“Con il vento nei capelli. Una palestinese racconta” di Salwa Salem: la condizione del profugo
“Siamo un popolo condannato a non conoscere l’allegria, il divertimento. Siamo un popolo che non ha avuto tempo di divertirsi, abbiamo vissuto una tragedia dopo l’altra, le nostre famiglie sono state divise, siamo vissuti lontani dalle nostre case, abbiamo sempre subito un’oppressione psicologica e fisica che ci ha impedito di imparare a essere felici, di imparare a passare una serata in modo spensierato e semplice. E questo accomuna tutta la popolazione palestinese in esilio: noi non sappiamo divertirci”.

Sono le toccanti parole di Salwa Salem che con semplicità sintetizzano la condizione del profugo, dell’esiliato, di chi, come era accaduto a lei, ha dovuto abbandonare la propria terra vivendo un’esistenza da straniero in giro per il mondo.
Il tema, quanto mai attuale, è il nocciolo del lungo racconto che Salwa Salem fa della sua vita in questo bellissimo libro “Con il vento nei capelli. Una palestinese si racconta”, Giunti Editore, curato da Laura Maritano.
È un libro particolare, che si legge come fosse un romanzo, ma che in realtà è la testimonianza di una intera esistenza, quella che Salwa racconta alla giovane studentessa Maritano.
Sarà quest’ultima a curare la pubblicazione del libro, dopo la morte della protagonista, avvenuta dopo una lunga malattia che però, negli ultimi tempi, non le aveva impedito, da un letto di ospedale, di continuare a lavorare per portare a termine l’opera.
Il racconto parte dall’inizio, da quegli anni ’30 del secolo scorso nel villaggio paterno, Kafr Zibàd, non lontano da Yafa (nome arabo di Giaffa, ndr). Salwa descrive la casa dove suo padre vive con la sua famiglia, fra uliveti e agrumeti, un cortile che diventa “teatro della vita delle donne, luogo di chiacchiere, di lavoro comune, di problemi condivisi”, la casa dove suo padre abiterà con la sua sposa Husnìya, ancora vergine e non ancora donna al tempo del matrimonio.
“Ci si aspetta che il marito attenda la maturità della sua donna, che la coccoli e sia tenero con lei”, una condizione abbastanza comune in quell’epoca nei villaggi rurali della Palestina.
E il padre di Salwa dimostra tutta la sua tenerezza nei confronti della moglie la quale rimarrà per sempre innamorata di lui, con grande ammirazione dei numerosi figli.
Infatti la famiglia di Salwa è molto numerosa: “La mamma aveva la pancia come un computer, faceva figli quasi ogni due anni” sono le parole ironiche usate per descrivere la condizione di quasi perenne gravidanza della madre.
È una vita felice quella che vivono tutti insieme, soprattutto dopo il trasferimento a Yafa, in una bella e grande casa. Ma la felicità dura poco, interrotta bruscamente dal disastro, la nakba.
Era il 1948 e Israele sferra il suo attacco alla Palestina per annettersi quanto più territorio possibile. Esplosioni, spari, fumo, grida, morti e feriti sono lo spettacolo quotidiano di quei terribili giorni. In massa intere famiglie sono costrette a fuggire, lasciare le loro terre, le case, tutto quello che avevano costruito, perdendo il diritto di tornare nella loro terra: “In pochi giorni venne proclamato lo stato di Israele e messo un confine fra la parte occupata dagli ebrei e il resto della Palestina, non si poteva attraversare questo confine per nessun motivo al mondo”.
Inizia così anche per Salwa e la sua famiglia l’esodo verso altre terre, altre città, altre case. Ricominciare da capo altrove, con la costante sensazione di non essere più a casa propria. La famiglia si stabilisce a Nablus in una casa minuscola e squallida.

I bambini sono tristi, hanno dovuto lasciare gli amici, la scuola, in poche parole la normale vita di prima. E man mano che ci si adatta a questa nuova situazione si percepisce la sensazione sempre più evidente di aver perso tutto: “Si sentiva parlare del trattamento disumano che avevano subito gli ebrei nella seconda guerra mondiale, ma ci si chiedeva perché dovevamo essere noi a pagare per gli errori commessi da altri”.
In quegli anni nasce e cresce in Salwa la passione per la politica, un impegno che ha visto maturare nel suo fratello maggiore Adnan, e che presto la contagia completamente. Si iscrive al partito Ba’ath e inizia un periodo di grande impegno politico, fra riunioni, volantinaggi, scioperi e manifestazioni.
In casa si respira un’atmosfera pregna di argomenti politici, si fanno incontri clandestini con i fratelli e gli amici e la passione per la lotta di liberazione della sua terra diventa la sua ragione di vita.
Nello stesso periodo comincia anche a maturare in lei la consapevolezza delle profonde disparità di genere fra uomini e donne, e Salwa legge tutto ciò che può sull’argomento, affermando che “Simone de Beauvoir era il mio vangelo”.
Naturalmente questa fervida attività politica preoccupa i genitori di Salwa che temono per la sua reputazione, hanno timore che possa diventare una “ala hall shàriha” una ragazza con i capelli sciolti, metaforicamente una ragazza troppo libera. Cosa che invece Salwa vuole essere a tutti i costi, una ragazza con i capelli al vento.
Il suo anelito di libertà è forte, prepotente e la porta dopo il diploma a trasferirsi in Kuwait dove lavora come insegnante e può pagarsi gli studi presso l’università di Damasco.
Ma arriva anche per lei un passaggio obbligato per le donne arabe, il matrimonio. La sua indole ribelle la porta a rifiutare un matrimonio combinato e accettare di compiere il grande passo solo quando conosce Muhammad.
Lo segue in Europa, a Vienna, dove lui studia all’università, mentre lei torna periodicamente in Siria per dare gli esami. L’esperienza viennese viene ricordata molto negativamente, a iniziare dal clima atmosferico, freddo, grigio, molto diverso da quello mediterraneo. E anche per il clima umano, con gente molto fredda e distaccata. Arrivano i figli che però non riescono a stemperare quella sensazione deprimente che Vienna le attacca addosso. È così che decidono di trasferirsi in Italia, a Parma, dove vive un fratello di Muhammad.
Gli anni italiani riconcilieranno Salwa con la vita, arriva il terzo figlio, una bambina e soprattutto inizia una nuova epoca di attivismo politico. Sono gli anni ’70 quando anche in Italia si comincia a parlare di questione palestinese, di occupazione e molti sono gli esponenti politici e le associazioni che si schierano dalla parte della Palestina.
Salwa trova così una nuova e forte ragione di vita: la lotta per la liberazione della sua terra, accompagnata alla lotta femminista per la liberazione delle donne diventano i capisaldi della sua esistenza, fino a quando la malattia avrà il sopravvento e spegnerà il suo respiro.
Leggere la storia di Salwa ci permette di attraversare la storia recente di quel lembo di terra che si affaccia sul Mediterraneo e che, dopo secoli di vita pacifica, è stata trasformata in un devastato teatro di guerra. La storia che Salwa ci racconta ci permette di comprendere gli stati d’animo, le emozioni, i sentimenti che vive chi è costretto a lasciare la propria terra, la propria casa e non avere più il diritto e la possibilità di tornarci.
Una nostalgia dilaniante che non viene placata nemmeno dai più cari affetti familiari, nella consapevolezza che a quegli affetti viene negato il diritto ad avere delle radici, a tornare a quelle radici. In questo messaggio sta tutta l’attualità di questo libro, che travalica i confini della Palestina per farsi interprete di una memoria, antica e recente insieme, che ci interroga ormai quotidianamente.
Written by Beatrice Tauro