iSole aMare: Emma Fenu intervista Paolo Fresu in un percorso musicale a bordo di una mongolfiera metaforica

La rubrica “iSole aMare” si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi?

Paolo Fresu

Sono l’Isola. Ma sono magica e infinita: non mi puoi cingere tutta.

Non mi puoi spostare, non mi puoi unire alla terraferma, non puoi possedermi. Puoi solo essere accolto, sederti alla mensa del mio corpo di sabbia e granito, mangiare dalla mia bocca le bacche del piacere e della nostalgia, fino a inebriarti, fino ad essere anche tu me. Ed allora ti fermerai per sempre, mi guarderai nelle pupille di basalto immerse nel cielo degli occhi e diverrai pietra.

Sarò la tua Medusa, con filamenti trasparenti danzerò per te negli abissi, ti brucerò di passione e non sarai più libero, nemmeno quando te ne sarai andato lontano, remando fino allo sfinimento, e il mare fra noi sarà un siero diluito con sangue di memoria e con lacrime di speranza.

Tu  mi hai toccato, ora ti tendo le mani io.

Tu mi hai baciato, ora cerco il tuo sapore su di me.

Tu mi hai guardato: ora scruto l’orizzonte come una Didone abbandonata.

Tu mi hai annusato: ora raccolgo dalle fauci del maestrale il tuo polline per i miei favi.

Tu mi hai seguito: ora calo un ponte levatoio solo per te.

Tu mi hai atteso, ora ti attendo io.”  – Emma Fenu, “L’isola della passione”

Isole Amare.

Terre Femmine dispensatrici di miele e fiele, con un cuore di granito e basalto e capelli bianchi di sabbia che si spandono nel mare come le serpi di Medusa che, secondo la leggenda, un tempo della Sardegna fu sovrana.

Isole da Amare.

Terre Madri e Spose che squarciano il cuore di nostalgia, tirando il ventre dei propri figli con un cordone ombelicale intrecciato di mito, memoria e identità.

iSole aMare.

Sole che scalda e dà vita oppure che brucia e secca, negando l’acqua.

Mare che culla e nutre oppure che disperde e inghiotte, imponendo l’acqua.

La rubrica “iSole aMare” si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi? A questa domanda implicita i nostri ospiti, attraverso parole, note e colori, saranno invitati a rispondere.

Paolo Fresu

Ad iniziare l’avventura, è con me il grande Paolo Fresu che ho avuto l’onore di intervistare prima della sua esibizione al Montmartre Jazzhus a Copenhagen, città nella quale vivo da espatriata. Nato a Berchidda, in provincia di Sassari, inizia a suonare la tromba da bambino. Avviata l’attività professionale nel 1982, vince  numerosi premi come miglior talento del jazz italiano. Nel suo paese natale crea un festival annuale di musica jazz; è docente presso varie università; suona in ogni continente con moltissimi esponenti della musica internazionale; scrive libri; ha aperto la sua etichetta discografica, Tŭk Music; è responsabile di progetti multimediali e interculturali; ha composto musiche per film, documentari, balletti e opere teatrali.

 

E.F. : Iniziamo questa conversazione indagando sulla connivenza fra la cultura isolana e cultura internazionale, connivenza fruttuosa che caratterizza la tua vita. L’immagine stilizzata che compare nel tuo sito ufficiale ti ritrae come un uomo con la tromba sempre in viaggio grazie ad una bicicletta, ad una barca e ad una mongolfiera: cosa porti della sardità nel mondo attraverso il linguaggio universale della musica?

Paolo Fresu: È un argomento complesso. Vivo fra Parigi, Bologna e la Sardegna e lavoro in tutto il mondo: più vado avanti negli anni più cerco di vedere la mia isola con un atteggiamento distaccato, percependola in modo molto personale e intimo. Ho preso parte a progetti musicali basati sulla musica sarda, da Sonos’e Memoria a Rito e la Memoria, quest’ultimo in collaborazione con le confraternite sacre, ma spesso, anche suonando musica internazionale, alcuni mi dicono che la mia sardità emerge ugualmente, esplicitando il legame viscerale con la mia terra. Voglio vivere la mia sardità in modo costruttivo, giocando ad armi pari con il mondo, senza declamarla in modo eccessivo.

 

E.F. : Uno degli elementi primari della propria identità è la lingua: tu ti esprimi anche in sardo?

Paolo Fresu: Il sardo è la mia lingua madre, quella che parlo con i miei familiari, anche con mio fratello che è psichiatra, con il quale cerchiamo di individuare i termini “giusti”.

 

E.F. : Quale luogo è per te “casa”?

Paolo Fresu

Paolo Fresu: Se dovessi riconoscermi come figlio di un luogo, questo luogo sarebbe la Sardegna; c’è, in me, una lotta perenne fra l’idea di internazionalità  di apertura verso la differenza e il “fardello” che mi riporta verso il ventre dell’Isola.  Una lotta che mi porta alla ricerca di un equilibrio fra due tensioni.

 

E.F. : Stasera suonerai per la terza serata di fila a Copenhagen: il tuo percorso professionale ti ha condotto spesso a interagire con la Scandinavia. Cosa ti affascina della cultura nordica, soprattutto dal punto di vista musicale?

Paolo Fresu: C’è una cultura importante riguardo al jazz: ci sono passati tutti i principali musicisti della storia. Io frequento festival nordeuropei e lavoro con molti musicisti scandinavi, soprattutto norvegesi e svedesi, e ho riscontrato in loro grande musicalità. Dovessi costruire un ponte ideale di sinergie, assonanze e connessioni con l’Italia, non sceglierei la Francia o la Germania, ma proprio il Nord Europa, dove si suona un jazz molto “caldo”.

 

E.F. : In che modo la musica può essere intesa come un linguaggio universale? Rispondimi pensando soprattutto ai più giovani, figli di un’epoca di conflitti esasperati in cui l’esigenza di comunicazione è primaria e si realizza, in modo particolare, attraverso i social network.

Paolo Fresu: La musica è sempre di più un linguaggio universale: non è un luogo comune, soprattutto in questo momento storico in cui c’è una grande distinzione di geografie, religioni, condizioni sociali ed economiche. Io vicino a Place de la République, l’epicentro del secondo attentato a Parigi e il luogo delle più grandi manifestazioni; l’ho vista diventare il villaggio globale della comunicazione. C’erano centinaia di camioncini con i satelliti puntanti, c’erano voci dei media che seminavano il panico e spettacolarizzavano il dramma, facendo passare l’immagine, non veritiera, di una Parigi “assediata”. Più volte mi hanno chiesto di essere intervistato proprio a Place de la République, in quel periodo; ho accettato un’unica intervista perché si parlava della musica come linguaggio di comunione e di solidarietà.  

 

E.F. : Perché hai scelto di scendere dalla tua mongolfiera metaforica e vivere a Parigi, o meglio, anche a Parigi?

Paolo Fresu: Ho scelto Parigi negli anni ‘80 perché era, allora più adesso, una città cosmopolita, aperta alla migrazione nell’accezione più positiva del termine. C’era un crogiolo di razze, di etnie, di musiche e di culture che in Italia non esisteva: ho cominciato a suonare con musicisti di tutto il mondo, in un clima molto stimolante.

 

E.F. : Adesso questo clima di osmosi fertile c’è anche in Italia? E la Sardegna come si pone nel panorama artistico e culturale odierno?

Paolo Fresu

Paolo Fresu: Oggi la situazione italiana è migliorata, ma non si può ricreare la storia di Parigi e Berlino, storia che le ha rese meta di artisti da tutto il mondo. La Sardegna può avere un ruolo centrale, essendo un’isola incastonata nel Mediterraneo. Paragono la mia terra ad un sasso gettato nel mare il cui conficcarsi crea una serie di cerchi concentrici che vanno a sbattere contro le varie coste di paesi diversi. Dagli anni ’80 in poi, non a caso, la Sardegna è divenuta un server della comunicazione: i primi grandi progetti di internet sono nati qui, dove tutto parte e tutto ritorna. Quindi, non si tratta di un’isola isolata, ma di una terra in estrema comunicazione con il mondo grazie anche alla posizione geografica grazie alla quale tanti popoli sono passati e hanno rubato. Ma noi sardi non siamo stati “con le mani in mano”. Noi sardi abbiamo appreso moltissimo e questo scambio intenso si sente nella lingua, nella gastronomia, nell’artigianato e nella nostra indole, nel nostro modo di essere chiusi e aperti nello stesso tempo.

 

 

Written by Emma Fenu

 

 

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