Neon Ghènesis Sandàlion: l’intervista all’archeologo Giandaniele Castangia
“Morale della favola: tramite l’astrazione l’uomo ‘crea’ la storia, per utilizzarla a fini essenzialmente ideologici (questa parola va intesa in senso neutro) – quindi essa non è né sarà mai qualcosa di completamente ‘obbiettivo’: sta al nostro senso etico il compito di far sì che essa rivesta un ruolo socialmente positivo.” ‒ Giandaniele Castangia
Diciassettesima intervista della rubrica made in Oubliette “Neon Ghènesis Sandàlion”, una breve inchiesta su alcuni argomenti che animano gli appassionati di archeologia. Si è scelto di dar voce agli archeologi che, da svariati anni, continuano a ricevere ingiustificabili accuse sul loro eccelso e gravoso operato quale il riportare alla luce un passato non scritto ma da scrivere ed, in taluni casi, da riscrivere.
La nota “fantarcheologia” (“fantamania” od “archeomania”) ha prodotto il disagio di intralciare la divulgazione archeologica “teorizzando” con il sensazionalismo, figlio di quest’epoca di neoliberalismo, veri e propri libri di fantasia senza alcun riscontro con le fonti, con la realtà e con l’investigazione della metodologia scientifica. E se è pur vero che, talune volte, un testo di fantascienza è stato precursore di conoscenze future, in questo caso ci troviamo di fronte a “tesi” che si librano nei territori dell’immaginazione con ambizione di storica realtà; tali e quali a quell’Icaro che, con ali di cera, tentò di avvicinarsi al Sole ed in un primo momento sentì la gloria della sua impresa.
“Neon Ghènesis Sandàlion“, da tradursi con “La Sardegna della nuova nascita”, è quell’attimo che viene dopo la caduta di Icaro, è quel padre, il grande architetto Dedalo, che soccorre il figlio dal mare in cui è sprofondato, cura le ferite e perdona ogni suo azzardo.
Perché il peccato è un nostro dovere di figli, ma ancor più il riconoscerlo per un miglioramento personale e sociale. Citando Jean Jacques Rousseau: “Si deve arrossire per il peccato commesso e non per la sua riparazione.”
Lo scorso sabato abbiamo potuto leggere le riflessioni dell’archeologa Luisanna Usai, ha preceduto l’archeologo Paolo Gull, l’archeologo Piero Bartoloni, l’archeologa Viviana Pinna, l’archeologo Giuseppe Maisola, l’archeologo Nicola Sanna, l’archeologo Matteo Tatti, l’archeologa Anna Depalmas, l’archeologo Mauro Perra, l’archeologo Nicola Dessì, l’archeologo Roberto Sirigu, l’archeologo Alessandro Usai, l’archeologo Carlo Tronchetti, l’archeologa subacquea Anna Ardu, l’archeologo Alfonso Stiglitz, e l’archeologo Rubens D’Oriano.
Giandaniele Castangia si è laureato alla ‘Sapienza’ Università di Roma in Scienze Archeologiche prima e in Archeologia poi, attualmente sta ultimando un PhD (Dottorato di Ricerca) presso la University of Cambridge nel Regno Unito con una tesi sulla funzione del nuraghe.
Dal 2011 è coordinatore e membro del comitato scientifico del progetto Capo Mannu Project nell’area costiera del comune di San Vero Milis. Dal 2012 è co-direttore, assieme ad Alfonso Stiglitz, degli scavi di Su Pallosu (deposito votivo nuragico) e Serra is Araus (necropoli prenuragica e villaggio nuragico) sempre nel comune di San Vero Milis.
Dal 2009 è membro della associazione archeologica ATPG, ora Collettivo ATPG e della redazione della rivista di archeologia online Traces in Time. Ha partecipato a scavi e ricognizioni in Sardegna, nella penisola e in Egitto.
A.M.: Quanto la leggenda e l’astrazione hanno mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia?
Giandaniele Castangia: Penso che ci siano veramente tanti modi di rispondere ad una domanda del genere! Possiamo intanto dire che le capacità di ‘astrazione’ della specie Homo sapiens a cui apparteniamo nascono e si sviluppano assieme a quello che è sempre stato lo strumento più importante che l’evoluzione ci ha fornito: il linguaggio. Man mano che, nel corso di decine di migliaia di anni, quest’ultimo si sviluppava, prendeva forma una esigenza che nessun altro animale aveva mai avuto: quella di raccontare, di razionalizzare e interpretare gli eventi, di dargli un senso. Nelle fredde notti del Paleolitico Superiore europeo, attorno ai focolari delle bande di cacciatori-raccoglitori, nasceva la ‘leggenda’, il ‘mito’, in pratica la storia – intesa come narrazione di fatti e personaggi. Essi consistono tutti in una razionalizzazione e interpretazione di una serie di eventi, sulla base del contesto culturale del soggetto che la opera e delle sue motivazioni ideologiche. A un certo punto, alcuni individui o gruppi cominciarono a prendere il controllo di queste narrazioni, utilizzandole per giustificare la propria posizione sociale. Ci piace pensare spesso che la storia ‘sia andata così’, ma ogni prospettiva storica ha un fine e viene sviluppata in una cornice ideologica ben precisa, escludendo tanti punti di vista alternativi: ad esempio la ‘storia’ alla quale siamo abituati è più che altro politico-militare, vista e vissuta soprattutto dalla parte degli uomini. Morale della favola: tramite l’astrazione l’uomo ‘crea’ la storia, per utilizzarla a fini essenzialmente ideologici (questa parola va intesa in senso neutro) – quindi essa non è né sarà mai qualcosa di completamente ‘obbiettivo’: sta al nostro senso etico il compito di far sì che essa rivesta un ruolo socialmente positivo.
A.M.: I nuraghi. Questi nostri sconosciuti. Quali altre culture presenti nel mondo mostrano le stesse caratteristiche delle nostre antiche costruzioni?
Giandaniele Castangia: Sconosciuti mica tanto! Da un punto di vista strettamente archeologico, la realtà è che essi vengono studiati da più di un secolo (il primo nuraghe scavato in maniera scientifica è stato il Palmavera di Alghero nei primi anni del ‘900 da Antonio Taramelli) e ne sono stati scavati più di 100. Non è una cosa così comune, in ambito archeologico preistorico, trovare singole tipologie di edifici dei quali è stato indagato un numero così elevato di esemplari. E sappiamo veramente tante cose dei nuraghi, ad esempio sulla loro cronologia – quando furono costruiti e per quanto furono utilizzati –, sulla loro architettura etc. Quello che è mancato finora non è tanto il dato archeologico, quanto un approccio interpretativo adeguato al problema. Tra gli edifici preistorici con elevato in pietra a secco che possono essere associati ai nuraghi – da un punto di vista costruttivo e/o morfologico –, posso citare le torri corse, i brochs della Scozia e i talayots balearici, tutti costruiti tra il secondo e il primo millennio a.C. Tranne forse che nel caso della Corsica, dove un rapporto abbastanza stretto con le comunità della Gallura preistorica è molto verosimile, si può ragionevolmente parlare di convergenze, di soluzioni indipendenti adottate in differenti contesti e con differenti valori funzionali. Non è comunque da escludere che alcune tecniche costruttive possano certo essere state influenzate in un senso o nell’altro – il mondo europeo e specialmente mediterraneo tra il secondo ed il primo millennio a.C. è infatti caratterizzato da una rete straordinaria di contatti, traffici, scambi a tutti i livelli.
A.M.: Quale potrebbe essere la risposta più accreditata per questi ritrovamenti? Che queste culture siano dipendenti da una cosiddetta madre, che la prima rispetto alla seconda sia stata presa come superiore, oppure una risposta che sia piuttosto di convergenza così che culture diverse e distanti fra loro abbiamo avuto lo stesso bisogno ed abbiamo aderito alla stessa soluzione?
Giandaniele Castangia: Le ‘cornici culturali’ di cui i monumenti che ho citato sono espressione hanno seguito traiettorie storiche completamente differenti, quindi ci si può ragionevolmente aspettare che differissero anche le esigenze sociali delle comunità che ne facevano parte. Per quello che al momento sappiamo, non possiamo assolutamente affermare che queste esperienze architettoniche avessero lo stesso valore funzionale: le torri corse sono interpretate più che altro come veri e propri ‘magazzini’ fortificati della comunità, mentre i brochs come residenze familiari con spazi interni riservati anche agli animali nella parte più bassa, e infine i talayots, anche se al momento risulta ancora complicato fare precise ipotesi funzionali, non sembrano utilizzabili in nessuno di questi modi. Per quanto riguarda i nuraghi, la questione della funzione originaria del monumento non è ancora stata completamente risolta e oggi si tende ad attribuire loro una vaga ‘polifunzionalità’ associata ad un ‘importante valore simbolico territoriale’. Quello che accomuna tutti questi monumenti è il fatto di esprimere una sorta di ‘appropriazione simbolica’ di un determinato paesaggio attraverso una forma vagamente a torre e l’utilizzo della pietra a secco, oltre naturalmente alla associazione frequente con veri e propri villaggi che li circondano.
A.M.: Addentrandoci nell’etimologia, e leggendo molte opinioni, si è concordi che la radice di nuraghe sia “nur” ma non si è concordi con il significato di questa radice. Due sono le ipotesi madre: una che provenga dai fenici e che vede “nur” con il significato di “luce/fuoco” (e precedentemente dai sumeri “ur/uruk), un’altra invece di sostrato mediterraneo vede la definizione “cumulo di pietre/cavità”. Per quale scuola di pensiero patteggi o hai una strada alternativa da mostrarci?
Giandaniele Castangia: A tutt’oggi non possediamo elementi sufficienti a permetterci di esprimere una opinione seria in merito. La cosa più interessante credo che sia il ritrovamento della parola NURAC, presumibilmente indigena, all’interno dell’iscrizione in latino sull’architrave del nuraghe Aidu Entos di Bortigali, il che potrebbe rappresentare al momento la più antica attestazione del nome. Che si tratti di una radice fenicia – men che meno sumerica – o di ‘sostrato mediterraneo’ rimane al momento pura speculazione, per quanto penso che una associazione con il campo semantico “cumulo di pietre/cavità” avrebbe più senso di quella con “luce/fuoco”. La questione necessita sicuramente di ulteriori dati, preferibilmente di tipo archeologico/epigrafico, se non altro per essere discussa propriamente.
A.M.: Considerando che il problema maggiore che porta alle diverse vie di interpretazione è la mancanza di dati certi ed il cannibalismo di edifici, come possiamo prospettare la ricostruzione della storia se non con il ritrovamento di nuovi dati? Dunque, quanto è importante ricevere finanziamenti per continuare la ricerca?
Giandaniele Castangia: Come dicevo, non sono convinto che il problema principale sia la mancanza di dati – e neppure il cannibalismo di edifici –, quanto più un approccio interpretativo adeguato: se l’archeologo non si pone una certa domanda, spesso ne risente anche il dato da lui raccolto. Mi spiego: ad eccezione delle prime sintesi di Lilliu degli anni ’60 sull’argomento, il nuraghe non è stato ritenuto degno di un vero e proprio studio funzionale dedicato e comprensivo di tutte le esperienze di scavo finora edite. Nel corso degli ultimi decenni, varie pubblicazioni hanno trattato il tema, sotto forma più che altro di articolo o di contributo in monografie di argomento più generale, spesso in relazione a specifici territori, ma nessuna è frutto di uno studio sistematico del dato acquisito. Nella maggior parte dei casi, mentre tanto è stato fatto dal punto della collocazione cronologica dei monumenti e dei diversi momenti del loro utilizzo, si è ritenuto che non fosse necessario o fosse ‘impossibile’ approfondire il tema della funzione del monumento, soprattutto relativamente alla sua prima fase di vita nel secondo millennio a.C.. Bisogna dire che, mentre è senza dubbio importante poter scavare nuovi nuraghi con tecniche avanzate e con il massimo possibile di contributi interdisciplinari per poter affrontare in maniera adeguata questo dibattito, è abbastanza difficile ottenere finanziamenti sufficienti in questo senso, dati i costi che lo scavo di un nuraghe implica.
A.M.: Nella stele di Nora ritroviamo in “fenicio” il nome della nostra isola. È il più antico ritrovamento in cui si parla di Sardegna oppure ci sono altre iscrizioni più antiche? E soprattutto sappiamo se i paleosardi (o sardi nuragici o come preferisci) si identificavano con questa denominazione?
Giadaniele Castangia: Intanto, per evitare confusioni inutili, invece di Paleosardi o Nuragici preferirei definirli semplicemente Sardi. La definizione etnica a tavolino di gruppi o comunità è una operazione molto rischiosa, che si traduce spesso in ipotesi fuorvianti perché basate su un senso di identità di un gruppo – o di non identità – imposto e non necessariamente corrispondente alla realtà dei fatti. Non sappiamo come le comunità e i gruppi che abitavano la Sardegna si definissero tra il secondo ed il primo millennio a.C., per quanto è abbastanza probabile che si sentissero parte di quella koinè culturale che abbracciava tutta l’isola da secoli, in opposizione a quello che stava fuori, al di là del mare. Durante il primo millennio la fondazione delle città costiere avrà significato una parziale rinegoziazione di queste identità, magari anche la nascita di contrapposizioni interne, e bisogna ricordare come nelle fonti classiche emerga la presenza di diversi raggruppamenti etnici – ma anche qui al momento abbiamo pochi indizi in merito al punto di vista ‘locale’. La Stele di Nora rappresenta il documento più antico, perlomeno contenente un testo vero e proprio, di scrittura in Sardegna – e in generale in caratteri fenici in questa parte del Mediterraneo. L’espressione BŠRDNŠ indicherebbe, secondo la maggior parte delle traduzioni, un locativo e in particolare sarebbe la prima attestazione del nome dell’isola, così come poi sarà usato dai Romani – per quanto non possiamo essere sicuri che indicasse l’isola intera. La probabilità che il toponimo sia di origine locale è certo molto alta.
A.M.: La scrittura nuragica. Che il popolo sardo vivesse il presente e non sentisse la necessità di scrivere la sua storia come invece han fatto altri popoli?
Giandaniele Castangia: Non è proprio una questione di vivere il presente, anzi! Le esigenze che hanno portato inizialmente varie comunità umane alla eventuale adozione di un qualche tipo di scrittura sono ben altre che non quelle di tramandare la propria storia, cosa che si continuava a fare benissimo oralmente: erano esigenze di carattere amministrativo (vedi Mesopotamia) o cerimoniale/cultuale (vedi Cina, Rapa Nui), in entrambi i casi legate al controllo ideologico che una determinata élite aveva bisogno di imporre al resto della popolazione – in pratica, quello che noi chiamiamo ‘la civiltà’. Anche quando la scrittura comincerà ad essere utilizzata per la narrazione storica – nel senso di descrizione di eventi e personaggi – non sarà mai la storia di un popolo, ma nella maggior parte dei casi quello che un certo gruppo sociale dominante (politico, culturale, etc.) intenderà trasmettere per raggiungere un determinato livello di controllo, e neanche necessariamente rivolgendosi ai posteri, ma molto spesso ai contemporanei. Nella Sardegna nuragica e in generale preurbana (diciamo precedentemente all’VIII secolo a.C.), è ancora aperto il dibattito sulla presenza o meno di indicatori del fatto che le comunità dell’isola avessero raggiunto un livello gerarchico tale da costituire un prerequisito per l’adozione di una qualche forma di scrittura. E dico prerequisito perché, anche se questo ci fosse stato, esso non avrebbe certo implicato l’adozione automatica della scrittura come mezzo di comunicazione di informazioni. Direi che il problema principale di tutta la questione della scrittura nuragica, eccezion fatta per alcuni segni alfabetici che effettivamente cominciano a comparire in maniera sporadica durante i primi secoli del primo millennio, è che tutte le ‘prove’ finora addotte a sostegno della tesi che i nuragici utilizzassero forme di scrittura nel secondo millennio non hanno una provenienza stratigraficamente conosciuta e/o chiaribile. Quando la scrittura è parte di una cornice culturale, solitamente non è qualcosa di sfuggente o ambiguo: magari non si riesce ancora a tradurla, ma è chiaramente visibile, la sua presenza nel record archeologico si ripete secondo dei patterns, etc.
A.M.: Chi sono gli Shardana?
Giandaniele Castangia: Gli Šrdn – Sherden/Sherdan furono uno di quei ‘popoli del mare’ che scorrazzavano nel Mediterraneo orientale alla fine del secondo millennio a.C., un periodo estremamente turbolento, da molti punti di vista, della storia antica. Li vediamo da varie fonti presenti in Egitto, in Libano e in Palestina, a volte come mercenari e altre volte come un problema di cui il potere faraonico aveva bisogno di sbarazzarsi. Le quattro consonanti che identificano questo ‘etnico’ – se di etnico effettivamente sempre si trattava – sono in pratica l’unico elemento che collega la Sardegna a queste vicende, perché sono le stesse che compaiono sulla Stele di Nora. E teniamo presente che questo è come questi ‘gruppi’ venivano chiamati dagli scribi Egizi e levantini, ma niente vieta che la loro reale provenienza fosse più variegata: come magari i Romani chiamavano ‘i Germani’ o ‘i Galli’ popolazioni con una notevole varietà etnica al loro interno, così il termine Šrdn poteva comprendere agli occhi di chi lo usava non solo Sardi, ma anche magari Corsi etc. L’identificazione Šrdn – Sardi è stata un po’ una costante del dibattito archeologico su questi temi durante tutto il XX secolo, e ultimamente è tornata alla ribalta a seguito del fenomeno fantarcheologia. Essenzialmente, le ipotesi sull’argomento sono due: che si trattasse di gruppi di Sardi che combatterono a vario titolo nel Mediterraneo orientale alla fine del secondo millennio a.C., o che si trattasse di un gruppo etnico proveniente da quella stessa area, che poi a seguito di una migrazione a occidente avesse dato il nome all’isola. Da un punto di vista archeologico, per quanto la ceramica nuragica sia presente molto sporadicamente in area egea – a Cipro e Creta – così come la ceramica micenea e cipriota è presente in Sardegna, non possediamo prove materiali di comunità o gruppi sardi presenti in Egitto o Palestina, e i materiali egizi e levantini rinvenuti in contesti del primo millennio in Sardegna sono importazioni fenicie. Anche ammettendo l’ipotesi più verosimile, e cioè che alcuni gruppi di guerrieri sardi avessero preso parte a vario titolo agli sconvolgimenti che interessarono il Mediterraneo orientale alla fine del secondo millennio a.C., questo rimane al momento molto difficile da provare, anche perché non parliamo in questo caso di un fenomeno di impatto sociale tale da poter lasciare tracce archeologiche rilevanti.
A.M.: Il problema della divulgazione e la fantarcheologia. Come fermare questo fenomeno e come entrare nelle case dei sardi per sfatare queste “pseudo teorie”?
Giandaniele Castangia: Credo che la questione fantarcheologia costituisca un fenomeno complesso e molto ‘avvincente’ da un punto di vista storico e antropologico. Dico questo considerandolo soprattutto dal punto di vista del pubblico. Mediamente, infatti, quello che vedo è che la generazione più interessata a questo tipo di discorsi è quella postbellica, che ha subito rispetto alla generazione precedente una progressiva e massiccia italianizzazione forzata: questa ha comportato una parziale perdita di identità culturale, alla quale inconsciamente – e alle volte mica tanto – cerca di supplire con il suo sostegno a questo tipo di ‘fenomeni’. La fantarcheologia, complice Internet e il modo in cui la conoscenza è distribuita da qualche decennio a questa parte – che ha permesso a chiunque di poter avere lo spazio di dire qualunque cosa ed essere ascoltato da un pubblico molto ampio – fornisce da un lato un ‘colpevole’ (di solito l’’archeologia ufficiale’, la ‘soprintendenza serva dello stato centrale’), e delle soluzioni facili, come gli ‘Shardana dominatori del Mediterraneo’, o i nuragici possessori di un sistema di scrittura complesso e misterioso. Essa fa leva sul concetto di appropriazione della storia di cui parlavo prima, in questo caso in senso inverso a quello usuale: è ‘la gente’ che prende possesso di una ipotetica storia che gli è stata ‘rubata’ e ascolta solo ciò che vuole sentire. Va detto che il fatto che la storia della Sardegna non sia mai stata oggetto di insegnamento nelle scuole dell’isola non aiuta in questo senso e anzi è da considerare un aspetto particolarmente vergognoso di una politica culturale estremamente povera e imbalsamata. Insomma, tutto considerato, credo che il fenomeno fantarcheologia non possa essere semplicemente ‘eradicato’ dall’oggi al domani, ma che esso faccia parte di un processo di ridefinizione culturale che richiederà tempo, all’interno del quale peraltro l’archeologia ‘ufficiale’ può fare e già sta facendo tanto in questi ultimi anni.
A.M.: Quali sono le logiche di mercato che portano a ridicolizzare la Sardegna come Atlantide, e perché non si guarda soprattutto a ciò che abbiamo e cioè l’unica isola che presenta un numero così elevato di costruzioni chiamate nuraghi?
Giandaniele Castangia: Per visitare un nuraghe bisogna rimetterlo a posto, e per rimetterlo a posto bisogna in molti casi prima scavarlo. Tutto questo richiede un bel po’ di finanziamenti, che poche amministrazioni oggi sono propense a elargire. Di solito si aspetta che arrivi qualche università – o più raramente la Soprintendenza – a fare la maggior parte del lavoro per proprio conto e poi – forse – si finanzia un minimo di valorizzazione. A questo si aggiunga il fatto che, dato l’elevato numero di nuraghi sull’isola, anche se la maggior parte fossero valorizzati con questo sforzo economico sovrumano, proprio per il fatto di essere così tanti ‘frutterebbero’ ben poco ai rispettivi comuni, secondo l’attuale becero modello archeoturistico che conta tutto in termini di incasso di biglietti. Di Monti Prama ne abbiamo solo uno, di nuraghi migliaia: il ‘pubblico pagante’ sarebbe disperso e il tornaconto sarebbe minimo per le rispettive amministrazioni. Bisognerebbe cambiare il modo in cui pensiamo al nostro patrimonio, in particolare da parte delle amministrazioni, e intenderlo veramente come un investimento sul lungo periodo slegato da un qualsiasi tipo di ‘ritorno’ economico – a meno che ovviamente il ritorno non si intenda esclusivamente come da reinvestire nel patrimonio stesso. Infine, ultima nota sulla questione dell’atteggiamento del pubblico: a molti sardi piace sentire grandi storie sul proprio passato, storie di eroi con le spade e navi che solcano il Mediterraneo per dominare e distruggere, mentre il racconto della vita quotidiana in un umile villaggio nuragico – cioè quello che solitamente appunto rivela l’archeologia – con le sue donne, uomini e bambini che ogni giorno conducevano le proprie esistenze, risulta inevitabilmente noioso. La colpa di tutto ciò, e cioè di non capire che la ricchezza del nostro passato sta in quelle piccole esistenze quotidiane invece che nelle imprese di temibili guerrieri con spade scintillanti, è proprio del modo in cui, ahimè, intendiamo e insegniamo la ‘storia’. Questo deve sicuramente cambiare se vogliamo che cambi anche l’atteggiamento nei confronti della gestione del nostro patrimonio.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Giandaniele Castangia: “Così insegna lo scavo del Lugherras, ed io, archeologo, credo agli scavi; il resto è, per me, di valore secondario, e merita la mia fede solo quando si accorda a ciò che mi dicono la successione degli strati, le prove concrete, materiali, ma positive della suppellettile archeologica. Il resto è investigazione, ermeneutica, ginnastica mentale, ardimento critico, tutto quello che volete, ma a mio giudizio potrà essere domani travolto miseramente dalla realtà dei fatti acquisiti dalla nostra scienza, castae damnatum Minervae, dalla nostra scienza solitaria e modesta, ma tutta ingenua di fede e di passione.” ‒ Antonio Taramelli, 1907
A.M.: Giandaniele ti ringrazio vivamente per la partecipazione alla rubrica Neon Ghènesis Sandàlion e ti saluto con le parole di François de La Rochefoucauld: “Le passioni sono gli unici oratori che persuadano sempre. Esse sono come un’arte della natura dalle regole infallibili: il più semplice degli uomini animato dalla passione riesce più persuasivo del più eloquente che ne sia sprovvisto.”
Written by Alessia Mocci
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