Intervista di Alessandro Cortese a Procopio: Come un bambino

Da piccolo, mia madre mi portò nel laboratorio ceramico di un artigiano, là nella zona in cui abitavamo. Ricordo ancora l’odore particolare di quel posto. Allora credetti che fosse il profumo dell’argilla, o dei colori che il maestro usava per dar tono alle sue creazioni, ma argilla e vernici non c’entravano nulla.

Pino Procopio – Foto by G. Malandra

E poi, un paio d’anni fa, ho capito di cosa si trattasse quando ho avuto il piacere di entrare nello studio di Procopio.

Vedere lo studio di un artista è un’esperienza meravigliosa. La parola più giusta, per riassumere le tante sensazioni che si provano, è proprio meraviglia, quella che ti fa sgranare gli occhi lasciandoti pure a bocca aperta. Come un bambino, si rimane immobili dinanzi alla sorpresa di vedere l’impossibile diventare possibile, un disegno o un quadro o una statua che nascono nella mente per farsi spazio nel mondo, in cerca di chi possa guardarli e comunque ammirarli.

Quando sono entrato nello studio di Procopio, la prima volta, sapevo si trattava di uno dei pittori contemporanei più famosi. Nel 2004, un suo quadro era rimasto in tasca a qualche milione di persone per mesi e aveva curato alcune mostre personali molto importanti, come quella per il Ministero delle Comunicazioni.

A dir la verità, mi aspettavo di conoscere uno dei tanti artisti che raggiunto il successo guardano gli altri dall’alto in basso. Oppure un personaggio scontroso e solitario, che aveva scelto la cima di una collina in un piccolo paese abruzzese per andarci a dipingere.

Ma è bastato superare la porta d’ingresso del suo studio per riconoscere invece un odore che non sentivo da quando mia madre, da piccolo, mi portò da quel ceramista. Era lo stesso profumo percepito allora, guardando le creazioni appese alle pareti o sistemate sugli scaffali della bottega. E dopo tre decenni, da Procopio, ho finalmente capito che quello doveva essere l’odore della meraviglia.

Il complimento più bello che si possa fare a un artista è di amarlo per la sua arte. Da artista io stesso, l’ho sempre creduto e ho chiesto, a chi mi conosce, di leggere i miei libri o i miei articoli perché nel mondo vero non credo di essere mai stato me stesso. Eppure mi si può trovare in ogni parola che ho scritto. In ogni singola pagina. Dentro ciascuno dei miei personaggi.

Procopio è in ogni suo quadro. Prima del grande pittore, qualche anno fa ho avuto modo di scoprire una persona squisita che dipinge divertendosi. Per questo, io Procopio l’ho amato subito, appena messo piede nel suo laboratorio, dinanzi ai tanti quadri che tiene appesi, ai mille schizzi e bozzetti, alle sculture, tra le centinaia di libri che legge per farsi ispirare.

Davanti il cavalletto teneva aperto un atlante sugli animali, ma stava lavorando invece a un quadro sull’Odissea che quasi mi commosse, perché la tela era piena di mare.

Per un siciliano andato via da casa, come me, il mare continuerà a mancare tutta la vita, perché si può star comunque davanti a un mare qualsiasi, ma sarà sempre un mare diverso che non può essere rimedio per la mancanza. Eppure quel mare, quello che Procopio stava dipingendo nella sua Odissea, era il mio.

Quella mattina, credevo avremmo parlato poco e sarei andato via in fretta. Ma sono rimasto per alcune ore e parlato molto.

C’era un piccolo quadro, appeso vicino la porta. S’intitolava Parla di un cuore e raffigurava Salvatore, un pescatore in canottiera che è il personaggio più tipico nella pittura di Procopio, che chiacchierava con un grosso scorfano rosso.

Lui mi spiegò che l’aveva dipinto quando, saputo di un naufragio tra l’Africa e Lampedusa nell’ottobre del 2013, aveva voluto dare un po’ di giustizia a quei profughi che, scappati da casa propria, erano affondati col loro barcone. Salvatore e lo scorfano avrebbero continuato a parlarne per sempre, di quei cuori finiti in fondo al mare, senza dimenticarli mai. Perché l’arte ha la forza di fissare nel tempo qualsiasi cosa, rendendola immortale.

Bastò quel primo incontro con Procopio, con la sua pittura e i suoi quadri e con le storie che dipingeva, perché decidessimo di continuare a sentirci. Chiacchierate durate tanto di cui questa, che leggerete adesso, è solo un piccolo stralcio.

 

A.C.: Pino Procopio… se ti chiamo Maestro che mi rispondi?

Procopio – Odisseo

Procopio: Non rispondo! Di solito mi chiami Pino!

 

A.C.: Io e te ci conosciamo da qualche anno e, in così poco tempo, ti ho visto cambiare stile diverse volte, passando da quello che ha caratterizzato la maggior parte della tua produzione ad altri diversi, via via più elementari. Cos’è che ti spinge così spesso verso la variazione del tratto, e cosa c’è dietro le tue trasformazioni?

Procopio: La trasformazione è naturale. È come scivolare. Molti artisti iniziano dipingendo in un modo e poi cambiano. Anche in età avanzata, alcuni lo hanno fatto del tutto, mi vengono in mente Fontana, Capogrossi e Afro. Per fare un paragone con la scrittura, puoi scrivere come si faceva nell’800 o come un bambino della scuola materna, senza però cambiare quel che vuoi dire. L’espressione è unica anche con una diversa calligrafia. Se poi devo dire come la penso, io tutti questi cambiamenti nel mio modo di dipingere non li ho mai visti. Ma so che ci sono stati e che ci sono anche adesso. All’inizio della mia carriera usavo il pennellone da barba! Facevo quadri monocromi con la spatola… erano gli anni del liceo e non mi concentravo troppo sui tratti somatici, che erano inesistenti e sembrava che raffigurassi fantasmi. Disegnavo ricordi impregnati di meridionalità. Poi, il mio primo gallerista mi suggerì di usare un pennello vero e con quello ho scoperto il dettaglio. I fantasmi hanno preso vita e sono diventato il figuratore che conosci anche tu.

 

A.C.: In una tua intervista, tempo fa, leggevo che tu sei “il pittore degli sformati”… ovviamente, chi lo sosteneva si riferiva al fatto che tu, più di tanti figurativi, hai la tendenza a sformare, appunto, i soggetti dei tuoi quadri. L’impressione che ne ho io, a volte, è che tu voglia spingerti fino alla caricatura, e combinare soggetti di “forma” diversa, tridimensionali insieme a bidimensionali, più caricaturali assieme a quelli realistici. Se ne ha davvero l’idea di essere di fronte a un teatro dell’assurdo. Eppure, si resta affascinati dalla capacità dei tuoi personaggi di stare tutti dentro i tuoi quadri. È merito loro o è merito tuo?

Procopio: Quando i miei soggetti son diventati più caricaturali, è stato come se diventassero anche un pochino più miei. Si è scritto tanto, sui personaggi che ho ritratto, ma in pochi hanno detto che sono un ironico incompreso. Io voglio raccontare storie e i protagonisti delle mie storie devono essere adatti, a raccontare e a raccontarsi. Scelgo soggetti buffi e deformati perché mi aiutano nel mio tentativo di raccontare qualcosa che riesca a far sorridere. Lei racconta storie serissime con personaggi parecchio buffi, mi han detto una volta, ed è vero, è proprio così. Si possono dire cose serissime con un sorriso. Perché certe volte un sorriso serve a far rimanere le storie più impresse. Ed è più facile ricordare quel che ci viene detto, se si dice con ironia invece che indossando il cipiglio.

 

A.C.: Una volta mi hai detto che l’obiettivo dell’artista dovrebbe essere quello di “regredire”, non appena raggiunta la maturità. Hai aggiunto che lo stato finale di questa “regressione” dovrebbe essere la capacità di sintetizzare un’idea in pochi tratti. Raccontami questa visione delle cose… da dove nasce e come ci si arriva?

Procopio: Non si tratta di vero e proprio regredire. Preferisco pensare che sia un progredire a ritroso. Io nasco come scultore e ho sempre pensato che nella scultura si nasconda la sintesi del segno. Una sintesi che ritrovo pure nei disegni dei bambini e io, che conservavo questo desiderio da anni, ho deciso di cominciare ad adottare questo tratto più infantile. Esprimo le stesse idee ma, bambinescamente, usando pochissimi tratti. E mi piace, questa mia evoluzione, perché torno a esprimermi come fanno loro, i bimbi, che sono maestri nel dire con semplicità. Al di là della tecnica, un bambino si diverte molto più di un artista a disegnare, e io mi sto divertendo tanto ora, sebbene stia facendo parecchia fatica ad assimilare di nuovo questo modo così spontaneo d’intendere l’arte.

 

A.C.: E l’ultima fermata di questo progredire a ritroso, come lo chiami tu, alla ricerca di una sintesi evidente, potrebbe essere l’astrattismo? Mi hai sempre detto che ti affascina, l’idea nascosta in un quadro astratto, e in passato hai già provato a lavorare in questo senso.

Procopio – Parla di un cuore

Procopio: È difficile arrivare all’astrazione in modo corretto. L’arte astratta è concettuale e c’è un lungo lavoro di conoscenza e scoperta, da fare su se stessi, perché possa avere un proprio significato e dire qualcosa. L’astrattismo è più complicato della figurazione, perché si tratta di organizzare in modo diverso la spazialità, e non è per tutti perché non a tutti interessa cosa si nasconde nell’arte concettuale. Invece io ne sono attirato, è stimolante tentare di scoprire cosa contenga un quadro così e credo di aver imparato a riconoscere un astrattista autentico. Chissà che passata questa mia fase, un domani, io non ci torni. Tutto sommato si tratta di un gioco, quello di perdersi nell’astrazione, ed è un gioco in cui capita di volermi cimentare. Mi capita di pensare con piacere a come trasformare un’idea soltanto in colore. Perché, nel solo colore, mi piace credere si riesca a conservare integralmente l’idea. Credo sia questo, il massimo per un astrattista.

 

A.C.: Ogni volta che ho parlato con te, ti sei rivelato una meravigliosa miniera di storie, in cui il protagonista, magari, non eri necessariamente tu. Mi hai raccontato di Tano Festa, di Schifano e di Borghese… ti va di raccontare un aneddoto qualsiasi? Qualcosa che ti ha segnato, che ti porti e porterai appresso per sempre.

Procopio: Come sai, ho vissuto a Roma gli anni ’80 e ’90, frequentavo gallerie e critici con cui chiacchieravo intere nottate per le vie del centro, tentando di spiegare il mondo in poche ore. Ci si ritrovava alla Galleria Soligo, dove Franco, il proprietario, era il punto di riferimento di artisti del calibro di Schifano e Tano Festa. Non posso dire di Schifano che fossimo amici, ma Tano l’ho conosciuto bene e lo ricordo come un personaggio e un intellettuale straordinario. Franco Soligo gli aveva dato uno studio e, una volta che passai lì a salutare, mi ritrovai davanti una scena surreale: c’era un silenzio assoluto e una donna faceva a Tano da cavalletto, tenendogli il quadro mentre lui dipingeva. Lo ricordo con questo tubetto di colore blu in mano e con un pennellino altrettanto piccolo, che accarezzava la tela concentratissimo senza accorgersi di nient’altro. Ecco. Se c’è un ricordo che mi piace raccontare di quegli anni, è questa scena di Tano Festa che, dopo aver escluso tutto il resto, dipingeva e basta.

 

A.C.: Ogni volta che guardo uno dei tuoi quadri, ripeto che sei un maestro nell’uso del colore. Diversamente da quanto si ottiene con i colori a olio, tu hai usato più di recente, e forse più volentieri anche, gli acrilici o i pastelli. Il risultato è stato ottenere immagini più leggere, sfumate, a volte persino trasparenti, che danno ai tuoi quadri un effetto quasi sognante. Mi piacerebbe discutere quel che c’è dietro la scelta dei tuoi colori.

Procopio: Ho usato l’acrilico anche in passato, ma si tratta di un colore più freddo e tagliente e allora non cercavo quell’effetto per i miei quadri. La separazione, però, si è rivelata simile a quella tra fidanzati, che si lasciano per poi riprendersi, e dopo aver usato i colori a olio per tanto tempo ho lasciato anche loro perché mi ero stufato. L’olio non mi piaceva più e da questa pittura ho divorziato, tornando di nuovo all’acrilico e stavolta per scelta. L’acrilico è più veloce e mi dà la possibilità di sovrapporre i toni, qualcosa che con l’olio non si può fare senza prima aspettare settimane perché il quadro si asciughi! Non posso quindi negare che usare l’acrilico mi diverta, per quanto si può fare e che l’olio invece non mi permetteva. Però usare i pastelli è quel che mi diverte di più. Il pastello a cera è immediato e semplice, se lo dai a un bambino gli vedrai fare dei disegni meravigliosi! Anche i grandi paesaggisti usavano i pastelli in modo incredibile e sono tanti i libri di favole e fiabe illustrati a pastello. Così ogni tanto me li concedo anch’io.

 

A.C.: Tu hai dei soggetti fissi, nei tuoi quadri? Dov’è che li hai raccolti e perché li continui a portare con te? E cos’hanno fatto per diventare ospiti fissi?

Procopio – Crociera

Procopio: Il personaggio fisso è stato solo Salvatore, il pescatore siciliano o calabrese, coi baffoni e la canottiera, che mi ha accompagnato durante la mia carriera trasformandosi di quadro in quadro, anche se ultimamente l’ho un po’ trascurato. Se poi dovessi mettere in fila tutti gli altri, penso la coda di personaggi sarebbe di un chilometro! Ho scelto i protagonisti delle mie storie togliendoli alle pagine di mitologia, favole e fiabe, al cinema e alla letteratura come alla vita di tutti i giorni, ai fumetti, al circo e ai documentari televisivi, e devo ammettere che qualcuno ho avuto il piacere di ritrarlo più volte, in forme e stili diversi, cercando sempre di raccontare il quadro che avevo in mente. È sempre stato come prendere il treno per fare un viaggio: il divertimento non è il viaggio in sé ma organizzarlo, e così è per le storie. D’improvviso c’è un’idea e decidi di realizzarla, lì subentra la tecnica e, al servizio dell’idea, scelgo come accostare uomini e animali, uomini animalizzati e animali antropomorfi, dando loro più o meno spessore e il posto giusto in cui metterli. Si tratta di tecnica e di composizione del quadro.

 

A.C.: Quanto è importante per te essere calabrese e uomo del sud? E che significa non essere più a casa propria ma altrove? Quanto, di casa tua e della tua lontananza da casa, è parte della tua opera?

Procopio: Le nostalgie per me sono rare. In Calabria ci sono stato poco, ma il richiamo della terra ogni tanto lo senta ancora. Chi va via pensa, di solito, che dopo morto dovrà tornare a casa propria. Quando ragiono su questa cosa, ricordo Pirandello e la sua volontà di essere sepolto sotto un cipresso, davanti il grande mare di Sicilia. In treno fino ad Agrigento, a portar giù le sue ceneri fu Camilleri, che non manca occasione per raccontare che di Pirandello fu pirandelliana persino l’epopea vissuta per farlo tornare a casa nell’urna. Come Pirandello, mi piacerebbe le mie ceneri fossero sparse nel mare dinanzi al mio paese. Rigorosamente controvento, così come fatto con le sue! Ma al di là di quest’ultimo scherzo che mi piacerebbe fare, e delle risate che potrebbero provocare le mie ceneri se soffiate in faccia a chi controvento dovrebbe spargerle, posso dirti che dopo tanti anni il senso di lontananza si affievolisce e quanto si ricorda con più piacere è il periodo della fanciullezza dove tutto va bene. La mia è nostalgia per uno stato d’animo, per come si stava allora e non sto più adesso. Ricordo mio nonno, mentre si prendeva cura di una nostra proprietà in montagna, in Calabria, tra ogni tipo di albero da frutto. Mi manca quello. Mi manca un luogo che so non esserci più e mi manca non poterci tornare. Il cordone ombelicale rimane. E ti lega forse non alla terra ma ai ricordi della terra.  

 

A.C.: C’è qualcosa che vorresti fare, che non hai fatto e che sei sicuro di non riuscire a fare? Un desiderio irraggiungibile che è bello anche per questo, per la sua caratteristica di essere troppo grande per poterlo realizzare davvero?

Procopio: Di progetti ne ho tanti e molti sono utopia. Il più recente, forse il più difficile o magari il più semplice, dipende dai punti di vista… sarebbe forgiare una croce pettorale. Vorrei fonderla usando i chiodi dei barconi alla deriva nel Mediterraneo. E un pezzo di filo spinato tolto a quei muri alzati ai confini tra un paese e un altro. Mi piacerebbe aggiungere i bossoli dei proiettili sparati da Boko Haram. E quei pezzi di fil di ferro con cui ho visto legarci prigionieri e condannati a morte dei regimi dittatoriali. Vorrei fondere i simboli del male che viviamo oggi, per farci una croce e regalarla al Papa. Dato l’impegno di Papa Francesco, in questo senso, mi piacerebbe che portasse simbolicamente sul cuore la pesantezza di tutta questa malvagità. È difficile e complicato… o forse no. Mi piacerebbe riuscirci. Chi lo sa. Di sicuro, sarebbe più semplice riuscire a finire, prima o poi, la storia di Guglielmo raccontata da Bronzino.

 

A.C.: E mò chi è Bronzino?

Procopio

Procopio: Bronzino è un piccione senese! Rosso, che vive vicino la piazza del Palio! È la voce narrante che racconta di questo ragazzo calabrese, Guglielmo, da quand’è bambino e fino a vederlo diventare uno studente dell’accademia. Mi cimento per la prima volta nella scrittura e speriamo che lo legga qualcuno! Se non dovesse capitare, andrò io personalmente a leggerlo nei circoli e nelle librerie!  

 

A.C.: Quanto ti diverti a dipingere? Perché a me i tuoi quadri trasmettono questo, il divertimento di chi li fa, e son quindi capaci di divertire chi li guarda.

Procopio: Adesso dipingo in modo diverso rispetto a quando, magari vent’anni fa, ero ancora un meridionale. Allora disegnavo uomini spigolosi e donne rotonde, figure che ho portato con me fin quando non ho deciso di esasperarle, esasperando il tratto e il disegno e dipingendo come ho fatto fino a non troppo tempo addietro. Capita poi che un certo stile possa in qualche modo limitare l’espressione artistica e il desiderio, che ti dicevo ho conservato per anni, era appunto di liberarmene. Ora, semplicemente, non m’interessa più l’anatomia o la figura in sé. Gli stessi soggetti di un tempo, le barche e il sole, le macchine o le case, li disegno come farebbe un bambino ed è chiaro che mi diverto di più. Perché sono libero. È come se mi stessi rincoglionendo a ritmo vertiginoso e tento di lasciare la mano incontrollata il più possibile!

 

A.C.: E speriamo, io e tutti quelli che amano il tuo modo di dipingere, che la tua mano vada per fatti suoi ancora parecchio, dipingendo i quadri meravigliosi che ci hai abituato a guardare. Io mi auguro che questa intervista abbia dato modo, a chi ti conosce, di scoprire qualcosa in più su di te o, a chi non ti conosce ancora, di scoprire un pittore che è una specie di regista! Bravo a far quadri da guardare come si stesse al cinema davanti a un film. Film belli, coi quali si torna a sorridere come un bambino. Grazie mille, Maestro!

Procopio: Grazie a te e ai lettori!

 

Written by Alessandro Cortese

 

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