“Tempo di riserva”, poesie di Silvia Rosa: l’oro non sarà mai fisso
“Un altro giorno spremuto in fretta/ impastato intero – un grumo -/ dentro tutto il tempo del mondo/ scolora appena fino alla linea curva/ del cuore, un’arancia d’inverno/ data in pasto alla noia, acida.”[1]
I versi di Silvia Rosa ricreano le quattro stagioni – dalla “Natura morta” invernale a ipotesi di un “Futuro” non dato. Mentre la poeta compie un giro di danza lungo il cerchio dell’anno, mi ritrovo affascinata da un arazzo di scaglie lucenti: vedo delinearsi l’immagine dell’Uroboro, il rettile archetipico che divora la propria coda; lo scorgo nel rigirarsi su se stesso del sentimento vitale:
“in quest’attesa che domani è già ieri e/ il calendario si muove al contrario/ si morde la coda, gira in tondo, sbrana/ i minuti lentamente spolpandomi/ fino al cuore”.[2]
Il serpente mitologico perpetua una circumnavigazione intorno al centro (del Sé, del tempo, del non-divenire): da un’estremità all’altra, continuamente, in eterno ritorno prende vita un movimento che somiglia stranamente alla fissità. Se si reitera il ciclo delle cose, e il “tempo di riserva” è (forse) dentro lo sguardo di un’anima anelante al calore, desiderosa di corrispondere all’altro nei sensi e nei significati per condividere sé con l’altro oltre il “melodramma da salotto”[3], non resta:
“tra le ombre/ stese nel giardino, solo l’immobilità/ estatica dell’infanzia, un tempo/ lunghissimo da sgranocchiare/ oltre il per sempre”.
Se la fine dell’autunno si fa punto di partenza invernale – è inevitabile – dunque sarebbe possibile compiere un secondo giro, e poi un terzo, e dieci ancora. Trascorrere una vita intera nell’esistere circolare alla ricerca del tempo di riserva? Non è quel che ogni anima che si rispetti (e si impasti, si rovisti, si rivolti), di fatto, agisce? L’Uroboro compie un giro di giostra tra le pagine di Silvia Rosa: potrebbe mutare forma e cambiare colore; potrebbe uscire da se stesso e diventare spirale. Potrebbe. Ma il cambiamento di rotta non può darsi senza un intervento diretto. I compiti dell’adepto nella Grande Opera prevedono un taglio: a cadere dev’essere il caput – il capo, la sede del pensiero, la testa del rettile o del corvo, entrambi animali simbolici appartenenti alla putrefactio. Nel girotondo, il serpente mitologico è ferito: si aprono scorci, si fa breccia nel tracciato, nuove soglie nel reiterarsi delle memorie d’infanzia, sguardi che scandagliano uno spazio di riserva, quell’altrove ‒ “da qualche parte” – in cui la poeta ha “messo via” il suo “fuoco”, il “desiderio inascoltato”.
“Mio pettirosso spiumato/ quello del libro dell’infanzia/ con la testina reclinata nella neve,/ mia foglia immaginaria, rame/ e oro che porto in una tasca,/ mio colore cangiante che viri al cielo/ e poi al nero di vulcano, mia parola/ […]”
e poi ancora:
“mio tesoro nascosto a tre anni”
fino a quel
“mio amore grande che ti ho messo via/ da qualche parte, insieme agli occhi,/ lontanissimo, non mi ricordo dove,/ e adesso che ti cerco non ti trovo”.[4]
Il “Tempo di riserva” trascorre, dalla poesia che dà il titolo alla silloge di Silvia Rosa, e spalanca davanti ai miei occhi di lettrice un varco, l’occasione – forse anche il “mio rimpianto”[5], il nostro comune umano rimpianto – il passaggio – “in questo squarcio”[6] – eventuale tra le spire del girotondo eterno, alla ricerca del punto in cui tutto potrebbe farsi nuovo, persino il calendario.
Gli adepti dell’antica ars regia conoscevano il segreto del cerchio. Sapevano che occorre spezzare l’anello, il girotondo che è condizione indistinta dell’essere, se si desidera procedere dal piombo all’oro, se l’intento è creare la Pietra Filosofale. È l’Opera contra naturam – dal Vaso gli elementi escono, il fisso si fa volatile, le gabbie si aprono da sé nell’ideale ermetico della trasformazione. Per la poeta all’opera è:
“troppo difficile, forse, guardare all’azzurro/ impalpabile senza una gabbia di occhi/ domestici, senza un volto già noto che ammicchi,/ senza prospettive plausibili – un appiglio -/ per il volo di Icaro: l’informe è il buio/ accecante oltre l’ultimo sprazzo di blu/ […]”[7]
Vedo Silvia Rosa ballare a ritmo cadenzato tra le pagine di un anno intero, sostando in punta di penna là dove il suo stesso desiderio sosta – a volte appare immota, sembra immobile ma poi freme – operando indefessa con la propria prima materia.
Figli di Ermete Trismegisto, non siamo consapevoli sin dall’inizio di ciò che stiamo per plasmare; anche la poeta, mentre è intenta a tracciare versi o quando decide come ordinare le proprie poesie in una silloge, non è detto che sappia dire di avere o meno prodotto l’oro. Può, tutto sommato, rendersene conto dopo. A oro fatto.
La via dell’Ars Regia attraversa l’inverno – la nigredo – stagione dalla quale Rosa parte – Sub Rosa – sussurri e grida, a tratti in silenzio, attenta. La putrefactio di “Natura Morta”, il “grumo” (ma il poeta stesso, così scriveva Giuseppe Ungaretti, è “un grumo di sogni”[8]), la “noia acida”, il “nido appassito”: le immagini evocano un talamo mortale trasformativo, la fornace dell’alchimista preso al cappio in un buio profondo dal quale non sembra, finché l’adepto si trova in quello stato oscuro, esserci alcuna via d’uscita. Nel talamo mortale c’è l’amato in ossa e sangue – “reliquia”[9], simulacro di un desiderio da tenere “nella teca dell’ombelico”. È un paesaggio in cui domina il Sol Niger.
“Quella volta che il sole/ è caduto per terra/ con uno sparo di voce/ dentro la sua stessa luce/ colpito forte, sembravano/ lucciole le schegge/ che mi cascavano tra i capelli/ legati in un nodo,/ sembrava la fine di un mondo/ […]”[10]
Se dal sole nero “la vita riprende – così dicono –”
è
“solo meno luminosa e/ un poco più fredda, scomoda/ […]”.
Se l’Opus sia stata avviata prima che Rosa immaginasse i testi o dopo, a cose fatte, non importa, perché il calendario “di riserva” evoca la strada dell’anima, l’andare verso il centro con la sensazione che questo stesso centro sfugga alla comprensione, che sia sempre uroborico, appunto, e ritrovarsi ogni volta ai margini, sulla coda della coscienza. E allora è tutto un ritentare, un tuffarsi a fondo, un risalire per non fermarlo, questo tempo – che forse:
“non è nemmeno troppo tardi per farsi/ di silenzio, senza posticci desideri sulle labbra”.[11]
Pur narrando la fissità delle cose e delle case, Rosa dà voce al desiderio di un Vas, di un contenitore per la sua Opera. Trasmutarsi ancora e sempre, un cambiamento ambito, cercato, sognato, come l’amore da vivere al di là del “Piombo”, elemento simbolico che mi rimanda inevitabilmente allo stato che è per l’alchimista quella stessa nigredo priva della vista oltre se stessa. Un anelito all’amore che possa riconoscersi fuori dal “buco nero” -:
“il danno di un amore è la caduta/ il palpito mancato/ […][12]”.
Sospesa, Silvia Rosa soppesa i giorni tra le pagine, dalla prima fino all’ultima poesia – e, avvolgendo tutte le stagioni, ne fa un il filo. I giorni, dice, sono “corvi” – gli uccelli dell’Opera al Nero. “Corvi neri, neri giorni”[13] come spazi e pause nel tempo, nel tempo-spazio. Ma corvini sono anche i capelli – il nido dell’amore che è lontano da sé, però. È altrove, è da un’altra parte e cinge i fianchi della “sposa, giovinezza accecante”[14] da invidiare. Un amore che scivola via – ma come, sembra chiedersi la poeta? Non era ieri? Perché il tempo anche se sembra non scorrere mai, in realtà passa. È dopo, che te ne accorgi, scoprendo di averlo sperperato.
“Che sperpero questa quotidianità/ Svuotata di tenerezze, nudo/ sasso che ci rimbalza contro, sguardo/ d’orizzonte addomesticato asciutto.”[15]
– sprecare restando in dispare, dietro la porta?
Nella prefazione al libro Gabriella Montanari evoca Sylvia Plath. Aggiungo l’altro elemento della famosa coppia in eterna nigredo: penso subito al mio amato Ted Hughes, al “Cave Birds” da lui scritto dopo il suicidio della compagna, al corvo che ha cantato – il corvo incapace di dire amore. Penso al ricomporsi di vertebre e ossa degli amanti in “Sposo e sposa nascosti per tre giorni”. La coppia alchemica, io la riconosco nei versi – associo a Luna e Sole, a Regina e Re – i due opposti chiusi nell’alambicco, duetto scevro al cambiamento, l’ardua via della coniunctio oppositorum descritta da Jung negli studi sull’alchimia, mio campo di studi e di interesse ormai da tanti anni (il mio tempo di riserva).[16]
L’inverno – e le altre stagioni nella “casa senza finestre”[17] – delle gabbie cantato dalla poeta mi fa anche rivivere lo spazio-tempo di Nora, la sposa ibseniana prima del risveglio di coscienza. A differenza di questa, la poeta nella dimora di bambola qui è già ben desta, ed è capace di “odio”, “finché c’è odio c’è speranza”, che è “spinta propulsiva”[18] – eppure appare ancora immobile. Mi vengono in mente gli innumerevoli dipinti di donne alla finestra, un’immagine archetipica che attraversa la Storia dell’Arte – il vetro è quello dell’alambicco nel quale sembra prender forma quella “riserva” che non si riconosce dal “lieto fine”; un tempo agognato, che ridia fiducia anche alla volpe della poesia invernale.[19]
Forse la trasmutazione dell’Uroboro dal piombo all’oro può avvenire in primavera? La rinascita sarà in estate? Un’immagine nuova mi solletica mentre leggo le Poesie di Silvia Rosa, adesso, ed è il volto di Persefone, innocenza perduta nel mito, ricaduta suo malgrado nel “buco nero” del tempo stagionale governato in altalena dalla Grande Madre Demetra e da Ade, costretta a dividersi tra i due sul palco dei dodici mesi.
La dea figlia non è madre (se non dell’attesa), se non di se stessa (collocandosi sempre altrove).
Attraverso “pieni allegri” e “vuoti gravi”[20] per riaprire cassetti pieni di memorie – dal sottosuolo, io la vedo, Persefone – “foglia immaginaria rame e oro che porto in una tasca, mio colore cangiante che viri al cielo e poi al nero di vulcano”[21] – nella poeta adepta.
L’alchimia è un percorso di trasformazione ed è ricerca senza fine. L’oro si trova nella feccia, in sterquiliniis invenitur, ma non è dato sapere se veramente lo si ritroverà, quel balsamo, quella medicina, il nostro aurum non vulgi – e, in ogni caso, l’oro non sarà mai fisso. Fisso e volatile sono nell’Arte (Regia) due movimenti che sempre devono incontrarsi per creare qualcosa. In armonia, se possibile.
La Montanari riconosce nel tempo descritto dalla poeta l’idea della lunga unica stagione che si va a comporre nelle pagine ed è pregna di nostalgia. Nostalgia e, per me, malinconia, Pothos del Puer Aeternus che non riesce a trovare pace e non esce dal cerchio[22]. Lo sguardo di Rosa è rivolto all’indietro, alla fanciulla, intento a scorgere i contorni del vaso primigenio, contenitore uterino, casa della prigionia ma anche dell’amore divenuto mito, favola, ricordo che adesso riaffiora e ancora chiama – è la madre culla, la madre denti aguzzi del lupo che ritorna nei volti amati che accompagnano l’evoluzione della (di ogni!) bambina, e gli abbracci che non si trovano ma si immaginano e desiderano in fame. Dama in “fame d’abbracci che scava lo stomaco”[23], nel tempo sospeso che non è probabilmente quello di riserva agognato c’è il fatto che “l’amore o la morte, non saprebbe dire adesso, in effetti, la differenza”.
Ade, di fatto, è per Core la morte – è il ratto, il rapimento[24].
Tempo di riserva forse è quello del latte tiepido di Demetra, “un presagio di culla prima di sentire freddo”. Una speranza per la bambina di carta immobile dal momento dello strappo[25]. Speranza di latte, nutrimento della casa, risonanza genetica[26] oltre cecità e mutismo. Ah!, se l’innocenza del Puer non fosse annacquata – eppure fissa.[27]
In autunno l’opera della poeta si conclude per ricominciare. Le fantasie che popolano lo spazio-tempo oltre il freddo mi arrivano come, un tentativo di resa[28], un “noi”[29] che si fa incontro del maschile e femminile – ancor più probabile quando “Dio non è più le mani di un uomo”. [30]
“La bellezza, vedi, è esserci”.[31]
Ma nulla si chiude.
Ricomincia il giro.
Alla ricerca del “Tempo di riserva”.
“Qui è dove il tempo/ ci ha costretti/ a un sogno in miniatura/ ad abbandonare la dorsale/ incerta del domani/ a procedere occhi a terra/ respiro breve – soli –// Dicevi del coraggio/ è vero, ma anche l’odio/ sai, è un pungolo/ la spinta propulsiva/ a non demordere/ – finché c’è odio c’è speranza –/ a non dimenticare/ basta sostituire la parola amore/ logora e blasfema/ a questo doppio girotondo/ di vocali, un cerchio, un cappio/ ripetuto fino all’io/ ed è da questo tempo di riserva/ e con la stessa intensità di prima/ che adesso esercito la cura:/ odiarti, deluderti con gioia (la mia),/ lasciarti prigioniero del presente/ identico a te stesso, immobile,/ negarti infine e ancora al mio futuro.”
“Tempo di riserva” di Silvia Rosa, Giuliano Ladolfi Editore, 2018
Written by Valeria Bianchi Mian
Psicologa psicoterapeuta di orientamento junghiano
Info
Note
[1] Pagina 14, Natura Morta
[2] Pagina 37, Fino al cuore
[3] Pagina 19 Oltre il per sempre
[4] Pagina 24, Da qualche parte
[5] Pagina 24, ibidem
[6] Pagina 34, Forse, sarà
[7] Pagina 32, Prospettive
[8] Giuseppe Ungaretti, “Italia” – Sono un poeta/un grido unanime/sono un grumo di sogni […]
Sono un frutto
[9] Pagina 17, Reliquia
[10] Pagina 15, Quella volta
[11] Pagina 31, Nemmeno
[12] Pagina 33, Piombo
[13] Pagina 18, Giorni
[14] Pagina 29, Primavera altra
[15] Pagina 13, Che sperpero questa quotidianità
[16] “Cave Birds, un dramma alchemico nella caverna” è un’opera da conoscere assolutamente. Hughes la compose nel 1978
[17] Pagina 32, Prospettive
[18] Pagina 16, Tempo di riserva
[19] Pagina 20, Inverno volpe
[20] Pagina 23, Per davvero
[21] Pagina 25, Da qualche parte
[22] James Hillman ne parla in “Saggi sul Puer”
[23] Pagina 34 – Forse, sarà
[24] Pagina 35, La differenza
[25] Pagina 38 e 48-49, La stessa di allora, Bambina di carta
[26] Pagina 53, Chimera
[27] Pagina 58, Innocenza
[28] Pagina 72, Con tutta la mia voglia di non esserci
[29] Pagina 74, Solo noi
[30] Pagina 75, Farfalla
[31] Pagina 79, Tutte le stagioni
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