Tour negli Stati Uniti 2018: Nicole Stella racconta la sua avventura da outsider

Eccomi di nuovo qui: aeroporto JFK di New York, il passaporto nella tasca sinistra della giacca e il telefono in mano, che cerca invano una connessione wifi.

Nicole Stella – Live in New York

In mancanza della connessione, mi fido della mia memoria, guardo l’orologio e penso che sì, dovrei proprio farcela a prendere il treno delle 6:16 che, in circa tre ore, mi porterà da Jamaica Station a Montauk.

Neanche il tempo di pensarlo ed ecco che gli addetti alla sicurezza aprono una seconda fila, quella riservata a chi ha il visto ancora valido. La procedura, scopro, è molto più veloce e meno stressogena. Quasi nessuna domanda, solo un timbro e un sorriso.

Finalmente posso correre a cercare la mia chitarra, che, come al solito, essendo un bagaglio fuori misura, compare negli angoli più remoti degli aeroporti che mi trovo a visitare. E questa volta, invece, è proprio lì davanti al nastro trasportatore.

Corro verso l’Air Train, la monorotaia che collega gli ampissimi otto terminal del JFK e che culmina a Jamaica Station. Riesco a prendere il treno per Montauk e a farmi una dormita prima di giungere a destinazione. Il tour inizia.

Arrivo a Montauk e prendo un taxi per lo Yacht Club. Sono in ritardo per la mia esibizione, ma per fortuna siamo in tanti a suonare: è l’opening party del festival e quasi tutti i partecipanti condividono i tre palchi piazzati dentro e fuori l’hotel.

Mi esibisco circa dieci minuti dopo il mio arrivo, giusto il tempo di salutare gli amici conosciuti lo scorso anno ed estrarre la chitarra dalla custodia, stracolma di vestiti, spartiti, corde di ricambio, medicinali che mi sono portata per precauzione e una serie di altre cose buttate lì per risolvere la mancanza di spazio nel bagaglio a mano.

Finalmente posso suonare e conoscere una coppia di Long Island che è venuta qui per conoscermi, dopo avermi ascoltato online e aver messo uno di quegli anonimi “mi piace” alla mia pagina Facebook. Finalmente il loro “mi piace” non è più anonimo, ma ha un volto, una mano da stringere e l’emozione di sapere che qualcuno ha fatto qualche chilometro di strada per venirmi a sentire.

L’organizzazione del tour negli Stati Uniti, quest’anno, mi ha provocato non poca ansia e tantissimi dubbi.

Lo scorso anno, forse più ingenua e con meno pressione sulle spalle, avevo considerato il viaggio una sorta di avventura, una sfida con me stessa: viaggiare per la prima volta dall’altra parte del mondo, da sola, allo scopo preciso di far conoscere la mia musica al di fuori.

Al di fuori di cosa, poi?

Fin dall’inizio ho costruito questa piccola carriera come una nomade. Gli speaker alla conferenza sulla musica indipendente, che anche quest’anno accompagna il Festival, parlano di costruirsi una reputazione a livello locale.

Nicole Stella

Io, quando ho iniziato a suonare, vivevo a Londra ed ero, a tutti gli effetti, un’outsider. Metà musicista, metà impiegata (non avevo ancora avuto il coraggio di “mollare tutto” per la musica); straniera; giovane, ma non così tanto giovane.

Fin dall’inizio non sono mai appartenuta ad alcun circuito, ad alcuna scena. Persino i luoghi in cui torno spesso per suonare non mi appartengono e io non appartengo a loro.

La mia nuova casa, Pisa, non ha spazio per me, almeno per quanto riguarda la possibilità di esibirmi (capitolo a parte).

E, qualche giorno dopo Montauk, mentre passo il New Jersey Turnpike (quello che Simon e Garfunkel citano in America) penso che sì, ne sono consapevole: forse sono io a non voler appartenere ad alcunchè. Sono io a chiudere le porte o a non aprirle affatto. Mi volto e cerco dell’altro. Sono fatta così.

Al 668 The Gig Shack propongo una delle ultime canzoni che ho scritto, un blues molto malinconico sulla vita in bilico, lo sradicamento, i sogni e la realtà, le convenzioni sociali. Nemmeno qui la capiscono, ma almeno esultano dopo Something To Say.

Ritrovo Alfredo, un anno dopo. Un musicista incredibile, che l’anno scorso mi aveva rincorso da Shagwong, prima del mio set, convinto che me la fossi fatta sotto perché chi mi precedeva era una full band molto conosciuta in zona, con tanto di frontman strafigo che, nel mezzo di una canzone, si era messo a correre sul bancone e rubare shottini al barista.

Il povero Alfredo, che in quel contesto aveva il compito di pensare ai volumi e al cambio palco, pensava che fossi scappata (e non nascondo che la tentazione c’era stata, ma una non può fare tutti quei chilometri per farsi prendere dalla paura).

Anche quest’anno mi dà tanti consigli. Ascolta il mio nuovo album (lui era tra quelli che mi avevano consigliato di passare alla lingua italiana) e mi dà un giudizio positivo, ma molto rigoroso. Mi ripete ciò che ci siamo detti un anno fa: mai scendere a compromessi. E io suggello quello che sembra un patto tra allieva e mentore con un bicchiere di birra che mi scivola dalle mani e che atterra tra il prato e la sua giacca di pelle.

Ritrovo la mia amica Lupe, generosa e spensierata come sempre, materna come sempre, che, la sera, mi chiede di mandarle un messaggio per avvisarla che sono arrivata al mio motel sana e salva.

Quest’anno mi chiede, senza alcuna malizia, quando sono previste nozze e gravidanza. Anche se non glielo dico, inizio ad avvertire quanto possa essere lungo un anno, mentre io sono sempre più vicina ai trenta e sempre più lontana dai venti e il desiderio di maternità, in questa vita in bilico, stenta ancora ad arrivare.

Anche Joey, che mi ha aiutata ad organizzare la serata a Philadelphia, mi fa la stessa domanda. “Che strano,” penso,in Italia mi scambiano ancora per studentessa e invece qui sembro già destinata al ruolo di zitella.”

Joey e Lupe sono due amici e fan sfegatati, di quelli che guidano per chilometri per venirti a sentire. E difatti Joey si presenta anche al concerto di Baltimora e ci porta pure il fratello.

Nicole Stella – Live in Philadelphia

Se potessi avere una macchina del tempo,” mi dice,ti riporterei agli anni Settanta o Ottanta, quando l’industria musicale funzionava.

Già. Come volevasi dimostrare. Sono di nuovo un’outsider.

La mia musica non è certo in linea con il gusto contemporaneo, eppure, a mio modo, sono figlia del mio tempo.

La precarietà, lo sradicamento, l’adolescenza che si allunga in maniera sempre più forzata a causa della mancanza di stabilità: sono tutti elementi ben presenti in me, nella mia generazione e, credo, anche nella mia musica. Forse è l’uso degli accordi sospesi, che Joni Mitchell chiamava chords of inquiries. Quello che rifiuto è la frivolezza, il ‘tutto è il contrario di tutto’, l’esaltazione della forma sulla sostanza, elementi che sono al tempo stesso conseguenza e origine dei punti di cui sopra.

A mio modo sono figlia del mio tempo, sempre tra treni e aeroporti, a cercare un’occasione, o meglio, a cercare di crearsela. Come faccio tra i vialoni di New York, lasciando la mia musica nei negozi, cantando davanti ad un pubblico molto, molto esiguo in un locale di Brooklyn e pensando che anche questa volta ho dato il massimo.

E quando è già tempo di buttare tutto a fatica tra bagaglio a mano e custodia della chitarra, nella stanzetta di Brooklyn in cui entrambe entrano a fatica, penso che, in fondo, c’è ancora molto, molto tempo.

 

Date Tour

17/18/19/20 maggio al Festival di Montauk

22 maggio a Philadelphia

24 maggio a Baltimora

26 maggio a New York

 

Written by Nicole Stella

 

 

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