozioni warburghiane di pathosformel e nachleben perché esse ci permettono di ripensare la relazione cinema/pittura considerando la pittura come un archivio visuale delle forme, un repertorio di motivi, di gesti e di figure delle espressioni umane che il cinema ha reinvestito e di cui ci importa riprendere la storia. Per precisare un po’meglio il senso di questa ricerca, posso rapidamente ritornare su Psycho d’Alfred Hitchcock. È un film saturato di interpretazioni al quale sembra difficile oggi aggiungere qualcosa. Tuttavia, quando ho cominciato a interessarmene, fui colpito dal fatto che il quadro che Norman Bates solleva per spiare Marion Crane non fosse mai stato identificato. Non soltanto non si sapeva ancora chi aveva dipinto questa variazione di Susanna e i vecchi, ma soprattutto non ci si era mai domandati cosa la gestualità di Susanna poteva dirci su quella di Marion Crane durante il suo assassinio nella la doccia. I due gesti non erano mai stati avvicinati, ma la soluzione di messa in scena adottata da Hitchcock è una reinterpretazione calcolata della scenografia del quadro di Willem van Mieris che dipinse la sua Susanna nel 1731. Ciò che apparentemente sembra essere solo un dettaglio di un’immagine, cioè l’artificio di un dispositivo voyeurista, è in definitiva la chiave ermeneutica di un film che si iscrive in una lunga tradizione teologica, liturgica, letteraria e iconografica. Questa tradizione rivisita il motivo di una Susanna tratta dal libro di Daniele, allo stesso tempo santa, orante e figura della Chiesa. Ma se riprendiamo la celebre scena dell’assassinio di Marion Crane sotto la doccia, ci si rende conto che la sua maniera di lottare contro l’aggressore, Norman Bates, è estremamente vicina a quella che l’iconografia di Susanna ha largamente popolarizzato. Marion si dibatte contro Norman Bates come Suzanne si difendeva dai due vecchi. Il legame tra Susanna e Marion è dunque proprio quella formula di pathos che ci è mostrata dal quadro posseduto da Norman. Alfred Hitchcock fa di Susanna il principio di una lezione morale che ci informa su Marion, che è, per dirla tutta, una cristiana alla quale la grazia è mancata. Possiamo osservare allora, come, a partire da un solo quadro, l’iconografia di Susanna e l’ermeneutica biblica sono sopravvissute nel film di Alfred Hitchcock, come queste si sono legate insieme, cosicché questa intensa retorica visuale ha giocato un ruolo in una lettura dell’America tra modernità sociale e arcaismo culturale. Lo studio delle relazioni tra cinema e pittura è entrato oggi in una fase estremamente ricca di lavori originali e eruditi che lasciano intravedere un orizzonte di ricerca appassionante. Sono felice di constatare che i nostri studenti abbiano scelto di dedicarvisi e che ci siano sempre più tesi su questo tema.
A.M.: La proiezione delle immagini. Possiamo affermare che la connessione e la contaminazione descritta nel suo libro parta dalla considerazione secondo la quale, sin dall’uomo primitivo, proiettare immagini (nelle caverne per esempio) è un fatto necessario ed indispensabile per l’essere umano per autodefinire la propria esistenza?
Luc Vancheri: Si ha l’abitudine di descrivere l’invenzione tecnica del cinema ricordando una sequenza storica che comincia grosso modo con il Taumatropio del dottor Fitton (1826) prima di trovare la soluzione con il cinematografo Lumière (1895), passando per il Fenachitiscopio di Plateau (1832), lo Zootropio di Horner (1834), il teatro ottico di Emile Reynaud (1888) e il Kinetoscopio di Edison (1981). Ma il procedimento di Edison è stato rapidamente differenziato da quello di Lumière facendo valere la proiezione cinematografica come la condizione essenziale del dispositivo. A partire da questo, ci si è interrogati sul legame tra proiezione e immagine, poiché si tratta di qualcosa che ritroviamo già al Rinascimento con la costruzione di una rappresentazione prospettica. Ci si è persino domandati se l’allegoria della caverna di Platone descritta nel Libro VII della Repubblica non sia stato il primo riferimento cinematografico. Ma una tale rilettura della storia del cinema si fonda su un malinteso. Non bisogna infatti confondere quello che chiamiamo storia del cinema con la storia degli elementi che costituiscono il suo dispositivo. Possiamo quindi scrivere due storie distinte se ci si interessa alla filiazione scientifica che adegua l’immagine cinematografica alle leggi dell’ottica e della chimica o se si ritraccia la genealogia del pensiero magico che giudica l’immagine come illusione, spettro o fantasma. La lanterna magica segna questa esitazione tra un ordine della ragione che deve tutto alla tecnica e un disordine dei sensi abbandonati a un’incertezza fenomenologica. Quando si accetta l’allegoria della caverna come “origine possibile” del cinema, ci si dimentica che per Platone l’immagine è in primo luogo sottomessa a un giudizio di verità. È sotto la condizione di verità e di ciò che la filosofia può dirne che l’immagine e la proiezione si ritrovano legati. Il problema non è quello di Edison e dei fratelli Lumière. Ciò che conta è porsi la domanda di che cosa si fa la storia quando si attribuiscono al cinema delle origini che superano largamente il momento della sua invenzione tecnica.
A.M.: Se l’indagine armonica e la connessione con la pittura è un fattore determinante per i film descritti nel suo libro, come valuta l’avvento della computer graphics?
Luc Vancheri: Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili. A parità di condizioni, è ciò che aveva compreso Eisenstein quando si interessava ai film d’animazione e alle produzioni Disney a partire dall’idea di plasmaticità che dà via libera a un’autonomia figurativa delle forme, comprendendo come il film d’animazione possa offrire delle risorse per riflettere sulle potenze formali del cinema. Ritroviamo una tale volontà di esplorazione figurativa presso dei cineasti assai diversi come Jean-François Laguionie (Le Tableau, 2011) o Wes Anderson (L’isola dei cani, 2018). Questa evoluzione tecnologica ci dice che la tecnica è necessariamente il luogo di un pensiero estetico, cosa che sapevano bene i primi teorici italiani della prospettiva. Con il De pictura (1435), Leon Battista Alberti non solamente scrive un trattato di pittura per i pittori, ma rinnova la retorica di Cicerone attraverso le matematiche e introduce la pittura in un’era nuova, come osservava C. Dionisotti che riconosceva in Alberti “l’impronta dell’uomo nuovo, dell’artista e dell’umanista laico, signore del suo mondo, capace di rappresentare, giudicare e modificare la realtà in ogni suo aspetto, anche umile” (Chierici e laici, 1977).
A.M.: La casa editrice Negretto Editore ha recentemente pubblicato in traduzione “Cinema e Pittura”. Ritiene che il saggio possa aver mercato anche in Italia?
Luc Vancheri: Lo spero. E ad essere sincero, lo credo. L’Italia è stata il crogiolo della nostra cultura dell’immagine. Sono dunque molto felice di poter essere letto in italiano. Ma il mio libro non è che uno dei tanti saggi dedicati alle relazioni tra cinema e pittura, e mi rallegro che queste siano ancora oggetto di lavori monografici. Penso ai libri di Moscariello Angelo, Pier Marco De Santi, Silva Marina Nironi o Mathias Balbi. Penso anche ai miei colleghi in Francia che proseguono questa riflessione, a Jacques Aumont e alla sua opera essenziale che ha aperto la via a numerose ricerche – L’occhio interminabile –, a Jean-Michel Durafour che prosegue un lavoro originale su ciò che definisce l’econologia (Cinema e cristalli. Trattato d’econologia, 2018), e ai miei dottorandi – Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival o Pascale Deloche che ha appena terminato una formidabile tesi sul processo giudiziario sul film La Ricotta di P.P.Pasolini – che prolungano questa riflessione sull’immagine allargandola al cinema politico. La letteratura accademica sul cinema è molto cambiata in questi ultimi vent’anni. Si è notevolmente arricchita ed ha raggiunto un livello scientifico molto alto. È una bella novità per il cinema e per gli studi cinematografici in generale.
A.M.: Attualmente sta lavorando ad una nuova pubblicazione? Può anticipare qualcosa?
Luc Vancheri: Nel mio ultimo libro Il cinema o l’ultima delle arti (2018), mi sono interessato alle variazioni storiche del significante “cinema”, cosa che mi ha portato a rivedere la nostra maniera di pensare la storia del cinema sottolineando tre momenti strutturali che implicano tre concezioni del cinema molto diverse. Distinguendo la fase Lumière, la fase Canudo e la fase Youngblood, ho cercato di mostrare che il cinema, in ciascuno dei suoi momenti, è esistito secondo rapporti diversi: rapporti sociali, culturali, economici, politici che disegnano ogni volta una condizione del cinema irriducibile. La tesi che difendo è questa: riconoscere il cinema come il settimo nella sequenza delle arti, è accettare l’idea che l’arte sia la condizione storica del cinema. Ma dire ciò significa, da un lato, considerare che la cinematografia-attrazione descritta dalla scuola di Montréal designa un’alternativa al pensiero del cinematografo, dall’altro, che l’expanded cinema esiste senza dovere niente all’idea di arte come ciò che assicura la regolazione sociale del dispositivo cinematografico e propone un’altra alternativa, direttamente sottomessa al regime contemporaneo dell’arte. Il malinteso che oppone i sostenitori del dispositivo storico ai difensori del cinema allargato si basa precisamente su questo nodo: se si modifica l’idea di arte che regola il funzionamento dell’industria e delle istituzioni cinematografiche, è l’idea stessa di cinema che cambia. E questo genera il cinema di installazione dei musei e delle biennali di arte contemporanea. Ma questo tipo di cinema è ancora contestato, anche se alcuni cineasti rivendicano ciò. Mi sembra dunque importante ritornare sulla maniera di pensare il cinema e di farne la storia. Quanto al mio lavoro più recente, ho appena finito il manoscritto. Si tratta di uno studio monografico dedicato a un film di Philippe Faucon, Fatima (2015). Ho cercato di dimostrare che il film non va ridotto semplicemente al suo tema sociale, l’immigrazione e la sofferenza sociale dei suoi personaggi, perché dispiega tutto un insieme di situazioni estetiche che funzionano come occasioni per riaffermare i legami che vanno dal cinema alla filosofia, alla storia, alla politica e alla pittura. Ho dunque tentato, a partire dalla polemica scatenatesi quando il film ha ricevuto il César (2016), di descrivere la maniera in cui il cinema si introduce nella storia del pensiero, ne modifica le coordinate e le forme, ne riprende problematiche più vecchie per rileggere quelle di cui è contemporaneo. Così mi sono deciso a analizzare alcune sequenze del film ricorrendo ai frammenti filosofici di Eraclito, al De lingua latina di Varrone, al testo di Benjamin su Nicolas Leskov o ancora al Was ist Aufklarung? di Kant. Dovrebbe essere pubblicato nella primavera 2019.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Luc Vancheri: “Bisogna immaginare Saskia morente e lui nel suo atelier, appostato su delle scale, cambiando la composizione de La ronda di Notte. Se crede in Dio? Non quando dipinge.”
“Ciò che è rimasto di un Rembrandt strappato in piccoli quadratini regolari, e buttato al cesso”.
Jean Genet, Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p.77
Traduzione in lingua italiana a cura di Francesca Capasso (PhD student at Lyon 2 University. Her thesis focuses on the relationship between cinema and messianism)
In lingua francese
A.M.: Luc Vancheri, je suis heureux de vous présenter à nos lecteurs italiens avec cet entretien. Tout d’abord j’aimerais vous demander comment est née votre passion pour le cinéma. Est-ce un phénomène de jeunesse ou s’est-elle manifestée plus tard, à l’âge adulte?
Luc Vancheri: Comme beaucoup de gens de ma génération je viens de la cinéphilie, c’est-à-dire d’une époque qui découvre le cinéma dans les cinémathèques et les cinémas Art et Essai. Mais pour autant, lorsque je commence à m’intéresser au cinéma à la fin des années 1970, la tradition critique des Cahiers du cinéma et de Positif n’est plus seule, elle est désormais accompagnée d’une entreprise de théorisation du cinéma qui se fait sous l’influence des sciences humaines. Côté critique, j’ai été marqué par la pensée d’André Bazin et par la jeune relève des Cahiers qui allait donner la Nouvelle Vague (Godard et Truffaut en particulier qui ont été des critiques incroyablement inspirés, mais aussi Rohmer et Rivette). Toutefois j’ai surtout été sensible au tournant politique des Cahiers après mai 68 et à la radicalité théorique d’une critique militante. A la fin des années 70, lorsque Daney et Toubiana opèrent ce que l’on a appelé le retour au film, je commence à mesurer la complexité du cinéma comme fait esthétique et social. Côté théorie, si en France à la fin des années 1960 la littérature savante sur le cinéma reste encore déterminée par les sommes historiques et esthétiques de Sadoul et Mitry, les choses changent au début des années 1970 avec des travaux imprégnés de structuralisme, de sémiologie et de psychanalyse. J’ai ainsi été influencé par Christian Metz et ses études sur le langage cinématographique (Le signifiant imaginaire, 1977) qui donnait une impulsion essentielle à la pensée théorique, par les premiers livres de Pierre Sorlin (Sociologie du cinéma, 1977), de Raymond Bellour sur le cinéma américain (1980), de Jean-Louis Schefer sur la condition spectatorielle (L’homme ordinaire du cinéma, 1980) et de Pascal Bonizer sur les formes filmiques (Le champ aveugle, 1982). Et puis la fin des années 1970, c’est aussi le renouveau de l’historiographie cinématographique (Congrès de Brighton, 1978) qui fait une place au “cinéma des premiers temps.” Ce sont plusieurs phénomènes qui vont déplacer notre rapport au cinéma, lequel quitte la passion cinéphile pour la raison universitaire. La création du premier département d’études cinématographiques en France à la Sorbonne Nouvelle date de 1969 et signe un changement d’échelle dans la manière dont le cinéma va désormais pouvoir être pensé. Comme le remarquait déjà Francesco Casetti (Teorie del cinema, 1993) le cinéma fait l’objet d’un triple investissement. Il est accepté comme un fait de culture devenu enfin légitime, il est soumis à une spécialisation du discours qui subit l’influence des sciences humaines, et, enfin, le phénomène se diffuse internationalement. Je n’ai paradoxalement pas été tenté par la critique, en revanche j’ai été directement attiré par la théorie du cinéma. Sans doute est-ce dû à ma formation universitaire où se sont mêlés philosophie, histoire de l’art et littérature moderne. Mes premiers textes ont donc été immédiatement analytiques et théoriques avant que je ne publie mon premier essai sur le cinéma en 1993 aux Presses Universitaires de Vincennes dans la collection Hors Cadre dirigée par Marie-Claire Ropars, Figuration de l’Inhumain, un essai dédié aux possiblités plastiques de la figuration humaine au cinéma. Je ne me suis jamais écarté de cette approche raisonnée du cinéma: mon dernier livre paru aux Presses Universitaires de Rennes ce mois d’août, Le cinéma ou le dernier des arts, est un panorama historique consacré à la manière dont le signifiant cinéma a été investi par la théorie au cours de sa brève histoire. Vous le voyez, j’ai conservé ce goût pour la théorie.
A.M.: L’image de première de couverture de votre essai, Cinéma et Peinture, rend hommage au film Passion, réalisé par l’un des plus grands cinéastes français, Jean-Luc Godard. On retrouve ce film dans votre quatrième chapitre intitulé: l’éloge des classiques. Peut-on dire aujourd’hui que Godard est un cinéaste indépassable lorsque l’on s’intéresse à la dimension artistique du cinéma?
Luc Vancheri: Jean-Luc Godard est avant tout un modèle et un mythe. Son oeuvre qui est tout à la fois critique, théorique et filmique, constitue par son ampleur historique, sa profondeur esthétique et existentielle, sa force audiovisuelle – il est l’un des rares cinéaste à avoir fait de leurs rapports le point de départ d’une théorie politique du cinéma pendant sa période Dziga Vertov – et sa puissance théorique – pensons aux Histoire(s) du cinéma par exemple –, une oeuvre totale qui compte peu d’équivalents. Avec Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, il appartient au cercle de ses rares artistes qui ont pensé le cinéma comme un fait de civilisation auquel ils ont prêté un messianisme esthétique et politique, ce qui n’a jamais empêché un profond pessimisme, pensons à Pasolini à la fin de sa vie. Les films de Godard ont par ailleurs réussi à rencontrer les moments essentiels de la deuxième moitié du 20ème siècle, ils ont été les symptômes des métamorphoses culturelles et politiques qui ont scandé son histoire. Pensons au Petit Soldat sur la guerre d’Algérie, à La Chinoise qui anticipe le tournant révolutionnaire de Mai 68, à Je vous salue, Marie qui resaisit le fonds religieux qui travaille la société occidentale, etc. Pour autant, son rapport à l’art est d’abord largement préparé par le classicisme de ses années critiques aux Cahiers – on l’a oublié, mais ses premières références, ils les trouvent chez Poussin, Crébillon et chez Madame de La Fayette, comme on a oublié qu’il n’hésitait pas à cette époque à juger anticinématographique la modernité de Bresson et Welles. Ce n’est que plus tard qu’il fera une place à la peinture de Goya, Manet, Delacroix qui ne cesseront de hanter son oeuvre. Mais là aussi ses références théoriques sont somme toute très classique. On se souvient tous de Jean-Paul Belmondo qui lit Elie Faure dans Pierrot le fou. Jacques Aumont a par ailleurs très justement remarqué qu’avec les Histoire(s) du cinéma, que Godard réalise entre 1988 et 1998, il est devenu l’Elie Faure du cinéma. Seul véritable changement, le passage à l’installation et l’exposition que lui commande Dominique Païni pour le musée Georges Pompidou, Voyages en Utopie (2006). Mais il est loin d’être le seul cinéaste qui, au début des années 2000, se met à faire des installations. Agnès Varda, Claire Denis, Apichatpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch, Abbas Kiarostami, sont tous venus à l’art contemporain et ont tous présenté des installations dans des musées d’art contemporain. Cette évolution est importante parce qu’elle va contribuer à retisser des liens entre un cinéma défini par son dispositif historique et ce que l’on a appelé après Gene Youngblood, l’expanded cinema. On le voit Godard a été un observateur incroyablement lucide, tout à la fois Cassandre d’un siècle traumatisé par ses guerres et infatigable prophète des puissances rédemtrices du cinéma.
A.M.: L’introduction, intitulée “L’art à l’épreuve du cinéma” est consacrée à Blow up de M. Antonioni. Comment comprenez-vous ce film dans la filmographie de Michelangelo Antonioni? Si au début du cinéma les relations entre le cinéma italien et le cinéma français ont été nombreuses et fructueuses, comment voyez-vous la situation actuelle?
Luc Vancheri: Blow up (1966) est un film paradoxal, réalisé et produit par deux italiens, Michelangelo Antonioni et Carlo Ponti, qui a réussi à en imposer l’image du Swinging London des années 1960. Ce film marque par ailleurs un tournant dans la carrière d’Antonioni qui tournera son film suivant aux Etats-Unis (Zabriskie Point, 1970). Le modernisme cultivé d’Antonioni croise la modernité de la pop culture. N’oublions pas que c’est le studio de John Cowan, installé 39 Prince’s Place, qui a servi d’appartement à Thomas, le personnage interprété par David Hemmings. N’oublions pas non plus qu’on y trouve des fauteuils de John Wright (Dodo Designs), des tirages de John Cowan, une toile d’Alan Davie, Joy Joy Stick, une autre de Ian Stephensen, Still Life Abstraction (1957) et, enfin, cette toile fameusede Peter Sedgley tirée de sa série Looking Glass, Quantum II. Antonioni ne s’est pas contenté de s’inspirer des photographies de mode de David Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan et de David Montgomery pour la séance de shooting de Thomas, il a senti que le cinéma pouvait être l’art qui allait documenter la révolution culturelle et artistique des années 60. C’est précisément ce que décrit Antonioni lorsque dans un entretien donné au journal Playboy en novembre 1967, il déclare que “Tout ce que je sais c’est que nous sommes écrasés par un fatras vieillot et usé – des habitudes, des coutumes, des attitudes enracinées, déjà mortes et passées. La force des jeunes Anglais dans Blow up réside dans leur capacité de jeter tout ce fatras par dessus bord” (A candid conversation ith Italy’s master of cinematic anomie). Quant aux premières photographies que Thomas apportent à son éditeur au début du film, ce sont des tirages de Don McCullin, Man About Town, qui avait réalisé un reprotage photographique sur les démunis de l’East London en 1961. Blow up ne s’est pas simplement imposé comme l’emblème chic de la pop culture (les mannequins posent habillés par Courrèges et Mary Quant) ou comme une réinterprétation théorique de l’op art, il est parvenu à lier deux phénomènes esthétiques différents, l’un qui a trait au vieux conflit phénoménologique entre photographie et réalité, ici relu à partir des essais sur l’abstraction en peinture (à ce titre Still Lif Abstraction est bien le double abstrait de la photographie agrandie et détaillée de Thomas), l’autre à la tension éthique qui oppose les tenants de l’art pour l’art aux défenseurs de l’art social et politique (c’est la reprise d’une querelle esthétique née en France au tournant des années 1830). Ce qui est intéressant dans tout cela, c’est que c’est un héritier du néoréalisme qui prend en charge ce virage esthétique, qui est loin d’être un phénomène isolé puisque le giallo qui naît à la même époque en Italie est inséparable d’une réappropriation de la peinture des années 60. Mario Bava et Dario Argento n’ont pas simplement inventé un nouveau genre cinématographique, ils ont plus profondement renouvelé les rapports peinture/cinéma. Pauline Mari a laissé sur cette question un essai important aux Presses universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). Il est évident que nous parlons d’un film manifeste qui est venu synthétiser son époque, un peu à la manière de L’Inhumaine de Marcel L’Herbier pour les années 1920, de Passion de Godard pour les années 80 ou de Visage de Tsai Ming Liang pour les années 2000. Si ces films font événement, c’est qu’ils sont non seulement parvenus à penser visuellement leur époque, mais qu’ils ont réussi à identifier les problèmes esthétiques qu’elle se pose.
A.M.: Quelle place ce livre occupe-t-il dans vos enseignements à l’université Lyon 2? Comment les étudiants qui suivent vos cours à l’Université Lyon 2, et plus largement en France, reçoivent-ils votre livre, Cinéma et Peinture?
Luc Vancheri: Ce livre que les éditions Negretto viennent de traduire est assez ancien. Je l’ai écrit il y a dix ans maintenant et on peut dire qu’il constitue le premier volet d’une démarche théorique que j’ai depuis prolongée et enrichie à partir d’une approche figurale et iconologique de l’image que j’ai développée dans mes derniers livres. Si Les Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) était une exploration théorique de l’apport freudien à la nouvelle analytique de l’image qui a désormais cours dans le champ des études cinématographiques, Psycho. La leçon d’iconologie d’Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) et La Grande Illusion. Le musée imaginaire de Jean Renoir (Presses Universitaires du Septentrion, 2015) sont deux études monographiques conduites dans le sillage des travaux iconologiques d’Aby Warburg, que Carlo Ginzburg a diffusés en Italie bien avant qu’on ne les découvre en France (Miti emblemi spie, 1986). Mes derniers ouvrages ont ainsi tenté de vérifier dans les études cinématographiques l’heuristique de notions actives dans le champ de la psychanalyse et de l’histoire de l’art. Je me suis alors intéressé à la figurabilité freudienne ainsi qu’aux notions warburgiennes de pathosformel et nachleben pour ce qu’elles nous permettaient de repenser des relations peinture/cinéma en considérant la peinture comme une archive visuelle de formes, un répertoire de motifs, de gestes et de figures des expressions humaines que le cinéma avait réinvestis et dont il nous appartenait de rependre l’histoire. Pour préciser un peu le sens de cette recherche, je peux rapidement revenir sur Psycho d’Alfred Hitchcock. C’est un film saturé d’interprétations auquel il semble bien difficile aujourd’hui d’ajouter quelque chose. Et pourtant, lorsque j’ai commencé à m’y intéresser, j’ai été frappé que le tableau que soulève Norman Bates pour épier Marion Crane n’ait jamais été identifié. Non seulement, on ne savait toujours pas qui avait peint cette variation autour de Suzanne et les vieillards, mais on ne s’était pas demandé ce que la gestuelle de Suzanne pouvait nous dire de celle de Marion Crane lors du meurtre sous la douche. Les deux gestes n’avaient jamais été rapproché, or la solution de mise en scène retenue par Hitchcock est une réinterprétation calculée de la scénographie du tableau de Willem van Mieris qui peint sa Suzanne en 1731. Ce qui n’est apparemment que le détail d’une image, voire l’artifice d’un dispositif voyeuriste, est en définitive la clé herméneutique d’un film qui s’inscrit dans une très longue tradition théologique, liturgique, littéraire et iconographique qui revisite le motif d’une Suzanne tirée du livre de Daniel, tout à la fois sainte, orante et figure de l’Eglise. Or si on reprend la fameuse scène du meurtre de Marion sous la douche, on se rend compte que sa manière de lutter contre son agresseur, Norman Bates, est au plus proche de celle que l’iconographie de Suzanne a largement popularisée. Marion se débat contre Norman comme Suzanne se défendait contre les deux vieillards. Le lien entre Suzanne et Marion, c’est donc bien cette formule de pathos qui nous est donnée par le tableau que possède Norman. Alfred Hitchcock fait de Suzanne le principe d’une leçon morale qui nous renseigne sur Marion qui n’est, à tout prendre, qu’une chrétienne à qui la grâce a manqué. Nous voyons ainsi, à partir d’un seul tableau, comment l’iconographie de Suzanne et l’herméneutique biblique ont survécu dans le film d’Alfred Hitchcock, comment elles se sont liées entre elles, comment cette intense rhétorique visuelle est venue servir une interprétation de l’Amérique entre modernité sociale et archaïsme culturel. L’étude des relations entre cinéma et peinture est aujourd’hui entrée dans une phase extrêmement riche de travaux originaux et érudits qui laissent entrevoir un horizon de recherche passionnant. Je suis heureux de constater que nos étudiants aient choisi de s’y investir et que nous ayons de plus en plus de thèses sur ce sujet.
A.M.: La projection des images. Pouvons-nous affirmer que les relations et les effets de contamination entre peinture et cinéma décrits dans votre livre pourraient être pensés à partir des premières images projetées dans les cavernes?
Luc Vancheri: On a l’habitude de décrire l’invention technique du cinéma en retenant une séquence historique qui commence grosso modo avec le Thaumatrope du docteur Fitton (1826) avant de trouver sa solution avec le Cinématographe Lumière (1895), en passant par le Phénakitiscope de Plateau (1832), le Zootrope de Horner (1834), le Théâtre optique d’Emile Reynaud (1888) et le Kinetoscope d’Edison (1891). Mais on a rapidement distingué le procédé Edison du procédé Lumière en faisant valoir la projection cinématographique comme la condition de son dispositif. A partir de là, on s’est interrogé sur le lien entre projection et image, puisque c’est quelque chose que l’on retrouve à la Renaissance avec la construction d’une représentation en perspective. Mais on s’est aussi demandé si l’allégorie de la caverne que Platon décrit au Livre VII de La République n’était pas la première référence cinématographique. Or une telle relecture de l’histoire du cinéma repose sur un malentendu. En effet il ne faut pas confondre ce que l’on appelle Histoire du cinéma avec l’histoire des éléments qui constituent son dispostif. On peut ainsi décrire deux histoires distinctes selon que l’on s’intéresse à la filiation scientifique qui ajuste l’image cinématographique aux lois de l’optique et de la chimie ou la généalogie de la pensée magique qui juge l’image comme illusion, spectre ou fantôme. La lanterne magique marque cette hésitation entre un ordre de la raison qui doit tout à la techique et un désordre des sens abandonnés à une incertitude phénoménologique. Lorsqu’on retient l’allégorie de la caverne comme une «origine possible» du cinéma, on oublie que pour Platon l’image est d’abord soumise à un jugement de vérité. C’est sous la condition de la vérité et de ce que la philosophie peut en dire que l’image et la projection se retrouvent liées. Ce problème n’est évidemment pas celui d’Edison et des frères Lumière. Il importe donc de bien se demander de quoi on fait l’histoire lorsque l’on prête au cinéma des origines qui dépassent de loin celles de son invention technique.
A.M.: Si le relevé des relations à la peinture est un élément essentiel des analyses conduites dans ce livre, comment évaluez-vous l’avènement de l’image numérique?
Luc Vancheri: Comme toute évolution technologique, l’infographie numérique a bouleversé l’économie des images en substituant un médium à un autre. Le passage de l’analogique au numérique a profondément inquiété le modèle ontologique de l’image photographique – certains y ont vu une mort du cinéma, avant que les cinéastes eux-mêmes se mettent à penser leurs films à partir des possibilités du numérique –, mais il a aussi libéré des puissances plastiques qui lui étaient jusque-là inaccessibles. Toutes choses égales par ailleurs, c’est ce qu’avait compris Eisenstein lorsqu’il s’est intéressé au dessin animé et aux productions Disney à partir de l’idée de plasmaticité qui fait droit à une autonomie figurative des formes, comprenant que le dessin animé n’était pas sans ressources pour penser les puissances formelles du cinéma. On retrouve une telle volonté d’exploration figurative chez des cinéastes aussi différents que Jean-François Laguionie (Le Tableau, 2011) ou Wes Anderson (Isle of Dog, 2018). Mais ce que dit cette évolution technologique, c’est que la technique est nécessairement le lieu d’une pensée esthétique, ce que savaient bien les premiers théoriciens italiens de la perspective. Avec son De Pictura (1435), Leon Battista Alberti n’écrit pas seulement un traité de peinture à l’usage des peintres, il renouvelle la rhétorique de Ciceron par les mathématiques et introduit la peinture dans un âge nouveau, comme l’écrivait C. Dionisotti qui y reconnaissait “l’impronta dell’uomo nuovo, dell’artista e umanista laico, signore del suo mondo, capacee di rappresentare e giudicare e modificare la realità in ogni suo aspetto, ache umile.” (Chierici e laici, 1977).
A.M.: La maison d’édition Negretto a récemment publié une traduction italienne de Cinéma et Peinture. Pensez-vous que ce livre pourra trouver son public en Italie?
Luc Vancheri: Je l’espère. Et à dire vrai, je le crois. L’Italie a été le creuset de notre culture de l’image, je suis donc très heureux de pouvoir être lu en italien. Mais mon livre n’est jamais que l’un des nombreux essais consacrés aux relations cinéma et peinture et je me réjouis qu’elles fassent toujours l’objet de travaux monographiques. Je pense aux livres de Moscariello Angelo, Pier Marco de Santi, Silva Marina Nironi ou de Mathias Balbi. Je pense aussi à mes collègues en France qui poursuivent cette réflexion, à Jacques Aumont et à son opus essentiel qui a ouvert la voie à de nombreuses recherches, L’occhio interminabile, à Jean-Michel Durafour qui poursuit un travail original sur ce qu’il nomme l’éconologie (Cinéma et cristaux. Traité d’éconologie, 2018), et à mes doctorants – Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival ou Pascale Deloche qui vient d’achever une formidable thèse sur le procès de La Ricotta de P.P. Pasolini – qui prolongent cette réflexion sur l’image en l’étendant au cinéma politique. La littérature savante sur le cinéma a beaucoup changé depuis ces vingt dernières années. Elle s’est considérablement enrichie et a atteint un très haut niveau scientifique. C’est une très bonne nouvelle, pour le cinéma et pour les études cinématographiques.
A.M.: Travaillez-vous actuellement à un nouveau livre? Anticipez-vous quelque chose?
Luc Vancheri: Dans mon dernier livre, Le cinéma ou le dernier des arts (2018), je me suis intéressé aux variations historiques du signifiant “cinéma“, ce qui m’a amené à réviser nos manières de penser l’histoire du cinéma en dégageant trois moments structurels qui désignent trois conceptions cinéma fort différentes. En distinguant le moment Lumière, le moment Canudo et le moment Younblood, j’ai cherché à montrer que le cinéma, pour chacun de ses moments, a existé sous des rapports différents, rapports sociaux, culturels, économiques, politiques qui désignent à chaque fois un état du cinéma irréductible. La thèse que je défends est celle-ci: reconnaître le cinéma septième dans la suite des arts, c’est accepter l’idée que l’art est la condition historique du cinéma. Or dire cela, c’est d’une part considérer que la cinématographie-attraction décrite par l’école montréalaise désigne bien une alternative à la pensée du cinématographique et, d’autre part, que l’expanded cinema qui existe sans rien devoir à l’idée d’art qui assure la régulation sociale du dispositif cinématographique propose une autre alternative, directement soumise au régime contemporain de l’art. Le malentendu qui oppose les tenants du dispositif historique aux défenseurs du cinéma élargi repose précisément sur cet impensé: si l’on modifie l’idée d’art qui règle le fonctionnement de l’industrie et des institutions cinématographiques, c’est l’idée même de cinéma qui se met à changer. Et cela donne le cinéma installé que vous avez dans les musées et les biennales d’art contemporain. Or ce cinéma est toujours contesté, alors même que des cinéastes le revendiquent. Il me semblait important de revenir sur nos manières de penser le cinéma et d’en faire l’histoire. Quant à mon travail le plus récent, je viens à peine d’en achever le manuscrit, il s’agit d’une étude monographique consacréee à un film de Philippe Faucon, Fatima (2015). J’ai cherché à montrer que le film ne se résumait pas à son sujet social, l’immigration et la souffrance sociale de ses personnages, parce qu’il déploie tout un ensemble de situations esthétiques qui fonctionnent comme autant d’occasions de restaurer les liens qui vont du cinéma à la philosophie, à l’histoire, à la politique et à la peinture. J’ai donc cherché, en repartant de la petite polémique que le film a essuyée au moment où il reçoit le César du meilleur film (2016), à décrire la manière dont le cinéma s’introduit dans l’histoire de la pensée, en modifie les coordonnées et les formes, reprend des problèmes plus anciens pour relire ceux dont il est le contemporain. C’est ainsi que j’ai pris le parti d’analyser certaines séquences du film en mobilisant les fragments philosophiques d’Héraclite, le De lingua latina de Varron, le texte de Benjamin sur Nicolas Leskov ou bien encore le Was ist Aufklärung? de Kant. Il devrait paraître au printemps 2019.
A.M.: Quittons-nous sur une citation.
Luc Vancheri: «Il faut l’imaginer, Saskia mourante et lui dans son atelier, perché sur des échelles, disloquant l’ordonnance de La Ronde de nuit. S’il croit en Dieu? Pas quand il peint.»
Jean Genet, «Ce qui est resté d’un Rembrandt déchiré en petits carrés bien réguliers, et foutu aux chiottes. II», in Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p. 77.
In lingua inglese
A.M.: Professor Vancheri, I’m pleased to present you to Italian readers with this interview. As a first question I would like to ask you about the birth of your passion for cinema.
Luc Vancheri: As many people of my generation, I came from cinephilia, an era where people discovert cinema in cinematheques and in cinema d’essai. In any case, when I became interested in cinema, at the end of the ’70s, the critical tradition of the Cahiers du Cinéma and of Positif is no longer the only one, but is now accompanied by a theorization on cinema influenced by the human sciences. On the critical side, I was marked by the thought of André Bazin and the new guard of the Cahiers who later formed the Nouvelle Vague (Godard and Truffaut who were extremely brilliant critics, but also Rohmer and Rivette). However, I was particularly sensitive to the political moment of the Cahiers after May 1968 and the theoretical radicalism of a militant criticism. In the late ’70s, when Daney and Toubiana operate what is called the return to the film, I begin to measure the complexity of cinema as an aesthetic and social fact. From a theoretical point of view, if in France, at the end of the 1960s, the academic literature on cinema was still influenced by the sum-works of Sadoul and Mitry, things changed at the beginning of the ’70s with the works inspired by structuralism, from semiology and psychoanalysis. I was so influenced by Christian Metz and his works on cinematographic language (Il significante immaginario 1977) that gave an essential impulse to theoretical thought, but also from the early books of Pierre Sorlin (Sociologia del Cinema, 1977), by Raymond Bellour on American cinema (1980), Jean-Louis Schefer on the condition of the spectator (L’uomo comune del cinema, 1980) and Pascal Bonizer on the filmic form (Il campo cieco, 1982). Moreover, at the end of the 70s, it takes place the renewal of cinematic history (Brighton Congress, 1978) that makes the place “of the early days cinema.” Various phenomena change my relationship with cinema, which from cinephilia becomes university research. The creation of the first department of film studies in France at the Sorbonne Nouvelle in 1969 marks a decisive change in the way in which cinema will now be thought of. As has already been observed by Francesco Casetti (Cinema Theory, 1993), cinema is now the subject of a triple investment. It is accepted as a fact of culture that has finally become legitimate; is subjected to a specialization of the discourse under the influence of the human sciences; and finally, the phenomenon spreads on an international scale. Paradoxically, I have never been tempted by film critics, because since immediately I wasattracted by the theoretical side. This is perhaps due to my university education where philosophy, art history and modern literature are combined. So my first texts are immediately analytical and theoretical. My first essay on the cinema Figuration of the inhuman (1992), published by the Presses Universitaires Vincennes in the Hors Cadre collection directed by Marie-Claire Ropars, is dedicated to the plastic possibilities of human representation in cinema. I have never strayed from this reasoned approach to cinema: my latest book, published at the Presses Universitaires de Rennes in this month of August, Le cinéma ou le dernier des arts, presents a historical panorama dedicated to the manner in which the significant cinema it has been reshaped by the theory during its brief history. It is clear that I have retained the same taste for the theory.
A.M.: The cover of the essay “Cinéma e Peinture” pays homage to the 1982 film “Passion” by one of the greatest French directors: Jean-Luc Godard. Film that we find examined in the fourth chapter with the subtitle: “the praise of the classics”. Can we say that even today Godard has not been overcome in terms of aesthetic research in connection with the seventh art?
Luc Vancheri: Jean-Luc Godard is first of all a model and a myth. His work, which is at the same time critical, theoretical and filmic, is, for historical significance, for aesthetic and existential depth, for audiovisual strength (It is one of the rare filmmakers to have made the relationship between these the starting point of a politic theory of the cinema during the period of the Dziga Vertov group) and for theoretical power (I think about the Histoire (s) du Cinéma) a total work without equal. He, with Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, belongs to that circle of rare artists who thought of cinema as a fact of civilization to which they attributed an aesthetic and political messianism, something that has not, however, avoided a profound pessimism, as for Pasolini at the end of his life. The films of Godard have, moreover, told the essential moments of the second half of the twentieth century, were symptoms of cultural and political metamorphosis that have marked this part of History. Consider, for example, Le Petit Soldat on the War of Algeria, or La Chinoise, which anticipates the revolutionary breakthrough of May ’68, or Je vous salue, Marie, which incorporates the religious problem of Western society, etc. However, his relationship with art is largely prepared by the classicism of the critical years to the Cahiers – it has been forgotten – but the first references are to Poussin, Crébillon, and Madame Lafayette, as it was forgotten that at that time Godard he did not hesitate to define the modernity of Bresson and Welles as anticynematographic. Only later he will make place for Goya’s painting, Manet and Delacroix, who will no longer cease to inhabit his work. But even in this case the theoretical references are basically rather classical. Jean-Paul Belmondo reads Elie Faure in Pierrot le Fou. Jacques Aumont has moreover rightly observed that with Histoire(s) du cinéma, realized between 1988 and 1998, Godard himself becomes the Elie Faure of cinema. The only real change is the transition to the installation and the museum exhibition with Voyages en Utopie (2006) commissioned by Domenique Païni for the Centre Pompidou. Agnès Varda, Claire Denis, Apichtpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch and Abbas Kiarostami all come to contemporary art and present installations in museum spaces. Let’s see then how Godard was an extremely lucid observer: at the same time a Cassandra of a century traumatized by his wars and an indefatigable prophet of the redemptive power of cinema.
A.M.: The introduction entitled “Art to the Test of the Cinema” cites extensively “Blow Up” by Michelangelo Antonioni. If at the beginning of cinema the contamination between Italian cinema and French cinema was extensive and profitable, how do you see today’s situation?
Luc Vancheri: Blow up (1966) is a paradoxical film, realized and produced by two Italians, Michelangelo Antonioni and Carlo Ponti, who managed to impose the image of Swinging London from the 1960s. The film also marks a turning point in the director’s career who filmed the next one in the United States (Zabriskie Point, 1970). Antonioni’s cultured modernism crosses the modernity of pop culture. Let’s not forget that it was John Cowan’s studio, at 39 Prince’s Place, which served as an apartment to Thomas, the character played by David Hemmings. Let’s not forget his decor: John Wright’s armchairs (Dodo Design), John Cowan’s prints, Alan Davie’s canvas, Joy Joy Stick, another by Ian Stephenson, Still Life Abstraction (1957). Antonioni is not content simply to take inspiration from the fashion photographs of David Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan and David Montgomery for the Thomas shooting session; he also realized that cinema could be the art that would document the cultural and artistic revolution of the 1960s. This is precisely what Antonioni describes in an interview for Playboy newspaper in November 1967, where he declares “all I know is that we are crushed by a bunch of old and worn-out things – habits, customs, entrenched attitudes, already dead and past. The strength of young British in Blow Up lies in their ability to throw everything overboard “(A candid conversation with Italy’s master of cinematic anomie). As for the first pictures that Thomas brings to his editor at the beginning of the film, they are prints by Don McCullin, Man about Time, who had made a photographic reportage about East London poors in 1961. Blow up has not only imposed itself as the chic emblem of pop culture (models pose with clothes by Courrège and Mary Quant) or as a theoretical reinterpretation of pop art; he managed to link two different aesthetic phenomena. One has to do with the old phenomenological conflict between photography and reality, here reinterpreted starting from essays on abstraction in painting (for this reason, Still Life Abstraction is precisely the abstract duplication of photography enlarged in the details of Thomas). The other concerns the ethical tension that opposes the defenders of the art pour l’art and the supporters of a social and political art (it is a resumption of the aesthetic quarrel born in France around 1830). What is interesting in all this is the fact that he is an heir of neorealism to take back the threads of this aesthetic turn, a phenomenon far from being isolated since the yellow that is born in the same period in Italy is inseparable from a reappropriation of painting of the 60s. Mario Bava and Dario Argento have not simply invented a new cinematographic genre, but have deeply renewed the relationship between painting and cinema. Pauline Mari left an important essay on this question at the Presses Universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). It is clear that we are talking about a film-manifesto that has summarized its era, a bit like The Inhuman of Marcel L’Herbier for the Twenties, or Godard’s Passion for the 80s, or Visage by Tsai Ming Liang for the 2000s. These films are an event not only because they have managed to think visually about their time, but also because they have identified the aesthetic problems that this arises.
A.M.: In what ways did the students who attended courses at the University of Paris 3 inspired “Cinéma and Peinture”?
Luc Vancheri: This book that the Negretto Editions has just translated is very old. I wrote it ten years ago and I can say that it constitutes the first phase of a theoretical approach that I then brought forward and enriched with a figurative and iconological approach of the image typical of my latest books. If Les Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) is a theoretical exploration of the Freudian contribution to a new analysis of the image that is now accepted in the field of film studies, Psycho. The iconology lesson by Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) and The Great Illusion. The imaginary museum by Jean Renoir (Presses Universitaire du Septentrion, 2015) are two monographic studies conducted in the footsteps of Aby Warburg, author who Carlo Ginzburg has spread in Italy well before he discovered it in France (Miti, Emblemi e Spie, 1986). My latest works have therefore tried to verify the heuristics of notions elaborated in the field of psychoanalysis and of the history of art in film studies. I then became interested in Freudian figurability as well as the Warburgian notions of pathosformel and nachleben because they allow us to rethink the relationship between cinema and painting, considering painting as a visual archive of forms, a repertoire of motifs, gestures and figures of human expressions. that the cinema has reinvested and we need to take back the story. To clarify the sense of this research a little better, I can quickly return to Psycho by Alfred Hitchcock. It is a film saturated with interpretations to which it seems difficult to add something today. However, when I became interested, I was struck by the fact that the picture that Norman Bates raises to spy on Marion Crane had never been identified. Not only was not yet known who had painted this variation of Susanna and the elders, but above all had never wondered what the gestures of Susanna could tell us about that of Marion Crane during her murder in the shower. The two gestures had never been approached, but the staging solution adopted by Hitchcock is a calculated reinterpretation of the setting of the painting by Willem van Mieris who painted his Susanna in 1731. What apparently seems to be only a detail of an image, cong the artifice of a voyeurist device, is to summarize, the hermeneutical key of a film that is part of a long theological, liturgical, literary and iconographic tradition. This tradition revisits the motif of a Susanna taken from the book of Daniel, at the same time a saint, a prayerful figure of the Church. But if we take back the famous scene of Marion Crane’s assassination in the shower, we realize that his way of fighting against the aggressor, Norman Bates, is extremely close to what the iconography of Susanna has widely popularized. Marion struggles against Norman Bates as Susanna defended herself from the two old men. The link between Susanna and Marion is therefore precisely that formula of pathos that is shown to us by the framework possessed by Norman. Alfred Hitchcock makes Susanna the principle of a moral lesson that informs us about Marion, which is, to be honest, a Christian to whom grace has been lacking. We can see then, how, starting from a single painting, Susanna’s iconography and biblical hermeneutics have survived in Alfred Hitchcock’s film, how they were linked together, so that this intense visual rhetoric played a role in a reading of America between social modernity and cultural archaism. The study of the relationship between cinema and painting has now entered an extremely rich phase of original and scholarly works that allow us to glimpse a horizon of exciting research. I am happy to see that our students have chosen to dedicate themselves to it and that there are more and more theses on this subject.
A.M.: Projection of images. We can state that the connection and the contamination described in your book starts from the consideration that, since primitive humans, projecting images (in caverns for example) is a necessary and indispensable fact for the human being to define his own existence?
Luc Vancheri: It is customary to describe the technical invention of cinema by recalling a historical sequence that begins roughly with Dr. Fitton’s Taumatropio (1826) before finding the solution with the Lumière cinematpgraph (1895), passing through the Plateau Fenachitiscope (1832), the Zootropio by Horner (1834), the optical theater by Emile Reynaud (1888) and the Kinetoscope by Edison (1981). But Edison’s procedure was quickly differentiated from that of Lumière, relying on the cinematographic projection as the essential condition of the device. Starting from this, we asked ourselves about the link between projection and image, because we are dealing with something that we already find at the Renaissance with the construction of a perspective representation. There was even questioned whether the allegory of Plato’s cave described in Book VII of the Republic is not the first film reference. But such a rereading of the history of cinema is based on a misunderstanding. We must not confuse what we call the history of cinema with the history of the elements that make up its device. We can therefore write two separate stories if we are interested in the scientific filiation that adapts the cinematographic image to the laws of optics and chemistry or if we retrace the genealogy of magical thought that judges the image as an illusion, a spectrum or a ghost. The magic lantern marks this hesitation between an order of reason that owes everything to technique and a disorder of the senses abandoned to phenomenological uncertainty. When the allegory of the cave is accepted as the “possible origin” of the cinema, one forgets that for Plato the image is in the first place subject to a judgment of truth. It is under the condition of truth and of what philosophy can tell us that image and projection are linked together. The problem is not that of Edison and the Lumière brothers. What matters is the question of what history is made of when we attribute to the cinema some origins that far exceed the time of its technical invention.
A.M.: If the harmonic investigation and the connection with painting is a determining factor for the films described in your book, how do you evaluate the advent of computer graphics?
Luc Vancheri: Like any technological evolution, computer graphics has upset the image economy by substituting one medium for another. The transition from analogic to digital has deeply disturbed the ontological model of the photographic image – some have seen a death of the cinema, before the filmmakers themselves started thinking about their films starting from the possibilities of digital – but also freed plastic powers so far inaccessible until now. Under equal conditions, it is what Eisenstein understood when he was interested in animated films and Disney productions starting from the idea of plasmaticità which gives green light to a figurative autonomy of forms, comprising as the animated film can offer resources to reflect on the formal powers of cinema. We find such a desire for figurative exploration with very different filmmakers like Jean-François Laguionie (Le Tableau, 2011) or Wes Anderson (L’isola dei cani, 2018). This technological evolution tells us that technology is necessarily the place of an aesthetic thought, something that the early Italian theorists of perspective knew well. With De Pitura (1435), Leon Battista Alberti not only writes a painting treatise for painters, but he renews Cicerone’s rhetoric through mathematics and introduces painting into a new era, as C. Dionisotti observed in Alberti “The imprint of the new man, of the artist and of the laic humanist, lord of his world, capable of representing, judging and modifying reality in all its aspects, even humble” (Clerics and laity, 1977).
A.M.: The publishing house Negretto Editore has recently published in italian translation “Cinema e Pittura”. Do you think that the essay can have market also in Italy?
Luc Vancheri: I hope. And to be honest, I believe it. Italy has been the melting pot of our image culture. I am therefore very happy for the possibility to be read in Italian. But my book is only one of the many essays dedicated to the relationship between cinema and painting, and I am pleased that these are still subject of monographic works. I think about the books of Moscariello Angelo, Pier Marco De Santi, Silva Marina Nironi or Mathias Balbi. I also think about my colleagues in France who are continuing this reflection, Jacques Aumont and his essential work that has opened the way to numerous researches – The Interminable Eye -, to Jean-Michel Durafour who continues an original work on what defines the econology (Cinema and Crystals, Treaty of Econology, 2018), and to my PhD students – Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival or Pascale Deloche who has just finished a formidable thesis on the judicial process on the film La Ricotta by P.P. Pasolini – they prolong this reflection on the image by enlarging it to political cinema. The academic literature on cinema has changed a lot in the last twenty years. It has been greatly enriched and has reached a very high scientific level. It is a nice novelty for cinema and film studios in general.
A.M.: Are you currently working on a new publication? Can you anticipate something?
Luc Vancheri: In my latest book, Le cinéma ou le dernier des arts (2018), I was interested in the historical variations of the significant “cinema”, which led me to review our way of thinking about the history of cinema, underlining three structural moments that imply three very different concepts of cinema. By distinguishing the Lumière phase, the Canudo phase and the Youngblood phase, I have tried to show that cinema, in each of its moments, has existed according to different relationships: social, cultural, economic, political relationships that draw an irreducible condition of cinema every time. This is the thesis I defend: to recognize cinema as the seventh in the sequence of the arts, is to accept the idea that art is the historical condition of cinema. But to say this means, on the one hand, to consider that the cinematography-attraction described by the Montreal school designates an alternative to the thought of cinematograph, on the other, that the expanded cinema exists without owing anything to the idea of art as what ensures the social regulation of the cinematographic device and proposes another alternative, directly subservient to the contemporary regime of art. The misunderstanding that opposes the proponents of the historical device to the defenders of the enlarged cinema is based precisely on this node: if you change the idea of art that regulates the functioning of the industry and the cinematographic institutions, it is the very idea of cinema that changes . And this generates the installation cinema of museums and biennials of contemporary art. But this type of cinema is still contested, even if some filmmakers claim this. It therefore seems to me important to go back to the way of thinking about cinema and to make its history. Regarding my most recent work, I have just finished the manuscript. This is a monographic study dedicated to a film by Philippe Faucon, Fatima (2015). I tried to show that the film should not be reduced simply to its social theme, the immigration and the social suffering of its characters, because it deploys a whole set of aesthetic situations that function as occasions to reaffirm the links that go from cinema to philosophy, to history, politics and painting. I therefore tried, starting from the controversy that arose when the film received the César (2016), to describe the way in which the cinema is introduced in the history of thought, changes its coordinates and shapes, it takes older issues to re-read those of which it is contemporary. So I decided to analyze some sequences of the film using the philosophical fragments of Heraclitus, the De Lingua Latina by Varrone, the text of Benjamin about Nicolas Leskov or the Was ist Aufklarung? by Kant. It should be published in spring 2019.
A.M.: Let us salute with a quote…
Luc Vancheri: “You have to imagine Saskia dying and he in his atelier, leaning on some stairs, changing the composition of The Night Watch. If he believes in God? Not when he paints.”
“What is left of a Rembrandt torn in small regular squares, and thrown to the toilet”.
Jean Genet, Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p.77
Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore
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