Le métier de la critique: A latere di Solo bagaglio a mano
Ogni cosa ha inizio, durata e fine.
Banale, ma vero.
A fasi alterne ne abbiamo consapevolezza, ma sotto sotto ci dispiace davvero molto.
Soprattutto se il prodotto con data di scadenza siamo noi, la nostra vita, quel sé così caro, pettinato, blandito, accarezzato quasi, che si sostanzia di una sua ragion unica, l’essere (appunto) vivo.
Un po’ meno racconsolante l’eventualità (certa) che ci tocchi anche morire.
Non il dobbiamo morire che finisce per corrispondere, più o meno, alla presa d’atto che la vita includa la morte, piuttosto il sentimento dell’essere lambiti da quella sconsolante ed importuna verità.
La morte, diventata all’improvviso e inesorabilmente potente, attua ora improvvido atto di imperio sulla nostra vita.
Una morte, quella de noartri, già rigorosamente collocata nell’età avanzata, magari in ambiente domestico e decisamente a noi gradito.
Preferibilmente nel sonno, soprattutto con dolcezza, senza sofferenza.
L’avanzare dell’età non costituisce di per sé vaccino alla paura, né può farsi antidoto contro l’ingiustificabile ma ineludibile presenza della parola fine dentro la nostra vita.
È solo un segnale.
Sta a noi decidere se di questa nostra vita vogliamo cogliere l’essenza oppure preferiamo resettarne il file, negando dunque una morte inclusa nella rappresentazione che usualmente abbiamo della vita.
Con umiltà o sicumera, baldanzosi o inquieti, saggi o sognatori, decisi a titolarci del diritto di godere (comunque?!) di buono stato di conservazione, ma contemporaneamente avviliti nel dover prendere poi atto che non ci appartiene un corpo immutabile.
Quel corpo conservato come immutabile disprezzerebbe malattie, misconoscendo acciacchi sempre più numerosi, lui troppo incomprensibile albergo di future disabilità, temute ancor più penalizzanti.
A vent’anni la morte è altra, a trenta continua ad essere degli altri, a quaranta (forse) si apparenta con sé medesima.
Intorno alla boa dei cinquanta anni permette nozze con il possessivo mio-mia.
La morte degli altri, nell’indeterminatezza di terreno non ancora posseduto dal dovuto disincanto, sembra d’un tratto essere in grado di poter diventare anche la mia morte.
Un viraggio che alterna cauta disillusione a sgomento scomodo, sempre più impoverito di riflessione accettabile, almeno benevolmente tollerabile.
Gabriele Romagnoli nel suo Solo bagaglio a mano, pubblicato nel 2015 da Feltrinelli poco dopo le stragi di Parigi, matura la convinzione che della morte ‒ e dunque della sua idea ‒ occorra, invece, occuparsi.
Soprattutto distillando un concetto che sembra molto, troppo scomodo, ma che al tempo stesso si rivela salvifico.
Una vita sentita e percepita davvero come bene spesa, nella quale ci si permetta ancora di riconoscersi, è il miglior farmaco contro l’angoscia ingenerata dalla rappresentazione di pensarsi come non più se stessi.
Il migliore dei passaporti, in grado di farci avvicinare alla grande porta o al nulla troppo oscurante.
L’artifizio che costringe a prendere in considerazione un tema così inquietante trae spunto da quello che sembra esercizio paradossale di contrasto al fenomeno del suicidio.
Frequente nei dati offerti dal Financial Times sulla Corea del Sud.
“Paese che detiene il record mondiale di suicidi, una media di trentatré al giorno”, aggiunge il Romagnoli per le vie brevi all’inizio del suo racconto.
Dunque grosse società come la Samsung o la Allianz pagano perché i loro dipendenti passino una giornata, anziché al lavoro a dire addio a se stessi, nella speranza che poi non lo facciano veramente.
Muoversi fino in fondo all’interno della paradossale cerimonia del proprio funerale è il must che prevede questo libriccino, di agevole lettura e di modica consistenza cartacea, complessive 87 pagine.
Il tutto, si fa per dire, agito con silenziosa, efficiente e rigorosa cura dei particolari.
Senza tralasciare il benché minimo dettaglio. E forse è questa la forza paradossale dell’intreccio letterario, così come lo ha costruito Romagnoli.
Da vivo si occupa di se stesso morto mantenendo le proprietà della vita nella morte che recita vera.
Senza eccedere nel trionfo della morte che muoverebbe l’opposto sentimento di negazione, l’incomodo di doverci in qualche modo fare i conti, succedaneo dell’averne dovuto tener conto.
Nelle prime pagine la scena del suo funerale è infatti curata nei minimi particolari.
Tanto bizzarra da muovere quel riso un po’ gelido che non scalda le vene, ma che neanche troppo gelidamente iberna la questione del nostro certo decesso.
“Ho imparato qualcosa sulla vita. Ed ho campato meglio, vivo a latere (*) di una giornata passata a dire addio a me stesso. Nella speranza di non farlo veramente, consapevole che alla morte ci si deve presentare col vestito senza tasche.”
Più che l’esercizio di una stoica virtù, forse non occorre rammentare Epicuro[1] al proposito, vale per Gabriele Romagnoli un percorso che si compia perfettamente.
“Alla fine non hai più nulla da lasciare, ti sei già disfatto di ogni cosa. E nessuno a cui dare, nessuno che proverà dolore per la tua fine. Soltanto così puoi davvero andartene in pace, come se ne va un alito di vento: c’era, è passato, non c’è bisogno di voltarsi per salutare.”
Written by Rita Farneti
Info
(*) “a latere” è stato inserito dall’autrice
[1] “Se c’è la morte non ci siamo noi, se ci siamo noi non c’è la morte.” Questa in sintesi la frase attribuita ad Epicuro.