Selfie & Told: Marco de Annuntiis racconta l’album “Jukebox all’Idroscalo”
“Sono un poeta come De André/ con la sigaretta come De André/ sono santo come De André/ sono maledetto come De André// Sono censurato come De André/ sono sdoganato come De André/ intellettuale come De André/ Sono popolare come De André// […]” ‒ “Come De André”
Mi chiamo Marco de Annuntiis e sono un cantautore a cui fa schifo definirsi “cantautore”.
Suono molti strumenti ma nessuno benissimo, spero ancora di riuscire a migliorare.
Dicono che ho la “erre” moscia ma in realtà sono convinto di pronunciarla esattamente come va pronunciata.
Ho sperperato il patrimonio di mio nonno in dischi, libri e alcool, ma poi per fortuna ho trovato un produttore.
Adesso giro con una Volkswagen più vecchia di me e spendo tutto ciò che ho in benzina e sigarette: non farei a cambio con nessun altro.
“Penso che l’auto-intervista sia l’essenza della creatività: lo scrittore è appunto uno che risponde a una serie di domande non poste.“
Questo lo scrisse Jim Morrison nel prologo a “Deserto”, per cui quando ho ricevuto questa richiesta per la rubrica “selfie & told” non mi sono scomposto affatto. Anzi, visto che le interviste organizzate sono tutte “compiacenti” partiamo proprio dalla domanda più scomoda che mi viene in mente mettendomi davanti allo specchio.
M.d.A.: Marco de Annuntiis, hai superato i 30 anni da un pezzo, questo tuo album “Jukebox all’idroscalo” non è un po’ tardivo come esordio da solista?
Marco de Annuntiis: In realtà suono da sempre, ma fino a poco fa non pensavo a un disco da cantautore: non ero sicuro di avere davvero qualcosa da dire e soprattutto di volerlo fare mettendoci il mio nome, senza nascondermi dietro un gruppo. Poi da ragazzo avevo altri interessi, altre ambizioni, la poesia, il cinema… mi sono laureato in lettere, ho lavorato, ho perso tempo, mi sono fatto del male… ho fatto il giro largo, si vede che il momento è arrivato adesso.
M.d.A.: A proposito nel tuo curriculum si legge che ti sei laureato con una tesi sul rapporto fra poesia e canzone: quindi sei uno di quelli che pensa che la canzone d’autore sia poesia? Bob Dylan meritava quel Nobel?
Marco de Annuntiis: Brutalmente: no! A parte che non capisco perché dovrebbe esserlo solo la canzone d’autore e non quella popolare (sia in senso tradizionale che commerciale), io scrivo sia canzoni che poesie e so che sono cose diverse. Nessuno si chiede se il romanzo sia poesia, se il cinema sia poesia. Quindi chi sente il bisogno di promuovere una canzone al rango di poesia evidentemente non ama davvero la canzone, anzi se ne vergogna. Detto ciò il Nobel è per la letteratura, non per la poesia, quindi il premio a Dylan poteva pure starci; del resto dopo la nomination di Roberto Vecchioni a sto punto la voglio pure io.
M.d.A.: Difatti in “Come De André” non dici “cantautore” ma “chansonnier”…
Marco de Annuntiis: “Cantautore” è una parola che non mi piace, anche se per convenzione non si può fare a meno di usarla. Lo sbilanciamento sull’ “autore” denuncia proprio quel complesso di inferiorità, uno stereotipo vecchio di scrittore “serio” che si rifiuta di esibirsi o se proprio deve cantare sia chiaro che lo fa malvolentieri. Il francese “chansonnier” è un participio presente, colui che fa canzoni, e le canzoni esistono nel tempo che vengono eseguite, per questo la preferisco.
M.d.A.: Ma alla fine “Come De André” è un omaggio o una provocazione?
Marco de Annuntiis: Entrambe le cose: quale modo migliore di omaggiare De André che provocare con ironia? Naturalmente non tutti lo capiranno, sono consapevole che per molti puristi sarò “quel coglione che si crede di essere De André”, ma il bersaglio è proprio quello, la trasfigurazione in santini intoccabili di certi artisti dopo la morte.
M.d.A.: Okay, ma non far finta di non capire, quello che la gente si chiederà è: ti ci senti davvero “Come De André”?
Marco de Annuntiis: No, e nemmeno vorrei esserlo. Preferisco essere un buon de Annuntiis che un cattivo De André. A volte c’è più originalità in una cover ben personalizzata che in un inedito scritto cercando di essere qualcun altro.
M.d.A.: Proprio tu parli di originalità? L’album è pieno di riferimenti (soprattutto cinematografici) e alla fine l’unica citazione manifesta del brano è il riff di “Psycho killer” dei Talking Heads, che oltretutto con De André non c’entra nulla.
Marco de Annuntiis: Quello è diverso: “nouvelle vague” e “new wave” significano letteralmente la stessa cosa, e volevo dimostrare che per noi post-moderni non c’è più differenza tra anni ’60 e anni ’80, tra rock e De André, tra beat generation e Pasolini, tra Dario Argento e Sherlock Holmes: oggi tutte le reliquie del ‘900 stanno insieme una accanto all’altra, come le porcellane esposte nelle credenze dei nostri nonni.
M.d.A.: Il tuo disco è uscito il mese scorso, per la Cinedelic, solo in vinile: che risultati sta avendo questa scelta?
Marco de Annuntiis: Sto seguendo una promozione “al contrario”, come questa intervista. Oggi chiunque può costruirsi una credibilità comprando like su facebook e visualizzazioni su youtube, ma se cedi a quel sistema come fai a sapere davvero quanto vali? Il percorso “obbligato”, quello classico, l’ho già seguito con il mio gruppo precedente: singolo con arrangiamenti electro-pop pieni di synth, videoclip sessualmente ammiccante, ufficio stampa generalista, interviste in radio airplay che nessuno ascolta, aperture a grossi nomi in semi-playback… tutta una giostra rivestita di una patina di ufficialità fasulla, per far finta di mantenere in vita un divismo anni ’80 che non esiste più. Se dovessi fare i nomi di colleghi più famosi che in realtà non vendono un disco e vivono di altro riceverei tante querele. Il mio non è un disco facile, destinato a “fare il botto” immediato. Sono contento di aver fatto il vinile con la Cinedelic perché è un’etichetta di nicchia per definizione, che punta sulla qualità e si rivolge ad un pubblico di appassionati. Altrimenti andiamo tutti a vendere pentole e materassi.
M.d.A.: C’è qualcuno che vorresti ringraziare?
Marco de Annuntiis: Tutti, ma in modo particolare Luigi Piergiovanni, che ha prodotto il disco insieme a me e senza cui tutto questo non sarebbe stato possibile. Non è stato un rapporto idilliaco da subito, anzi la sua produzione per la mia vecchia band alla fine ha portato allo scioglimento del gruppo. Ma è stato lui che a quel punto mi ha convinto a fare il disco da solista. Ha detto: “per te vorrei produrre un disco che non deve nemmeno sembrare sia mai stato prodotto da nessuno”. Mi convinse.
M.d.A.: Gli arrangiamenti di “Jukebox all’Idroscalo” sono dominati dal tuo organo Farfisa, una scelta insolita e nostalgica, ma diciamoci la verità: anche un po’ limitata…
Marco de Annuntiis: Con le tecnologie di oggi si è portati a strafare, a moltiplicare, a sovraincidere 40 tracce laddove ne basterebbero 4. Volevo superare questa logica tornando ai miei primi amori, ai complessi beat degli anni ’60 che ascoltava mia madre. Inoltre, anche se oggi non si direbbe, da bambino ho imparato la musica suonando l’organo in chiesa, per questo quando scoprii il rock mi innamorai subito dei Doors, di Nick Cave… per fare tutto il più live possibile ho deciso di arrangiare tutti i pezzi col mio organo Farfisa, difatti ho rinunciato a suonare io la chitarra nel disco.
M.d.A.: C’è un brano, “Borderline”, in cui duetti con Ilenia Volpe: perché hai scelto lei?
Marco de Annuntiis: Perché credo che nonostante le ovvie differenze di stile lei fosse il mio unico alter ego possibile: lei è una punk e io un dandy, la sua voce ha la grinta di una donna con le palle e la mia ha la snervatezza di un uomo dissoluto: dovendo cantare la schizofrenia mi sembrava la scelta naturale.
M.d.A.: Ora fatti la classica domanda di chiusura: progetti per il futuro?
Marco de Annuntiis: Non lo so, non riesco nemmeno a stare dietro a tutti i progetti del presente: oltre a “essere” Marco de Annuntiis suono l’organo nei Marasma Ghandi (un collettivo sperimentale di improvvisazioni elettroniche in cui io faccio la parte analogica) e la chitarra nei Banana Cult (una band che rende omaggio agli spettacoli psichedelici dei Velvet Underground di Andy Warhol). Sto lavorando alle colonne sonore strumentali di un paio di film, e ho già in mente altri due dischi di canzoni, ma non credo che farò il cantautore per tutta la vita: mi piacerebbe fare così tante cose, produrre dischi altrui, scrivere un romanzo, imparare a giocare a tennis… forse un giorno aprirò un’etichetta discografica mia, oppure riprenderò a insegnare italiano e latino in qualche scuola privata: la vita è troppo breve per vestirsi tutti i giorni nello stesso modo.
“[…] Non capite/ cosa vi perdete/ Non sapete/ che fortuna avete// Amo/ vivere/ proprio qui/ peccato per l’epoca/ Odio/ essere/ border line/ è meraviglioso// […]” ‒ “Borderline”
Written by Marco de Annuntiis
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