Intervista di Rebecca Mais a Matteo Capelli e al suo enigmatico ed onirico “Grahamandaville”
“Al contrario del solito, per lui sinonimo di un avvilito disincanto, si sentiva bene. Aveva la mentre sgombra, il corpo leggero, la pace nel petto. Benché l’anima fosse in subbuglio a causa del salto nel vuoto compiuto, un atto coraggioso e radicale, gradiva il caos primordiale nel quale si erano ritrovati a sguazzare i suoi sensi. Custodiva qualcosa dentro che l’aveva spinto ad agire, non un morboso capriccio figlio di una transitoria pulsione trasgressiva, bensì un pianto inascoltato.”

“Grahamandaville” è un po’ come spiare dal buco della serratura. Il lettore è spettatore ben presente ma non può agire su ciò che sta accadendo: Stain Leemerick insegue il suo obiettivo segreto, nel frattempo Leyda, la sua migliore amica, vive una vita non voluta ma mostra al mondo un’immagine ben diversa, di donna amata e in carriera.
In realtà l’uomo che sposerà Jordan, è egoista e meschino e si crogiola tra i complimenti di un capo donna e l’umore altalenante di un collega tutto casa e ufficio. Tra concretezza e atmosfere oniriche “Grahamandaville” (Undici Edizioni, 2017), ultimo romanzo dell’autore parmense Matteo Capelli, è una storia davvero particolare nel quale si intrecciano le vite di tanti personaggi con le loro incredibili e talvolta inquietanti storie personali.
Per comprendere “Grahamandaville” è necessario andare oltre l’apparenza, anche quando questo potrebbe sembrare difficile. Per farvi un’idea maggiore al riguardo abbiamo intervistato Matteo Capelli e sono certa che le sue risposte potranno soddisfare le vostre curiosità.
R.M.: Quando e come è nato il mondo onirico di “Grahamandaville”?
Matteo Capelli: Novembre 2014, credo. Stavo guardando le repliche delle prime due stagioni di Twin Peaks (per i più giovani, parliamo di qualcosa uscito nei primi anni Novanta). Al termine dell’ultima puntata ho capito quale taglio avrebbe dovuto avere il mio romanzo successivo, il terzo. Non sapevo che sarebbe stato “Grahamandaville” e, sia chiaro, non c’è alcun collegamento fra il mio libro e la fiction di Lynch. Nemmeno avevo in mente una storia da raccontare; parlo piuttosto di una presa di coscienza, della scelta di un indirizzo, dell’accettare il libero fluire della narrazione a rischio di smarrirmi nella stessa. Ho cominciato a scrivere con il solo obiettivo di dominare l’impulso creativo senza frenarlo, cercando di costruire situazioni ricche e via via sempre più al limite, piene di ostacoli, aumentando costantemente il livello di difficoltà, nelle quali diventasse ogni volta più arduo trovare un modo per schivare i tranelli creati dalle stesse e poi cucirle insieme senza intaccare la credibilità dell’intera architettura. Il gioco era riuscire a inventare nel mentre la chiave della coerenza, riportando l’assurdo a qualcosa di plausibile, nonostante un intreccio che cresceva nella complessità pagina dopo pagina.
R.M.: I protagonisti del romanzo sono diversi: Stain, Memory, Leyda, Padre Bernard… Cosa rappresentano e sei forse legato in maniera particolare ad uno o più tra loro?

Matteo Capelli: … aggiungiamo pure Edmon, Jordan, Levy, Veronica, Chanel. Più tanti altri che vengono nominati meno benché rivestano ruoli altrettanto importanti dentro la vicenda. Non saprei dire cosa rappresentino: forse sono varie sfaccettature dell’animo umano, caratteri recessivi della società in cui viviamo; sono personaggi pieni di dubbi, debolezze, contraddizioni, difetti. Ognuno di loro ha qualche segreto che tiene nascosto dentro sé, poiché, in pubblico, preferisce indossare maschere con le quali tentare di apparire quanto meno accettabile agli occhi di chi ha di fronte. Non è la bugia nella quale sguazziamo tutti, quella di cercare di sembrare migliori di ciò che siamo? Nella solitudine della propria intimità però non si può mentire e allora emergono tratti distintivi censurabili, peculiarità caratteriali e tendenze di cui è facile vergognarsi. Certamente ho le mie preferenze affettive, ma non ho alcuna intenzione di rivelarle…
R.M.: La tua passione per il cinema e l’arte ha a che fare con l’idea di scrivere “Grahamandaville”?
Matteo Capelli: Nella domanda sono presenti i semi di un concetto corretto, ma occorre specificare. Più che da un’idea, “Grahamandaville” nasce da una pulsione; è un fiume che sgorga impetuoso, che io, come autore, cerco di mantenere entro i suoi argini affinché il risultato sia un libero sfogo pieno di ordine. L’idea non è alla base, ma prende forma col libro. Ciò detto, ogni cosa che scrivo reca in sé le tracce della mia passione per l’arte, in particolare per il cinema. Sono cresciuto immerso nelle atmosfere dei film d’autore e ci sono elementi stilistici, riconducibili a determinati registi più che ad altri, dei quali sono innamorato: l’eleganza espressiva delle pellicole di Atom Egoyan, le costruzioni teorematiche di Dreyer prima e Lars Von Trier poi, la destrutturazione temporale nelle storie di Tarantino, l’onirismo romantico dei Coen e quello inquieto degli infiniti mondi di Lynch, il quale a sua volta affonda le proprie radici nel cinema sperimentale di Maya Deren. Eccetera, eccetera. Penso sia inevitabile che, quando scrivo, vada ad attingere al bagaglio di conoscenze artistiche e linguistiche che reputo più appropriato per la creazione di un’opera.
R.M.: Chi vorresti leggesse il tuo libro?
Matteo Capelli: Chiunque abbia voglia di capirlo. Deve essere un lettore attento, aperto, che non si accontenta. Qualcuno che non si fermi alla storia come un’unica fonte d’emozione possibile, ma sia capace d’apprezzare un’opera in ogni sua componente, godendo anche delle più piccole sfumature. Di sicuro, se si ha una capacità critica standardizzata, meglio evitare; non è un libro di frasi fatte o qualunquismo a effetto. Chi legge dovrebbe sempre domandarsi per quale motivo è stata fatta una scelta, non se il risultato sia quello desiderato dall’autore: quest’ultima infatti dovrebbe essere una condicio sine qua non.
R.M.: Come è avvenuto l’incontro con Giuseppe Celestino e Maurizio Roccato della Undici Edizioni?
Matteo Capelli: L’incontro è avvenuto tramite Internet, universo grazie al quale ho scoperto la frenetica iperattività di Undici Edizioni. È una casa editrice moderna, piena di idee, sempre presente laddove deve essere. La posta elettronica ha poi scandito gli appuntamenti durante i quali ci siamo conosciuti meglio. Con una mail precisa e azzeccata, infine, Giuseppe e Maurizio mi hanno fatto capire d’aver colto l’essenza del mio scrivere e così mi hanno conquistato.
R.M.: Quando e come hai cominciato a scrivere?
Matteo Capelli: Intorno ai venticinque anni, mese più mese meno. Un giorno ho intuito che scrivere romanzi avrebbe potuto darmi il genere di soddisfazione di cui soffrivo la mancanza. Così ho cominciato a farlo e, facendolo, ho scoperto che ciò mi consentiva di limitare il mio senso di frustrazione per un vuoto che non riuscivo a capire da cosa nascesse.
R.M.: Quali sono i tuoi generi e autori preferiti?

Matteo Capelli: Non credo nell’assegnazione di preferenze in base a una distinzione per genere. Un libro mi conquista quando è scritto bene. La trama può essere importante, talvolta, ma il modo con cui un autore sceglie di raccontare qualcosa lo è sempre molto di più. Tutti possono avere una buona storia in mente; restituirla a qualcuno in maniera attraente è tutto un altro paio di maniche. Faccio due nomi: Jonathan Coe e Khaled Hosseini.
R.M.: Progetti per il futuro? Hai forse in cantiere qualche nuovo scritto?
Matteo Capelli: Progetti tanti, sempre, eternamente. Lo scrittore è un cantiere, a prescindere da quello che decide di trasferire su carta; se così non fosse, non sarebbe uno scrittore. E forse nemmeno un essere umano.
R.M.: Grazie per il tuo tempo Matteo e in bocca al lupo per tutti i tuoi progetti!
Written by Rebecca Mais
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