Oscar 2018: Tutti i vincitori, le riflessioni, le statistiche e le curiosità – #5

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Una volta calmatesi le acque, per il terzo anno di fila siamo disposti a rileggere l’avvenuta cerimonia di premiazione dei 90esimi Academy Awards con l’intento di delinearne il profilo, macroscopicamente e microscopicamente.

 

Oscar 201

Anzitutto conforta appurare come per quest’edizione si abbia deciso di non assecondare (ossia leccare) le contingenze politico-socio-culturali imperanti, riuscendo a non distogliere l’attenzione dalla pura qualità artistica dei concorrenti, semmai capace al contrario di influenzare le suddette contingenze: pensiamo ai tre manifesti in suffragio delle vittime della Grenfell Tower londinese ispirati a quelli ormai celeberrimi dell’inesistente Ebbing e, al contrario, allo sgambetto che il pur valido all black “Moonlight” ha teso al già cult “La La Land”.

Ciò vale a dire che abbia vinto chi doveva vincere? Generalmente sì; meglio ancora, non è affar semplice tacciare di demerito anche una sola delle assegnazioni, non come si era lecitamente spinti a farlo 12 mesi or sono. Purtuttavia, chi scrive si farà volentieri portavoce di alcune critiche che intendono presentarsi anzitutto come prospettive alternative, non necessariamente indizi di miopia o di comodo tradizionalismo ostentati dai membri votanti.

Muoviamo dai numeri usciti dal Dolby Theatre di Hollywood, corrispondenti al numero di statuette conquistate:

  • 4/13 “La forma dell’acqua – The Shape of Water” (di Guillermo del Toro);
  • 3/8 – “Dunkirk” (di Christopher Nolan);
  • 2/7 “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” (di Martin McDonagh);
  • 2/6 – “L’ora più buia” (di Joe Wright);
  • 2/5 – “Blade Runner 2049” (di Denis Villeneuve);
  • 2/2 – “Coco” (di Lee Unkrich);
  • 1/6 – “Il filo nascosto” (di Paul Thomas Anderson);
  • 1/4 – “Chiamami col tuo nome” (di Luca Guadagnino) e “Scappa – Get Out” (di Jordan Peele);
  • 1/3 – “Tonya” (di Craig Gillespie);
  • 1/1 – “Una donna fantastica” (di Sebastián Lelio) e “Icarus” (di Bryan Fogel).

Era dal 2013 di “Vita di Pi” (e prima ancora dal 2008 di “Non è un paese per vecchi”) che non emergeva una vetta unica così bassa: difficile fosse altrimenti e d’altronde già lo si era presagito, vista l’agguerrita concorrenza disseminata nelle diverse categorie. Soddisfatte su tutte risultano le case di distribuzione che portano il nome di Fox Searchlight Pictures (6 premi), Warner Bros. (5), Focus Features (3), Walt Disney e Sony Pictures Classics (2 ciascuna); chi ne ha pagato lo scotto restando a bocca asciutta è stata la 20th Century Fox (nessuno dei 6 titoli in concorso per un totale di 7 candidature è riuscito a spuntarla), accompagnata principalmente dai seguenti titoli:

  • 0/5 “Lady Bird” (di Greta Gerwig);
  • 0/4 – “Mudbound” (di Dee Rees) e “Star Wars: Episodio VIII – Gli Ultimi Jedi” (di Rian Johnson);
  • 0/3 – “Baby Driver – Il genio della fuga” (di Edgar Wright);
  • 0/2 – “La bella e la bestia” (di Bill Condon), “The Post” (di Steven Spielberg) e “Vittoria e Abdul” (di Stephen Frears).

Siamo distanti dalle cocenti sconfitte di “American Hustle – L’apparenza inganna” nel 2013 (0/10) o “Il Grinta” nel 2011 (id.), e d’altro canto nessuno dei digiuni poteva vantare un asso del tutto convincente a fronte degli sfidanti.

La forma dell’acqua – The Shape of Water

A questo segno riesce utile formulare delle pagelline per le note fonti che ci hanno accompagnato in questi ultimi 4 mesi, e di lì passare al commento di ogni singolo riconoscimento. Su un totale di 24, AwardsWatch ne ha imbroccati 20, GoldDerby 19, AwardsCircuit 15 e Indiewire poco più di 14 (tenendo conto delle plurime chance che spesso si è tenuto in serbo): l’unica categoria su cui nessuno ha vaticinato a dovere si è rivelata essere quella del miglior cortometraggio documentario, in cui alfine si è distinto “Heaven is a Traffic Jam on the 405” di Frank Stiefel, screditato da ognuno dei siti.

Quali dunque le vittorie predette con maggior sicurezza? Regista, attore protagonista, attrice protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, canzone, costumi, trucco e acconciatura (e film d’animazione, abbonando la già evidenziata assenza di Indiewire); seguono queste nove con tre fonti a favore film, attrice non protagonista, colonna sonora, scenografia e montaggio sonoro.

Se “Blade Runner 2049” per gli effetti speciali, “Dear Basketball” come cortometraggio d’animazione, “Una donna fantastica” come film in lingua straniera e “Dunkirk” per il montaggio e il sonoro condividevano esiti incerti ma suffragati da almeno due fonti, le maggiori sorprese dopo il succitato corto documentario sono invece senza dubbio i premi alla sceneggiatura originale scritta da Jordan Peele per “Scappa – Get Out” e al documentario “Icarus” (entrambi pronosticati da AwardsWatch), alla fotografia di “Blade Runner2049” firmata Roger Deakins (secondo le previsioni di GoldDerby) e al cortometraggio “The Silent Child” (indovinato da Indiewire).

Aggiungiamo dettagli: chi si sapeva avrebbe trionfato avendo, secondo il parere del sottoscritto, a ragione eccelso sugli avversari? Anzitutto quell’adorabile seccatura di nome Frances McDormand, la “iron lady” per antonomasia di questa stagione, già vincitrice nel 1997 per l’indimenticabile Marge impersonata nel capolavoro di culto “Fargo”, firmato dal marito e dal cognato, e nominata in qualità di non protagonista l’ultima volta (la quarta complessivamente) nel lontano 2006 per il più sporadicamente ricordato “North Country – Storia di Josey” della neozelandese Niki Caro.

Accanto a lei si erige la rivelazione chiamata Sam Rockwell, in precedenza ignoto agli Oscar, ai Golden Globe e ai BAFTA ed ora riconosciuto da tutt’e tre, nel film di McDonagh probabilmente ancora più sgradevole della primattrice in quanto borioso perdente.

James Ivory

Anche l’89enne James Ivory, nominato il 1987 e il 1994 in tre occasioni come regista e con in pugno adesso una statuetta per la sceneggiatura di “Chiamami col tuo nome” che l’ha eletto il più anziano di sempre a prevalere in una sezione competitiva, è riuscito magistralmente a incantare i votanti, facendosi elegante portavoce di un anelare (chimerico per i detrattori, limpidamente concreto per i sostenitori) al cui centro si pongono il diritto di amare in piena libertà e una seducente trasparenza nel dialogo fra consanguinei.

Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez grazie alla hit “Remember Me” inclusa in “Coco” han permesso alla Pixar di tornar a vantare due categorie conquistate da un singolo lungometraggio, sfiorate nel 2016 con “Inside Out” ed effettive l’ultima volta nel 2011 con “Toy Story 3 – La grande fuga”; sono gli stessi autori della celeberrima “Let It Go”, riuscito tema portante di “Frozen – Il regno di ghiaccio” (2013).

La popolare canzone è solo uno dei pregi della 19esima fatica realizzata ad Emeryville, che ha contribuito a distanziare qualunque altra casa di produzione in termini di numerosità dei film (9, a partire da “Alla ricerca di Nemo”, 2003) saliti sul podio della classe predisposta dall’Academy 16 anni fa: nonostante non fosse davvero il miglior prodotto animato uscito nelle sale di tutto il mondo nel corso del 2017, in virtù delle lodabili sfide che si è posto a più livelli (come si è soliti impegnarsi a fare in casa Pixar) è apparso evidentemente il più fertile, stratificato e al tempo stesso accessibile sulla piazza.

Pure Mark Bridges appariva chiaramente imbattibile, costumista di importanza capitale per la credibilità occorrente ad un personaggio del calibro di Reynolds Woodcock ne “Il filo nascosto”, e così il trio composto da David Malinowski, Lucy Sibbick e Kazuhiro Tsuji, truccatori che han ben concorso a trasformare Gary Oldman in quello che universalmente è stato accolto come il miglior Winston Churchill della storia del cinema.

Proprio su Oldman è d’obbligo soffermarsi in relazione al principale sfidante, Daniel Day-Lewis. Al primo va il merito indubitabile d’esser riuscito nell’ardua impresa di coordinare una risaputa dote oratoria con un nutrito compendio di smorfie, sia verbali che non, preziosissime ad una resa che restituisse a 360 gradi l’eclettismo acceso e stridente del salvatore della patria britannica nell’infuriare della Seconda guerra mondiale.

Paul Thomas Anderson

Al secondo però appartengono le chiavi del sublime, se gli attribuiamo come sarebbe onesto constatare il possesso della più che rara capacità di indurre lo spettatore in un tale stato di disciplina da rendere prossimo, nei casi di maggior empatia, l’operare di un vero e proprio incantesimo: il livello di autocontrollo raggiunto misurandosi con la figura (della più pura fantasia!) nata dalla penna di Paul Thomas Anderson, cui sottostanno persino le frasi più brevi ed elementari, cristallizzate nello studio di una fisicità infinitamente ricca, avrebbe dovuto guadagnarsi il plauso universale e definitivo, nonostante i 3 Oscar portati a casa fra il 1990 e il 2013, nonostante o proprio in virtù dello ieratico distacco il quale è giunto a mettere alla prova la coscienza stessa da parte dell’audience dell’inafferrabile presenza in sala del divo.

Ragionamento affine, benché non coincidente, è accostabile alla vittoria di Guillermo (aka Benicio, secondo telegiornali di dubbia levatura) del Toro, regista del tanto chiacchierato “La forma dell’acqua”: il fantasy è tanto fluido nei temi e nella rappresentazione scenica quanto nella conduzione poetica affidata al suo ideatore (parrebbe ormai senza successo alcuno accusato di plagio), che agevola in ogni modo uno scivolamento da una sequenza alla sua conseguente e consequenziale, da un’ambientazione rasserenante alla rispettiva deprimente, tirando le fila del discorso filmico letteralmente come un invisibile burattinaio, a evidente vantaggio di un’azione mimetica estremamente gentile nei confronti del pubblico.

Che gli fosse “dovuto” o meno l’Oscar dopo che l’avevano impugnato i colleghi connazionali Alfonso Cuarón (nel 2014) e Alejandro González Iñárritu (nel 2015 e nel 2016), per chi scrive sarebbe riuscita più gradevole una buona volta l’incensazione delle caleidoscopiche costruzioni del Nolan di “Dunkirk”, maestro indiscusso del mainstream segnato da feconde aspirazioni autoriali, o della solenne perfezione formale di un altro illustre ignorato dei nostri tempi (nominato solo due volte per la regia), il criptico P.T.A. de “Il filo nascosto”: entrambe personalità preferibili però, si badi, non a motivo di quelle che alcuni potrebbero definire spiccate attitudini a narrazioni cervellotiche, da anteporre tout court agli universi incantati, a loro modo “infantili”, del messicano.

Seguendo la traccia indicata dalle fonti consultate, tanto vale non riservare alla categoria règia l’ultimo posto in questa carrellata. Il fatto che, nel corso della serata, “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” non avesse fatta sua la statuetta alla miglior sceneggiatura doveva fungere senz’altro da campanello d’allarme: la vittoria di del Toro regista ha poi anticipato la strada scelta dall’Academy, che mai negli ultimi 15 anni (ossia dopo “Chicago”) ha premiato un lungometraggio col titolo di miglior film senza che questo detenesse anche l’Oscar per la regia o la sceneggiatura.

“La forma dell’acqua” è il secondo film della storia (dopo l’“Amleto” di Laurence Olivier, 1948) ad aver e vinto il Leone d’oro, e scalato la vetta offerta dall’A.M.P.A.S.: sia alla giuria veneziana che ai membri del consorzio hollywoodiano sarà particolarmente gustata la rete di reminiscenze tessuta da del Toro in omaggio al cinema che fu, ma il sottoscritto preferisce sospettare celata nella scelta una pluralità di ragioni che vanno oltre la dichiarata passione che ha già sotteso, tra l’altro, titoli di successo come “Birdman” (2014) o “The Artist” (2011).

Il filo nascosto

Siamo di fronte a un’opera satura, coerente e coesa che tende alla soddisfazione da qualsiasi punto la si osservi, essendo in grado di cavalcare i generi e restituire a diversi pubblici tante chiavi di lettura quanti sono i tesori a cui si vuol essere individualmente condotti. Probabilmente quindi chi è rimasto amareggiato dalla notizia, magari perché precedentemente non ha sentito accendersi quella scintilla, quell’intesa, quella compiacenza che può aver ritrovato viceversa nelle ferite aperte dai “Tre manifesti”, nella disorientante devastazione di “Dunkirk”, nell’inafferrabile maestosità del “Filo nascosto” o anche, perché no, nelle folgoranti ambiguità di cui si nutre “Scappa – Get Out”, agirebbe con ponderazione qualora tornasse, presto o tardi, a insinuarsi fra i muri portanti della presente vicenda fino a ritrovarne il bandolo, forse sommerso in acque non così chiare come si auspicherebbe.

Seguendo la direttrice dei bersagli non del tutto assodati, s’incontrano la temibile LaVona Golden incarnata da Allison Janney in “Tonya”, preferita ad un’altra madre appassionante, la Marion di “Lady Bird”; la sfaccettata scenografia allestita da Paul Denham Austerberry, Jeff Melvin e Shane Vieau per “La forma dell’acqua”, studiata appositamente al fine di risaltare attraverso la fotografia dalle tinte verdastre di Dan Laustsen; il montaggio sonoro di “Dunkirk” curato da Alex Gibson e Richard King, che ovviamente ha concorso in maniera emblematica al coinvolgimento emotivo di chi ha maturato il brividoso piacere di sentirsi nel mezzo del campo di battaglia, fosse situato in terra, in mare o in cielo.

Per quanto riguarda la categoria dedicata alla miglior colonna sonora, di cui, grazie alle note rinvenibili ne “La forma dell’acqua”, è stato nuovamente eletto sovrano Alexandre Desplat a soli 3 anni di distanza dalla sua ultima fortunata competizione (quella in cui è ha ricevuto il medesimo riconoscimento per “Grand Budapest Hotel”, 2014), va evidenziata una tendenza, se non altro circoscritta a quest’anno: il favore concesso a musiche melodiose, dai timbri attraenti perché su di esse si riflette l’estetica sognante delle immagini ed anche perché ottimamente orchestrate (si pensi al connubio nel tema principale fra arpa, zufolo e fisarmonica), a discapito di una logica che privilegia invece più raffinate relazioni fra struttura delle sequenze e forma delle composizioni, come accade in “Dunkirk”, dove i martellanti moduli ritmici di Hans Zimmer quasi mai concedono una tregua, col risultato di spingersi in termini di sostegno alla tensione fors’anche oltre i traguardi segnati da “Gravity” (2013), o ne “Il filo nascosto”, che per opera del fedele Jonny Greenwood cala lo spettatore con ancor maggiore agilità, nonché somma grazia, nel mood di metà secolo scorso, dotato attraverso questo processo di un respiro palpabilmente armonioso atto ad impreziosire la già ammaliante architettura progettata da Anderson.

Via via più problematico pareva alle fonti predire con convinzione (soprattutto a fronte della rilevante incognita costituita da “The War – Il pianeta delle scimmie”) la vittoria degli straordinari effetti speciali creati da Richard R. Hoover, Paul Lambert, Gerd Nefzer e John Nelson per “Blade Runner 2049”, promossi allo status di pittura in movimento, cooperatori non solo della mediazione fra una causa fisica e il suo effetto, reso graficamente si sa con magniloquenza e lucentezza, ma anche e soprattutto dell’accattivante rappresentazione ologrammatica a sé stante, un lusso per gli occhi che realizza in pieno la visione cupa e intrigante del futuro espanso di una sfortunata epopea fantascientifica.

Dear Basketball

Anche l’elezione di “Dear Basketball” a miglior cortometraggio d’animazione non poteva considerarsi scontata: ora possiamo annoverare il primo giocatore dell’NBA a risultare vincitore in una qualsiasi categoria riferendoci a quel Kobe Bryant che ha ideato 6 deliziosi minuti di stampo autobiografico portandoli sullo schermo con l’aiuto di Glen Keane.

Della cinquina dei film in lingua straniera, preso un assetto che vorremmo fosse una generosa costante (comprendente cioè solo il meglio del meglio, da cui dovrebbe essere un’impresa avvincente scegliere un solo titolo), è sopravvissuta la quinta toccante prova del cileno Lelio, il primo della propria nazionalità a conquistarsi l’ambito riconoscimento.

Senza davvero nulla sottrarre agli strabilianti “The Square” della Svezia piuttosto che “Corpo e anima” dell’Ungheria, “Una donna fantastica” gode di una qualità di immensa portata: la capacità di farsi veicolo di un messaggio di assoluta attualità senza cadere per un solo attimo nella tentazione di divenire manifesto di un qualche idealismo che rovini la genuinità della proposta, facendo perdere di vista l’universalità del linguaggio chiamato in causa e la forza connaturata nelle materie trattate. A ciò si aggiunga pure la straziante interpretazione di Daniela Vega, che incastonata perfettamente nel lirismo visivamente appassionante di Lelio è già divenuta storia della settima arte.

Un discreto margine di incertezza caratterizzava infine il montaggio e il sonoro di “Dunkirk”, osteggiato in entrambi i casi da “Baby Driver – Il genio della fuga”; per quanto concerne la prima categoria è facile saggiare la rilevanza del premio, dal momento che la nevralgica suddivisione spaziale su cui Nolan ha basato l’incedere della vicenda è apparsa pienamente nobilitata dalla corrispondenza fra il ritmo dei frammenti visivi e l’irrinunciabile sostegno sonoro.

Come già anticipato, fra le svolte maggiormente inaspettate si individuano il trionfo del direttore della fotografia Roger Deakins, situato grazie alle tinte fosche e stimolanti di “Blade Runner 2049” in seguito a 13 nomination andate a vuoto fra il 1995 e il 2016, del documentario “Icarus” il quale, incentrato sulla pratica del doping nel mondo sportivo, ha scavalcato i toni sgargianti di quel che si credeva il concorrente favorito, l’autobiografico “Visages, villages” realizzato dalla neo Oscar alla carriera Agnès Varda in collaborazione col ben più giovane JR, e del cortometraggio “The Silent Child” firmato da Chris Overton, preferito a “Dekalb Elementary” di Reed Van Dyk.

In conclusione, quale ragione può invece aver spinto a valorizzare il copione di un film di genere (per quanto sui generis) come “Scappa – Get Out”? Un’ipotesi potrebbe addurre l’insuccesso dell’acclamata ironia tragica di Martin McDonagh all’energia dirompente, perfino eccitante, dimostrata da un plot che fa delle assurdità al limite della verosimiglianza il proprio cavallo di battaglia, riuscendo ad imbastire un sistema ad alto tasso di onirismo del tutto coerente e autoconclusivo nei suoi vertici di tagliente humour, e per di più andando a scoprire certi tasti dolenti della società contemporanea con una puntualità semplicemente inedita nel panorama del cinema dello spavento.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

 

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