Autunno tra poesia e vino: un excursus nella cultura greca
All’avvicinarsi dell’Autunno, vorrei offrire cordialmente un assist ai miei “venticinque lettori” affinché, invece di cadere nella disperazione, vivano il cambio di stagione in modo leggero, ma non per questo frivolo, accompagnati dalla guida inconfondibile ed inimitabile dei Greci (noi moderni siamo solo nani sulle spalle dei giganti!).
Emotivamente siamo tutti tristi alla fine dell’estate, pieni di malinconia e nostalgia. Ma possiamo usareappieno le nostre facoltà per conoscere, perché solo la conoscenza ci permetterà non solo di accettare l’arrivo dell’Autunno, ma anche di scoprirne la vera essenza e di abbracciarlo amorevolmente.
Innanzitutto la consapevolezza del valore etimologico del termine Autunno ci consentirà di liberarci dai nostri inutili pregiudizi e di riconciliarci con questa stagione con tutta la dolcezza che essa merita. Infatti, Autumnus (da cui Autunno) in latino esprime l’idea del ‘crescere’, dell’ ‘accrescere’, in quanto collegato con il verbo augeo, ‘aumentare’, ‘accrescere’, ‘far crescere’, ‘sviluppare’ ‘rafforzare’, ‘aiutare’ (da cui auctor, autore; Augustus, Augusto) a sua volta derivato dal greco auxano (per tutti quelli che credono che il latino e greco siano solo lingue morte faccio notare solo a latere che appartiene alla stessa famiglia etimologica e semantica anche la nostra espressione “Auguri” con cui amiamo dirci Buon Compleanno, Buon Natale, Buon Anno et similia).
L’Autunno è, dunque, il tempo dell’“accrescimento”, ovvero della “maturazione” dei frutti, quindi nella cultura contadina è una stagione sostanziosa, produttiva e di attesa. Facile comprenderne il perché: arrivano l’uva, il vino e tanti altri graditissimi prodotti della terra.
Mentre quindi nel nostro comune (ed emotivo) modo di pensare l’Autunno è solo il momento della caduta (in inglese si dice anche Fall, dal verbo che significa cadere…) nell’accezione originaria Autunno indica la fase della maturità. L’ambiguità semantica della terminologia con cui nominiamo questa stagione è ben attestata nella lingua greca antica. In essa, infatti, sono presenti due parole per denominare l’Autunno. Senza entrare troppo nei tecnicismi, la prima designa la fase della “tarda Estate/inizio Autunno”; la seconda la fase dell’“Autunno pieno”: sta a noi scegliere quale di queste due privilegiare! Optando per la prima, l’Autunno è una derivazione dall’estate o meglio della tarda estate, ovvero del periodo di massima pienezza della Natura; optando per la seconda l’Autunno è solo il periodo triste e nebbioso della caduta delle foglie, dei capelli et similia; per semplificare ancora, l’opzione è tra la parte costruttiva e quella distruttiva. Non dobbiamo tuttavia dimenticarci che sono due stadi tra loro contigui.
Già solo per spiegare il senso della parola “Autunno” mi sono rifatta alle lingue classiche. Normale quindi partire dai testi antichi scritti in queste lingue. Citerò alcuni componimenti che trattano il tema Autunno-vino appartenenti a due generi poetici diversi. Prima quelli concernenti il “genere epico”, poi quelli concernenti il “genere lirico”.
Secondo i canoni “estetico-letterari” è epica una produzione poetica caratterizzata da stile solenne e contenuto enciclopedico, finalizzata all’interesse di un pubblico totale (capi e popolo) con presentazione di eroi (personaggi semidivini) paradigmatici (aventi cioè funzione di esempio per gli ascoltatori-lettori). Ci tengo a precisare che questa definizione l’ho recuperata dai miei appunti di epica di quarto ginnasio dettati dalla mia insegnante di Lettere (italiano, latino, greco, storia, geografia!), la prof.ssa Maria Luisa Feliciani che ringrazio per avermi trasmesso l’amore per il latino e soprattutto per il greco: è un dono immenso.
Invece con “lirica/lirico” oggi ci riferiamo impropriamente ad un insieme di componimenti che anticamente appartenevano a sottogeneri diversi. Per comodità userò questo termine comune, senza addentrarmi troppo nello specifico. Si possono definire liriche quelle produzioni poetiche “più corte” dei poemi epici, contraddistinte da una metrica diversa, da uno stile più variegato (più o meno solenne a seconda dei casi), e da una dimensione più ristretta: esse cioè presentano, in genere, singole tematiche (l’amore, la politica, l’eroismo in guerra) e sono destinate ad un pubblico più ristretto. Nascono sempre da momenti di condivisione e sono sempre pensate per occasioni di condivisione, ma si tratta di circostanze più ristrette (si scrive in per i nobili di una città, in vista di una gara sportiva o di un simposio).
Prima di riportare ciascun testo lo introdurrò e poi lo commenterò brevemente. La traduzione dei testi è la mia.
I primi versi che riporterò sono quelli del poeta Esiodo vissuto probabilmente tra VIII e VII secolo a. C. Con Esiodo incontriamo non solo il primo rappresentante dell’epos storicamente vissuto, ma soprattutto il primo poeta greco e occidentale tout-court. Prima di lui c’è il mitico Omero, mitico sia di nome che di fatto: infatti, probabilmente, si tratta di una figura mai realmente vissuta, convenzionalmente riconosciuta come simbolo delle origini della poesia greca.
Tornando al nostro Esiodo, tra le sue opere va annoverata innanzitutto la Teogonia, riguardante “la nascita degli dei” (alla lettera) e, in senso più ampio, la cosmogonia; in seconda istanza (e su questo mi soffermerò) va menzionato il poema Le opere e giorni, dedicato al fratello Perse e non più strutturato soltanto come narrazione in se stessa di gesta divine ed eroiche, ma per la prima volta anche come racconto della vita quotidiana; in tale esposizione si inseriscono anche precetti relativi al lavoro pratico, in particolare quello agricolo, visto come esempio di vita moralmente integra (il lavoro tutto rende l’uomo migliore e amato dagli dei). Nella sezione dedicata all’agricoltura il nostro poeta parla delle quattro stagioni e dei doveri cui il bravo agricoltore deve attendere in ciascuna di essa. Riporterò alcuni stralci sull’Autunno:
“Quando cessa la forza del sole intenso
e della calura che fa sudare, ovvero nel periodo
in cui Zeus potentissimo fa cadere le piogge autunnali,
in seguito a ciò il corpo dei mortali muta,
diventando molto leggero; e infatti proprio allora la stella Sirio
per un breve tratto del giorno cammina sopra la testa degli uomini destinati alla morte (alla lettera = “che si nutrono di morte”),
ma occupa gran parte della notte.
In quel periodo la selva, tagliata dal ferro,
non è attaccata dai vermi,
versa foglie a terra, e smette di produrre germogli;
allora bisogna che tu tagli la legna, ricordandoti
quali siano i lavori adatti alla stagione”.
Osservando la Natura, Esiodo identifica l’Autunno con la fase caratterizzata dallo scemare del calore solare e della luce; aumentano, invece, piogge e buio perché la notte dura di più del giorno; si nota nei versi sopra riportati una corrispondenza fra la “Natura esterna” e la “Natura dell’uomo”: in quest’epoca storica l’uomo è ancora concepito come parte della Natura, è un microcosmo nel quale si riflette il macrocosmo. E così la sua pelle non suda più (per effetto del sole meno forte), il suo corpo è alleggerito dalla frescura; se le piante non germogliano più, egli può approfittarne per tagliare la legna.
Inoltre, tra le competenze del bravo agricoltore c’è quella di saper riconoscere anche da solo il cambiamento di stagione, come ci attestano le seguenti parole:
“Poniti in ascolto per riconoscere la voce della gru,
che ogni anno si fa sentire dall’alto delle nubi:
ci fa così comprendere che è ora di arare,
e che è giunta la stagione dell’inverno piovoso.
Tale annunciatrice, dunque, punge il cuore dell’uomo povero, privo di buoi”.
Anche in questo brano il passaggio ad un’altra stagione viene comunicato mediante i segnali della natura; l’uomo deve essere disposto ed attento ad ascoltarli, se vuole essere tempestivo nelle attività proprie della nuova stagione che non apparirebbe in realtà molto allettante.
Tra i lavori tipici dell’Autunno non può mancare di certo la vendemmia. Anche su questa Esiodo detta le sue preziose istruzioni:
“Qualora Orione e Sirio giungano
a metà del cielo, e l’Aurora dalle dita rosate giunga a contemplare Arturo
allora, o Perse, raccogli e porta a casa tutti i grappoli,
esponili al sole per dieci giorni e dieci notti,
per cinque giorni invece tienili all’ombra; al sesto poni
nei vasi i doni di Dioniso pieno di gioia”.
Non so se ancora oggi si eseguano le istruzioni di Esiodo per vendemmiare. Di certo è evidente che il vino è al tempo stesso il risultato della fatica umana e un dono divino: esso è elargito solo a chi si è dato da fare per produrlo, perché non nasce da solo. È dono della Natura (Dioniso rappresenta la Natura stessa) debitamente lavorata e assecondata ai bisogni umani: e Dioniso è, non a caso, il più umano fra gli dei ellenici.
Faccio solo notare due cose: Esiodo parla essenzialmente di due attività connesse con l’Autunno, la vendemmia e l’aratura. In base ad alcuni indicatori temporali presenti nei passi che ho riportato e in altri che non ho riportato (ma sempre appartenenti alla sezione sull’Autunno) risulta evidente che la vendemmia cadeva per Esiodo intorno a metà settembre, l’aratura intorno a novembre, ovvero rispettivamente nella prima e nella seconda fase in cui I Greci dividevano l’autunno, come ho detto in precedenza.
Vengo ora alle “citazioni liriche”. Per molti autori greci non è raro associare alle stagioni della vita quelle meteorologiche: la stagione del sole è la giovinezza, quella senza sole la vecchiaia. Per molti scrittori bisognerebbe vivere nella prima e morire nella seconda. Così dovette pensarla Mimnermo, un poeta successivo ad Esiodo. È il primo lirico che citerò in questo contributo. Visse nel VII sec. a.C. e scrisse componimenti brevi e concernenti aspetti diversi. In molti di essi si riflette sulla condizione dell’uomo:
“Come la stagione della Primavera ricca di fiori, fa nascere le foglie
quando esse sono nutrite ed accresciute dai raggi del sole,
così noi umani godiamo solo per un breve tempo dei fiori della giovinezza,
senza poter conoscere da parte degli dei né il male né il bene.
Le nere dée del Fato incombono sopra di noi,
una ha in mano il destino della terribile vecchiaia,
l’altra della morte; il frutto della giovinezza dura per pochissimo tempo,
per tutto il tempo in cui il sole si diffonde sulla terra;
poi ‒ non appena giunge la fine della primavera ‒,
in questo stesso momento è meglio morire che vivere:
infatti molti mali sopraggiungono nel cuore;
ad uno va in rovina la casa, e lo circondano gli effetti dolorosi della fame,
un altro è privo dei figli, e giunge sotto terra nell’Ade
continuando ancora a desiderarli;
un altro è colpito da una malattia che gli corrode lo spirito,
non esiste nessuno fra i mortali a cui Zeus non abbia inferto dei brutti mali”.
Come accennato in questo componimento è sempre costante l’associazione “bella stagione-primavera della vita” da un lato e “brutta stagione-autunno della vita” dall’altro. La prima è però destinata a sfiorire troppo presto, secondo la visione pessimistica del nostro autore. Come commento a questi versi propongo direttamente la traduzione di un altro passo di Mimnermo:
“Quale vita, quale piacere senza la dorata Afrodite?
Possa io morire, qualora non mi stiano più a cuore le seguenti cose:
l’amore segreto, e i dolci doni e il letto,
i quali costituiscono fuggevoli fiori della giovinezza, graditi
a uomini e a donne. Ma, quando sopraggiunge la dolorosa vecchiaia
che rende l’uomo sia turpe che brutto,
sempre orrende pene gli consumano l’animo,
e non è più addolcito dal guardare i raggi del sole,
ma è inviso ai ragazzi, non più onorato dalle donne;
così penosa un dio fece la vecchiaia”.
La depressione esistenziale che può attraversare l’uomo nel malinconico autunno della vita si rispecchia nei suoi tratti fisici, vistosamente deformati a causa del passare degli anni. Questo è lucidamente constatato da Anacreonte, poeta del VI sec. a. C., di cui frequenti risultano i versi intesi come riflessione sul tempo che scorre. Leggiamone il seguente componimento:
“Grigie sono già le mie tempie
e bianca la mia testa,
non posso più godere ormai
della stagione più gradita,
i miei denti sono proprio da vecchio:
non mi resta ancora molto tempo
della dolce vita.
Per questo motivo piango,
temendo molto il Tartaro: è terribile, infatti, il cuore dell’Ade,
dolorosa la discesa in esso;
non è infatti consentito di risalire
a colui che scende”.
Il tema della vecchiaia che fa imbiancare barba e capelli non è nuovo in Anacreonte e non è nuovo nella poesia greca arcaica; pur nella constatazione dolorosa che la vecchiaia è l’antecedente della morte, si nota – rispetto al pessimismo di Mimnermo – una maggiore ironia, che quasi avvicina il componimento a quelli di un poeta ancor più famoso per il suo spirito ironico e ricco di invettiva: sto parlando di Archiloco il poeta del biasimo per eccellenza. Quest’ultimo è sempre un poeta “lirico”, vissuto un po’prima di Anacreonte (nel VII sec. a. C.).
Proprio alcuni versi archilochei anticipano, meglio di ogni mia altra parola, una sorta di commento al tono ironico lievemente accennato in quelli di Anacreonte:
“La tua tenera pelle non è più in fiore:
infatti ormai si è tutta dissecata a causa delle rughe.
Il destino della brutta vecchiaia ti ha afferrata.
Il dolce desiderio di Eros svanì dal tuo piacevole volto:
infatti molti soffi di venti invernali ti raggelarono”.
Archiloco si rivolge ad una donna non più tanto giovane, prendendola in giro. Forse non le stava molto simpatica. L’ironia archilochea, consentendo un distacco rispetto al dolore connesso con il trascorrere del tempo, ci aiuta a recuperare una condizione di equilibrio e di lucidità, grazie alla quale è possibile vedere anche il lato positivo delle cose poco amate.
Antico ed illustre testimone di ciò è un altro poeta greco, Alceo, vissuto nel VII-VI secolo a. C. È un poeta del simposio, come Anacreonte, ma rispetto a quest’ultimo la sua poesia è più fresca ed ispirata, più passionale nel senso buono del termine. Il prossimo componimento previsto nella mia selezione è suo:
“Il tuo tempo se ne è andato
e il tuo frutto è stato raccolto;
il tuo ramo però è ancora bello:
così ci fai sperare che
in seguito sarai ancora ricco
di molti grappoli”.
Il destinatario di questi frammenti non è più giovanissimo: per questo viene paragonato ad una vite vecchia, che ha ormai dato il suo frutto (“Il tuo tempo se ne è andato e il tuo frutto è stato raccolto”); fa seguito poi una parte positiva (“il tuo ramo però…”) in cui con il poeta afferma con forza la condizione sostanzialmente sana di questa pianta, fuor di metafora, del suo interlocutore.
Anche chi è ormai in là con gli anni può essere ancora energico e dare ancora il meglio di sé, così come una vecchia vite ‒ se custodita bene ‒ può ancora generare uva e quindi vino. In questi versi riaffiora, contestualmente, quell’ambivalenza fra momento calante e momento crescente di cui ho già parlato riferendomi all’Autunno.
In questa lirica essa è insita nella Vecchiaia; ma poiché tutto il filo conduttore di questo intervento è stato incentrato sull’analogia (testimoniata dai poeti stessi) fra il passare delle stagioni atmosferiche e il passare delle stagioni della Vita, è evidente che la stagione della Vendemmia, ovvero l’Autunno è quella che simboleggia la massima ricchezza e la massima privazione in generale: solo da una vigna ricca si può raccogliere tanta uva, così come solo da chi ha tanta esperienza nella vita si possono prendere tanti esempi; né la vigna da un lato, né la persona matura dall’altro, smettono di donare il proprio frutto; in quanto ricche nella loro essenza esse possono ancora dare molto: un vecchio vigneto può ancora produrre ottimo vino e un uomo, benché non più giovanissimo, può comunque avere figli e in ogni caso apportare alla società il contributo della sua saggezza, acquisita nel tempo.
Con Alceo abbiamo così recuperato, spero, tutta la dolcezza e la piacevolezza dell’Autunno, una stagione ricca di frutti: fra questi il vino. Ce lo dice ancora una volta Alceo che andiamo dunque a leggere in una sequenza di componimenti brevi e veloci: “Talora lo spilliamo dolce come il miele e talora, invece, più pungente del cardo”; “Il vino è lo strumento attraverso cui l’uomo può guardare se stesso”; “Ragazzo mio, ricorda questo motto: in vino veritas!”; “Grazie, perché mi hai fatto dimenticare tutti i miei guai”; “Non piantare nessun altro albero se non la vite”.
La vite è un buon investimento, i suoi anni non si contano, così come non si contano quelli di un buon vino o di un uomo saggio. Questo fu compreso appieno dai Greci: in opposizione a poeti che disdegnano la vecchiaia ce ne sono altri, in grado di scrivere: “Inizio ad invecchiare, pur continuando ad imparare sempre molte cose”; e ancora: “Il vino nuovo farà dimenticare quello vecchio, dell’anno precedente: queste sono solo chiacchiere vuote di ragazzi”; infine: “Ma da questa vigna temo, purtroppo, che possano cogliere grappoli acerbi?”.
A conclusione di questa rapida selezione voglio richiamare i versi più belli, come invito e come augurio. Essi, non a caso, sono di Alceo e sono stati tradotti in modo famoso da un poeta latino di I sec. a.C., Orazio, come segue: “Nunc est bibendum!”, = “Si è fatta l’ora di bere”.
Ad maiora, semper!
Written by Filomena Gagliardi
Traduzione dal greco di Filomena Gagliardi
Info
Le métier de la critique: la primavera e l’attitudine all’osservazione dei lirici greci
Le métier de la critique: Estate dei poeti greci e la necessità di ristoro dalla calura
Le métier de la critique: l’Inverno tra neve e casa, un excursus nella lirica greca
Pezzo fantastico
Complimenti !
Bellissimo articolo, complimenti.