Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Scrivimi”
“La mattina l’astro sorgeva alle spalle della nave, poi la raggiungeva fino a trovarsi sulle teste dei passeggeri, e infine correva avanti per poi sparire sotto l’orizzonte.” ‒ “Scrivimi”
Regolamento
1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Scrivimi” è promosso dalla web-magazine Oubliette Magazine e dall’autore Franco Rizzi. Il Contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Il tema prescelto è il mare ed il viaggio.
2. Articolato in 2 sezioni:
Poesia (limite 60 versi)
Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di Commento sotto questo stesso bando indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite aventi come tematica il mare ed il viaggio.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto breve sotto forma di Commento sotto questo stesso bando indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti aventi come tematica il mare ed il viaggio.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via email ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione dovrete anche voi cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni ma con una sola opera per sezione.
4. Premio:
N° 1 copia del romanzo “Scrivimi”, di Franco Rizzi, edito dalla casa editrice La Paume nel 2017.
Saranno premiati i primi tre classificati della sezione A e della sezione B.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per 12 febbraio 2018 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in Chief)
Emma Fenu (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Katia Debora Melis (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Altea Gardini (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Carolina Colombi (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Beatrice Tauro (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Rebecca Mais (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per email: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via email ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook:
https://www.facebook.com/OublietteMagazin
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via email tutte le notifiche con le nuove poesie e racconti brevi partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvisami via e-mail”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (legge 675/1996 e D.L. 196/2003). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!!!
Troverete sotto “Commenta” per pubblicare la propria poesia e/o racconto breve
IL SOGNO
Ho visto in sogno
una citta’ sul mare
antica di secoli
in cui ho vissuto in altri tempi.
Ho riconosciuto luoghi e persone
ho rivisto la mia casa
e il mare
e un castello
e viuzze che si arrampicano sulla montagna.
So bene
che in realta’ non conosco quella citta’
e neppure il suo nome;
eppure il mio sogno
è’ cosi’ reale e vero.
Forse
in altri tempi
appartenevo a quella citta’
ed avevo un altro nome
e il suo ricordo ancestrale
è rimasto nel mio inconscio
per manifestarsi all’improvviso
e risvegliare i ricordi…..
Francesco Troyli
Via Giacomo Leopardi 74 00012 GUIDONIA MONTECELIO
Tel. 347 5121305
Accetto integralmente il regolamento. Partecipo alla sezione A
seziona A
accetto il regolamento
Mare d’inverno
Da quella finestra, sotto la luna d’inverno
sospirando mi immergo in te,
in quelle piccole onde, che lente e frequenti
muovono una barchetta in lontananza;
o violente irrompono sugli scogli
destando un gabbiano appisolato.
E nel nuovo giorno
come mille e mille diamanti,
dei loro mille e mille colori, brilli
al bagliore dei primi raggi!
E ancor sospirando
viaggio per il mondo
attraverso quelle onde,
che dondolano, dondolano…
C’è chi ti pesca e chi ti umilia,
chi ti usa e ti ringrazia
e chi ti affida ansie e paure…
e chi impavido e incosciente
si avventura, come un cucciolo
alla sua prima uscita dalla tana!
Ed io, ancor nostalgicamente
mi perdo e mi disperdo
tra sogni e fantasie
e dolci nostalgie.
Giovanna Rispoli
Sezione A
Accetto il regolamento
Sara Cancellara
Di tramonti che esplodono
su cactus giganti.
Appassionata, impulsiva.
Di quella volta che ti ho tenuto la mano senza che nessuno se ne accorgesse in una villa gotica nel Suffolk in Inghilterra.
Un bicchiere di vino rosso.
Un rustico vista mare in Grecia.
La vita a 30 gradi.
Saltiamo.
Daniela Giorgini – sezione B – Accetto il regolamento
Brillantina e Marino
In una serena notte d’estate di mille e mille anni fa, Luna risplendeva silenziosa nel cielo e sulle onde leggermente increspate dell’oceano.
La Stella Damigella le stava accanto, ossequiosa e silenziosa.
Le Stelle Bambine, invece, non facevano altro che giocare e gridare, nascondendosi dietro le Stelle Madri, che sorridenti le seguivano con lo sguardo.
Solo Stella Brillantina se ne stava in disparte ad aspettare il suo amico Marino.
Non appena il riflesso della Luna si fece più intenso, fino a trapassare la superficie delle acque, Brillantina lo vide arrivare.
“Ciao Brill!”
“Ciao Marino! Com’è andata oggi?”
“Mah, come al solito. Mi prendono in giro perché mi appisolo mentre nuoto, ma a me non importa. Mi piace stare tutta la notte a parlare con te.”
“Mi dispiace. Anche a me fa piacere stare insieme a te. È che esco solo di notte.”
“Non ti preoccupare per me, Brill, è tutta invidia!”
La loro era un’amicizia profonda, vera. Anche se non facile da vivere, così lontani, così diversi.
Marino era un cavalluccio giovane e timido, che amava osservare il cielo di notte attraverso le acque dell’oceano, mentre alla piccola stella piaceva scoprire le meraviglie che il mare nascondeva, quando Luna brillava più forte.
Era così che si erano conosciuti, in una notte serena come quella.
“Dimmi, Marino, come sta il signor Polpo? Aveva una brutta ferita a un tentacolo, stava sanguinando!”
“Sì, è stato terribile! Credevamo tutti che non ce l’avrebbe fatta. Si è distratto un attimo, inseguendo alcuni pesci, ed è rimasto intrappolato in una rete. Ha tirato così forte per liberarsi, che si è ferito. Ha rimasto una brutta cicatrice, ma adesso sta molto meglio. E tu, hai novità?”
“Oh, certo! Oggi sono nate tre Stelle Bambine. Ancora non puoi vederle, perché sono lontane, ma presto andranno ad unirsi a un gruppo di madri qui vicino.”
“Che meraviglia! Il cielo è davvero qualcosa di straordinario.”, disse Marino.
“Sì, è vero! Ma anche l’oceano è speciale.”, sospirò Brillantina.
I giorni e le notti intanto si susseguivano, mentre i due amici continuavano a incontrarsi e parlare di ciò che amavano di più. Ogni tanto si rattristavano, perché l’estate stava per finire e, con l’arrivo del cattivo tempo, le nuvole avrebbero spesso coperto il cielo: Brillantina non era abbastanza forte per superare quella barriera con la sua luce!
Una sera Brillantina attese a lungo Marino. Preoccupata, chiese a Luna di brillare più forte, per oltrepassare il più profondamente possibile l’acqua.
Fu così che lo vide, impigliato con la sua codina arricciata nella rete gettata da alcuni pescatori. Stava cercando di liberarsi con tutte le sue forze, ma non ci riusciva. Come se non bastasse, proprio in quel momento la rete cominciò a risalire. Se Marino fosse salito oltre la superficie, sarebbe morto.
Brillantina era disperata. Doveva fare qualcosa, ma cosa?
Poi le venne un’idea.
Folle, ma era pur sempre un tentativo.
Voleva salvare Marino.
A tutti i costi.
E così si lanciò.
Senza pensarci due volte.
Dal cielo nel mare.
Nella caduta, Brillantina bruciò e quella notte una scia luminosa solcò il cielo.
Sprofondò nelle scure acque dell’oceano e spezzò la rete che teneva imprigionato Marino, ormai esausto. La stella pensò soltanto che valeva la pena morire per salvare un amico.
Luna, che aveva assistito a questo sacrificio in silenzio, risplendette come non si era mai visto prima di allora e scese, quasi a toccare l’oceano. Avvolse con la sua luce la piccola Brillantina che giaceva sul fondale. Accanto, il suo amico Marino in lacrime.
Improvvisamente, la stellina si sentì di nuovo piena di energia. Cercò di riprendere il volo per tornare al cielo, ma non ci riuscì. E come riusciva a respirare sott’acqua?
Marino era stupito quanto lei e non aveva parole.
Luna, per ricompensare Brillantina di tanta generosità, non potendola riportare sulla volta celeste, l’aveva trasformata in una stella marina.
Così, da quel momento, Brill e Marino divennero davvero inseparabili.
Muccitelli Caterina
Accetto il regolamento – Sezione A
INFINITO
Seduta sul bordo della vita
occhi chiusi
gambe ciondolanti
mente svuotata.
L’infinito attrae.
Sento il profumo.
Mi tuffo.
ANNA ROSSETTO SEZIONE B – ACCETTO IL REGOLAMENTO
CHE DIRE DI ME
Che qualcuno non abbia già scritto, che nessuno abbia già poetato, che uomo semplice o dotto oratore abbiano già declamato?
Non sono viva: in molti affermano che il creatore, chiunque egli sia, abbia donato un’anima d ‘ufficio unicamente a chi possiede il cuore che pulsa, il sangue che scorre, un cervello che pensa, delle membra semoventi.
Anzi, sembra che solo il genere umano sia beneficiario di questo privilegio inestimabile. Non è vero.
Con buona pace di antichi e moderni filosofi.
Sono un’ immensa distesa di sabbia, carezzata in eterno dalle instancabili e languide mani del mio sposo, il mare.
Se solo avessimo un corpo, potremmo essere due attempati coniugi, caparbi e fedeli nel loro unirsi in matrimonio ogni giorno, millennio dopo millennio.
Non abbiamo cuore, non abbiamo membra, forse non abbiamo anima, ma sfido uno, uno solo degli esseri viventi ad ammirarci, insieme, abbracciati nel rosso tramonto, nella furia della tempesta, nel timido chiarore dell’alba.
In questi precisi istanti, i nostri inesistenti pensieri e le nostre ineloquenti parole invadono prepotentemente l’anima di colui che ci ammira e ci teme.
No, non siamo vivi, ma palpitiamo ugualmente, suscitando ammirazione, nostalgia, felicità, tristezza, paura, stupore, terrore. Né più né meno di quanto qualsiasi essere vivente possa risvegliare in un altro suo simile.
Che dire di me, che non abbiano già detto i pescatori, i volti solcati dal sole, i capelli bruciati dalla salsedine, le mani violate dalle ruvide reti.
Vederli rientrare, a volte entusiasti per la pesca ed il vino abbondanti, a volte crucciati, le ceste vuote, logori di bestemmie e fatica.
Raccogliere le loro storie, carpirle, quasi rubarle in qualche parola di troppo o fin troppo nascosta tra le labbra secche.
Storie di donne che aspettano, storie di padri che a casa non sono mai, storie di figli che fuggono, storie di soldi dalla facile latitanza..
I pescatori parlano, spesso da soli, perchè nessuno capisce cosa si prova, quando la notte ed il primo mattino si contendono il cielo, là, in mezzo al mare, gettando assieme alle reti la propria vita, guardandola inabissarsi lentamente in un desiderato e agognato oblio.
Poi, temendo che quello straccio di esistenza possa veramente annegare per sempre, con caparbia volontà ed un pizzico di rabbia, issarla di nuovo a bordo per raccontarle la bugia di un domani migliore.
Io sono là. Ad ascoltarli, a farli tornare a casa con passi sfiniti, giorno dopo giorno, anche se alcuni, purtroppo, non li ho visti tornare mai più.
Cosa dire di me, che non abbiano già urlato i bambini d’estate. Cuccioli che cullo amorevolmente sul mio immenso e tiepido ventre, io, madre di tante storie d’amore, romantica spettatrice di passeggiate al chiaro di luna, complice di baci, carezze e promesse per l’eternità.
Li vedo, li sento correre, le gambe tozze e inesperte, i piccoli piedi saltellanti sulla rena che scotta di sole, i capelli disegnati sulla fronte e la bocca aperta a cercare aria quando il mare si diverte ad accarezzarli, d’improvviso, con insconsueta e inaspettata foga.
I miei doni per loro sono conchiglie multicolori, che raccolgono con cura e ripongono nei secchielli, colorati forzieri di improbabili pirati.
Cosa dire di me, nei lunghi giorni d’inverno, che non abbia già detto una vecchia canzone.
Desolata, abbandonata, quasi schiva, mal sopporto le visite, quando il vento gelido frusta i volti semicoperti dalle sciarpe di coloro che, nonostante la mia scontrosità, non disdegnano una passeggiata sul bagnasciuga.
Malinconica, lascio che Eolo disegni con dita impalpabili la mia tristezza, mentre le fredde mani del mio sposo continuano ad adularmi senza risultato.
Passerà. Come passa un brutto periodo, una malattia, un episodio triste.
Cosa dire di me, che non abbiano già pianto le madri e i padri ai quali il mare ha strappato i figli. Io ho tentato, ho cercato di soccorrerli, di far sentire sotto i loro piedi la sicurezza di poterli appoggiare, ma il mio sposo è imprevedibile, insidioso, spesso crudele.
E’ orgoglioso della sua grandezza, estremamente fiero della propria immensità. Non vuol essere sfidato, detesta essere deriso, desidera ci si presenti a lui con la deferenza ed il rispetto con i quali ci si pone al cospetto di un re. Perchè lui lo è.
La sua corona la luna, i suoi capelli le alghe di mille fogge e colori, suoi consiglieri i grandi cetacei, i giullari giocosi delfini, i suoi soldati gli squali, le vedette i gabbiani, i suoi sudditi tutte le specie di pesci esistenti. Il suo sorriso l’alba, lo sbadiglio il tramonto, la sua rabbia le furiose tempeste, il sonno le bonacce, i suoi sbalzi d’umore le maree, le sue parole lo sciabordio delle onde.
Questo il mio re.
Ed io, sua sposa, rimango ad contemplare la sua inarrivabile maestosità ,della quale un po’, solo un po’, faccio parte.
Che dire di me, che non direbbe una donna di se stessa.
Cosa dire di me, che non direbbe una donna, raccontando la propria pazienza e lungimiranza, negli anni, nei secoli che furono…
Sono una spiaggia, nome femminile.
Ascolto.
Odo i bimbi giocare, ascolto le chiacchiere, le confidenze, le risate, i diverbi, cullo con amore chi si addormenta sul mio ventre.
Sono una donna.
Nessuno mi regala dei fiori.
Oggi un gabbiano ha perduto una piuma.
Mi accontento di questo omaggio insperato e gradito, che si posa con delicatezza e leggiadria sul bagnasciuga.
Presto, solo questione di ore, il mio sposo lo ruberà, geloso ed adirato da tanta sfrontatezza.
Questo il mio destino, il mio posto nel mondo.
Non ho anima, non ho cuore, non ho membra.
Perchè fino al 1945 non eravamo sufficientemente vive nemmeno per poter votare.
Scivolare via
dalle imposizioni
viaggiare
Annusare il mare
scrivere canzoni
andare controcorrente
rispetto a tutta l’altra gente
respirare cielo e notte
con la vita fare a botte
scrivere sorrisi
su facce colorate
trangugiare poesia
come fosse solo mia
sognare di essere felici
riporre nel cassetto l’abitudine
e ogni sua similitudine.
Patrizia Benetti sezione poesia.
Accetto il regolamento
Sia il mare …
Gabbiani che volano attraverso il cielo
di Roma hanno spostato il lungo viaggio.
Le nuvole del messaggero sventolano
nelle acque grigie e ametiste.
Dal freddo del bronzo, mi interroga
il Pensatore di chi sarà il ritratto,
Lo dice con la morte nel sudario,
lo dice con la campana in mano.
I miei passi lo circondano di fretta.
Così rigido dall’ocra, quando crede.
E nessuno nota il suo grido.
Da vicino rispondo: non credevo
cosa farei, come ho agito,
quando ho viaggiato sia il mare, con il sole.-
Amalia Lateano
*Accetto integralmente il regolamento. Partecipo alla sezione A
*Belgrano 420.- Rojas (2705).- Buenos Aires
*ARGENTINA
*Teléfono: 054 2475 462282
Fabiola Murri
accetto integralmente il regolamento – partecipo alla sezione A
Isolatamente
Appari all’orizzonte,
plumbeo il cielo e tu giacente e silenziosa
come dama accogliente attendi,
navigare fluttuando
mi necessita
che al più presto possa raggiungerti a sfiorarti il profilo,
una scia di alati echi traccia la via
e l’occhio fruga ansioso l’approdo,
oh desiderio di profumi salmastri e notturne stelle
nato in un cuore morente,
guarda,
le mani hanno sete d’acqua e terra vergine
da plasmare ed odorare,
d’erba viva ,
di sogni da sognare con un filo d’erba tra labbra schiuse,
di poesie da recitare orizzontali al mondo,
pungente l’aroma delle onde in furia
profuma la pelle,
lacrime paiono sul viso i vezzi spumeggianti,
mi abbandono al miraggio di sirene sentinelle fino a naufragare
nell’intimità dei pensieri ad ogni risveglio diversa da ieri
isolatamente,
mentre al calar del sole ti ho selvaggiamente posseduta .
Patrizia Benetti sezione racconto.
Accetto il regolamento
IL MARE
Sono nata d’estate, a due passi dal mare. Ho respirato salsedine, ho imparato a nuotare prima che a camminare. La mia pelle è scura, i miei occhi colore dell’acqua. Il mare è per me elemento vitale. Lontano non saprei stare.
D’inverno è livido, arrabbiato su un cielo incolore. Il vento freddo mi sferza la pelle.
E’ un viaggio emozionale: ora burrascoso, nero e deserto, ora accogliente e assolato.
Il mare mi secca le labbra, mi screpola i pensieri. Eppure lo amo. Mi appartiene. Gli appartengo.
DA CUORE A CUORE
“Oltre l’altrove
infochi oh cuor mio!
E ti riavrò
un giorno,
palpitando
su ali d’onda…”
Accetto il Regolamento – Sezione POESIA
“Il mio mare”
Il mio mare,
con le sue onde tranquille,
poi minacciose,
rallenta le mie bracciate
verso l’orizzonte chiaro
lontano lontano
che vorrei raggiungere.
Il mio mare
che mi abbraccia
e mi fa rotolare
in centomila carezze d’amore,
nell’intensità del silenzio,
tra spruzzi d’argento
e colline d’acqua,
sotto a un cielo che vuole confondersi,
senza confini.
Il mio mare
che amo da sempre,
da quando altro liquido mi proteggeva,
mi fa una corte d’amore
che non so respingere.
Mi fa innamorare
dei suoi contenuti
dei suoi abitanti
delle sue abitudini
dei suoi concerti.
Li guardo, li sento,
li ammiro,
sono invitato fino alla sera,
durante la notte,
fino all’alba,
quando il sole prepotente
s’infila nel mio sguardo
e mi dà sveglia da emozioni.
Il mio mare,
che non è solo mio,
mi fa viaggiare
mi fa sognare
mi fa godere
e mi rende più nudo, oltre il corpo.
Mi ruba l’anima
e la fa dondolare
quasi a spiarmi di meraviglie
e di sentimenti
che vanno mescolandosi,
come in un volo senz’ali
tra cielo e terra,
invisibili e intoccabili,
negli abissi del nulla.
Gavino Puggioni – Sezione A – Accetto il regolamento
Da “L’arcobaleno in giardino”
Magnum Edizioni – 2004 –
“Impeto”
Dalla scogliera osservo cadere le dita. Non avremo mai potuto permetterci una casa in quei lidi e ripiegammo per la parte destra della valle. Ma spesso mi recavo alla scogliera per scorgere il disco sin dal suo arrivo. Percorrevo la strada al buio, ed in quei venti minuti pensavo alla distanza che ogni giorno percorre la Terra. Poi arrivavo, mi sedevo ed aspettavo l’impeto.
E successivamente si potevano vedere le dita che si scontravano nella pietra.
Beatrice Cossu
Sezione B – accetto il regolamento
“Luce”
Il mare profondo.
La luce del mondo.
Siam desolati nel profondo.
Rovistando il fondo.
Non è l’acqua che sazia
Non è il bianco che purifica
Sempre sacra a te, fuoco,
pura luce madre.
Beatrice Cossu
Sezione A – accetto il regolamento
Con la presente, accetto le condizioni di partecipazione al concorso letterario di cui sopra. Cordialmente. Sezione B
SUDORE, LACRIME, MARE
Samanta Berruti
Avevo cinque anni, la prima volta che vidi il mare.
Ai miei occhi di bambino, quell’enorme distesa azzurra ricordava la coperta in cotone grezzo che mia madre aveva usato per avvolgere mia sorella, prima di chiudere quel fagotto di lembi sconquassati, stringerselo al petto e piangere.
Deglutii, quel giorno, incerto su cosa fare. Inconsapevolmente, avevo paura di fare la stessa fine di Nana e di tantissimi altri bambini, ridotti a cumuli di carne informi e abbandonati in fosse comuni. Percepii la mano di mia madre sfiorarmi la spalla.
“Forza, tesoro, è ora”, mormorò con un sorriso.
Inghiottii una seconda volta, prima di cercare la sua mano e stringerla forte.
Vidi mio padre allungare una busta ad un signore dall’aria severa, prima di mormorare parole che non percepii e scuotere il capo. Solo anni dopo avrei compreso la reale portata di quel gesto e i sentimenti nascosti dietro la sua aria un po’ triste. La consapevolezza che quello non era un „Arrivederci“, infatti, mi colse solo quando, in un moto di malinconia, chiesi a mia madre perché papà non ci avesse ancora raggiunti.
“Ha intrapreso un lungo viaggio”, mi disse con un sorriso mesto “sta volando tra le stelle”.
Salimmo su quel barcone con gambe tremanti e, quando mi voltai, mio padre era ancora sulla terra ferma, un sorriso triste e le mani in tasca.
“Ci raggiungerà presto”.
Nonostante avessi solo cinque anni, la mestizia delle parole di mia madre mi colpì come un calcio alla bocca dello stomaco. Non dissi nulla, limitandomi ad osservarlo con gli occhi lucidi, come a volermi riempire il cuore dei mille dettagli del suo viso stanco. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, ne vedo le labbra secche, gli occhi scuri e i sandali ormai sdruciti.
Con uno scossone, la barca iniziò a muoversi. Mi aggrappai a mia madre, impaurito, prima di cercare con gli occhi la terra ferma, quel posto che ancora oggi chiamo casa, e vederla allontanarsi poco a poco, fino a divenire un punto lontano.
Faceva caldo, quel giorno. Il sole ci batteva sulla fronte, i vestiti si facevano umidi di sudore e la prospettiva di dover razionare i pochi viveri a disposizione si trasformò presto in realtà. Quando una donna un poco anziana chiese quanto durasse la traversata, infatti, uno degli uomini di vedetta rispose con parole che non credo dimenticherò mai.
“Cazzo ne so? Se non ci sparano al largo delle coste forse una settimana. Forse di più. Non lo so”.
Ripensandoci, ripensando a quelle parole e alla distanza con le quali furono pronunciate, sento la nausea impossessarsi dello stomaco.
La prima notte non dormii, lo ricordo bene. Chiusi gli occhi, mi raggomitolai in grembo a mia madre e cercai un sollievo che non mi fu concesso. Sobbalzavo ad ogni onda, tremavo ad ogni refolo di vento incapace, anche solo per un istante, di trovare pace.
Di quel viaggio ricordo pochi altri dettagli che si mescolano gli uni agli altri in un turbinio di lacrime, urla, cibo ormai secco e acqua che non bastava mai. Ricordo la mestizia con la quale una signora osservava la figlia piangere stretta ad un fagotto di stracci, incapace di lasciare andare quel corpicino senza vita. Ricordo le urla del capitano quando, ore prima del nostro salvataggio, una nave si era palesata sul suo radar.
“Dannazione! Questi ci sparano di sicuro”.
Ricordo l’odore pungente della salsedine alla quale non mi abituerò proprio mai, perché abituarvisi vorrebbe dire metabolizzare ricordi con i quali, ancora adesso, spesso non riesco a fare i conti.
Ricordo la nave bianca, enorme, che ci salvò a pochi chilometri dalla costa. Ricordo le braccia che mi tirarono su mentre, in preda alla paura, cercavo di liberarmi per tornare vicino a mia madre. Fu proprio lei a intimarmi di smetterla, di calmarmi e a ripetere quello che ormai era diventato il nostro mantra.
“Andrà tutto bene, tesoro. Il Cielo aiuta sempre i cuori buoni”.
Ci diedero coperte, acqua, cibo. Per la prima volta in giorni, insomma, ci restituirono l’impressione di essere persone, non animali ammassati in una gabbia troppo piccola per contenerli tutti.
In un paio d’ore ci ridiedero un po’ di quella stessa speranza che ci aveva spinti a partire e che, in una manciata di ore, avevamo perso.
Ricordo la voce dolce di Anna, una signora gentile che mi offrì una barretta di cioccolato. Ricordo che lo guardai incuriosito, prima di spezzarlo in due e, con gambe traballanti, raggiungere mia mia madre per porgergliene un pezzo. Ricordo le lacrime di lei, quel bacio dato con labbra screpolate, le sue braccia esili che mi stringevano tremanti.
Dei giorni seguenti, invece, non ricordo molto: ricordo muri bianchi e il rumore, in lontananza, del mare. L’infrangersi di quelle onde che, all’inizio del mio viaggio, mi avevano terrorizzato oltre misura si era, ora, trasformato nell’unico suono capace di cullarmi nel sonno, restituendomi un poco della pace che avevo perso nei giorni precedenti.
Ancora oggi quando, accompagnato da mia moglie, intraprendo un viaggio diretto al mare, non riesco a non pensare a quelle giornate interminabili, a quel sole cocente e al coraggio di mia madre che mai, nemmeno per un istante, smise di sorridere nonostante la paura. Allo stesso modo, mentre le onde mi lambiscono le caviglie, penso a mio padre. Penso a tutte le volte in cui l’ho aspettato davanti alla porta di casa, ai pochi ricordi che ancora custodisco gelosamente, agli abbracci negati e alla vita spezzata di un uomo che non ho potuto, in fondo, conoscere. Ci penso mentre, con un sorriso, osservo mia figlia trotterellare in acqua. Penso che sarebbe stato un nonno formidabile, attento e gentile. Penso a lui e spero che, ovunque si trovi, riesca a sorridere del piccolo uomo che ha dovuto salutare anni fa, sorridendo nonostante il dolore. Spero che questo stesso mare che ci ha privati l’uno dell’altro gli restituisca, perlomeno, l’immagine felice di questo giorno di sole.
“La cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime, o il mare.” Karen Blixen
(Wordcount: 994 parole, esclusa la citazione)
“Gioè, il pescatore”
La grotta era quella della luna, così chiamata dai vecchi pescatori del villaggio, alcuni dei quali vi trascorrevano intere notti per scrutare il suo viaggio nella fase di piena e osservare, nel frattempo, le onde del mare fino alle quattro-cinque del mattino, per poi armare le barche di reti, sagole e lampare e uscire in quella distesa cupa ma accogliente.
Gioè, originario dell’isola di Ponza, ma lì residente da almeno tre generazioni, quella notte si meravigliò per essersi trovato da solo, in quella grotta. Di solito erano due o tre ma, dopo, non ci aveva fatto caso. Si era adagiato su uno dei giacigli fatti di canne e paglia ed aveva acceso lentamente un mezzo sigaro.
Una lampada ad acetilene illuminava malamente e con violenza, quasi a ridisegnarle, le incrostature di roccia argentifera, la volta e le pareti millenarie, custodi dei tempi dell’infinito passato.
S’avvertì un sibilo, una lingua di vento improvviso, come a voler togliere dal torpore chi era lì, nel silenzio sacro di una notte stellata, adatta più a teneri amanti che non ad anime sole in attesa, forse, del nulla.
In un angolo vecchi giornali, qualche rivista sciupata dall’umido e dalla salsedine e ancora due vecchie copie della Domenica del Corriere, quasi nuove, evidentemente conservate come ricordo.
La prima riportava, in un disegno di Beltrame, il tragico naufragio del vapore SIRIO, del 4 agosto 1906, che trasportava migranti italiani verso l’America del sud, nella seconda, disegnata da Molino, c’era la tragedia del 4 maggio 1949, avvenuta nella collina di Superga, della squadra di calcio del grande Torino.
Gioè non aveva voglia di leggere, di tanto in tanto allungava lo sguardo che si poggiava sulla piatta del mare, senza risacca, o nelle vie del cielo che vedeva poco frequentate fino a che non si imbatteva nel faccione della luna che, senz’altro e a sua insaputa, gli teneva compagnia.
Poco lontano un anfratto di rocce metallifere proteggeva una piccola ansa dove erano ormeggiate tre piccole barche da pesca, una delle quali aveva legata all’albero maestro una scaletta di legno dalla cui sommità si potevano vedere sciame di pesci, qualche delfino, a volte pesci spada in coppia o banchi di grosse meduse da evitare.
Una delle barche si chiamava Gavi, memoria e ricordo di un isolotto che sta di fronte all’isola-madre di Ponza ed era la più vecchia.
Il sigaro di Gioè stava per esaurire i suoi mulinelli di fumo grigiastro.
Il cielo, il mare, la notte e di questa il buio disegnato dalla luna e abbracciato ai silenzi provenienti dall’infinito, apparivano come in una tela, irreale ma piena di vita, dove il corpo di Gioè si rifletteva, in attesa delle ore e dei minuti che passavano, d’altronde, inosservati.
Gli sguardi vivi su piccolissime stelle, luci della galassia, a lui assolutamente sconosciute, che andavano moltiplicandosi man mano che il tempo passava sopra leggiadri dondolii d’acqua che accarezzavano la chiglia delle tre barche.
Gioè non dormiva, forse sognava ad occhi aperti, aspettando l’ora X che l’avrebbe portato alla quotidianità dei movimenti, a stringere o virare la barra del timone, a spegnere il piccolo motore-diesel perchè arrivati al punto-pesca e senza la bussola.
Ma aspettava anche i suoi compagni di barca e non li sentiva e non li vedeva o forse non ne avevano avuto voglia.
Anche questo non lo distolse dal nulla che stava facendo, con l’udito teso a seguir il più piccolo rumore, con gli occhi puntati sul blu terra-acqua, il volto appiccicato alla parete col barlume dell’acetilene ormai alla fine.
E non si stava annoiando, c’era abituato, né aveva paura e dopo di che?
Una cosa, però, l’infastidiva, una sensazione a pelle che gli procurava quasi ansia, desiderio di non so che, di toccare qualcosa che non c’era, che non gli apparteneva.
Ci pensava e si toccava il petto, le gambe e sfregava il rovescio delle mani sulla fronte. Sudato? E perchè mai?
Deambulò su e giù per la grotta, lo sguardo sempre fisso all’esterno senza avere risultati. Eppure una cosa la pensava e, forse, quell’arcano si stava svelando.
Aveva pensato al Natale. Ma come al Natale se mancava più di un mese?
Allora era novembre e la data? Ci pensò un po’ e fra sé e sé disse: ma è il 13 di novembre, giorni dell’estate di San Martino!
Ecco quell’ansia, quel caldo, quelle sensazioni a cui ,da tempo immemore, non era più abituato! E davvero era così, ripensandoci bene , a mente ormai lucida, quel lasso di novembre erano anni che non lo viveva, rotte come sono oggi le stagioni e i periodi dell’anno, consacrati da vecchie abitudini di pensiero e di vita
Gioè non se ne fece problema. Respirò profondamente, si guardò attorno e decise di mettere il naso all’aria.
Meraviglia! Una brezza leggera s’impadronì del suo corpo, un brivido, anche di piacere, l’attraversò da capo a piedi avvicinandosi alla battigia.
L’acqua gorgogliava dolcemente, si mischiava al suo respiro, normale, fatto, in quel momento, di solitudine e attrazione verso il silenzio, verso quell’infinito dove lui, vecchio pescatore, trovava compagnia e sentimenti veri.
L’alba sembrava lontana, la terra che lui calpestava diventava lieve come i suoi pensieri che lo trascinavano, incantato, altrove, in quell’altrove dal quale i suoi nonni erano arrivati e non vi erano più ritornati.
Ebbe un piccolo sussulto, quasi a ravvedersi che era ancora lì, in attesa dei suoi compagni che ormai non sarebbero arrivati.
Si diresse verso le barche, le illuminò una per una, come un pittore dipinge la sua tela, le toccò a mo’ di carezze e salì, con un balzo, sulla più vecchia, la Gavi, impressa nella sua memoria come l’antico isolotto di Ponza.
Liberò le cime umide da un robusto ed utile dente di roccia.
La barca scivolò da sola, sopra un tappeto di velluto, mentre Gioè s’affacciava in quell’insenatura da sempre protetta da Nettuno.
L’alba iridescente, apoteosi del creato, scandiva la musica dei suoi primi bagliori sulle ali dell’amico gabbiano, inseparabile testimonianza d’amore fra l’uomo e il suo mare.
– Partecipo alla Sezione B – Accetto il regolamento
Edoardo Bianchi
Partecipo alla sezione A (poesia)
Accetto in toto il regolamento
Titolo opera: “Qualcosa nelle onde”
Blu che dall’alto percuoti
Blu che nel basso risolvi
Non c’è mondo che non ti rifletta
Non c’è istante in cui non sei presente.
Qualcosa nelle onde
richiama il tuo ricordo
è un infrangersi
uno spiegarsi di ali
mentre lei da lontano
ride, e lamenta.
Il padrone giace nella pietra
non c’è colore
è cieco.
Qualcosa nelle onde
propone una nenia costante
e indirizza lo sguardo
al cielo, nuovamente.
AUTOSTOP
SEZ.A
NICOLA MATTEUCCI
ACCETTO IL REGOLAMENTO
L’ombra del rosmarino si getta sul poggio,
meridiano nei meridiani.
Le pinne delle barche si muovono lungo X
perché è inutile ogni altra dimensione.
Si è scordata la lucertola chi ella sia
e il suo sangue raffreddato non lo sente.
Il mio cappello sprofonda nelle festuche
e tutto il mio cammino
forse non è neanche avvenuto.
Strade sinuose costeggiano il mare
come corridoi di un casinò.
Ogni tanto passa un’auto,
ogni tanto il sole,
ogni tanto qualche uccellaccio.
Il mare dice Silenzio, come sa fare lui
mentre una gomma invisibile
sembra cancellarlo a tratti
per lasciarci il bianco.
Tramonto meschino sulle labbra
degli oleandri
e sulla salsedine agrumata.
Arriverò da te. Arriverò,
sempre ciò che è laggiù
non segua il paradosso di Zenone.
La nave
La nave è scesa giù, per la collina,
come una storia, appesa alle sue nuvole.
Ora solca il torrente e le riviere
sino alla valle dei ciliegi in fiore
dove c’è un mondo che si scuote ancora.
E allora gli occhi riescono a vedere
quel che riluce oltre il cancello azzurro,
dove l’infanzia non s’era smarrita
collezionando i giorni già segnati
da fioriture di stelle marine.
L’attesa dell’inverno ora s’è chiusa.
Accetto il regolamento – sezione A
ACCETTO IL REGOLAMENTO – sez A
Il mare
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Sono nata ad un passo dal mare,
in una casa dove sentivi continuo il fragore
delle onde inquiete o il loro sussurro.
Mia madre mi ha detto
che appena ho lanciato il primo vagito
qualcuno mi ha preso in braccio
e si è avvicinato alla finestra.
La prima immagine della mia vita
è stata il mare.
Sono nata in tempo di autunno
al mio paese c’era un’ aria tiepida e tranquilla,
il mare, dall’altra parte della strada,
appariva come una tavola, senza orizzonte
e c’era un odore acuto che entrava nelle narici.
Il mio cuore balla a questi racconti,
ricordo che quando ho cominciato a capire,
uscivo sulla loggetta e guardavo il mare,
era tenero, fatto di sentieri leggeri.
Adesso non sono più in quella casa,
sento il mormorio del mare, ma non lo vedo
eppure mi appare nel cielo il suo brillare
e immagino le tante barchette di carta
che da bambina posavo sulle onde.
Ora come allora, sogno che diventino
vere e mi portino via di qui, lasciando
sulla riva le mie speranze deluse
con tutta la mia amarezza.
Mi manca la visione del mio mare,
anche se so che è lì, dietro alti palazzi,
sento il rumore delle onde,
percepisco il suo odore.
Potessi andare via, in un paese lontano,
dimenticando le angosce
che la vita mi ha riservato.
Solo così la mia tristezza
sarebbe capace di cantare il domani,
come il sangue canta al primo segno d’amore.
Ogni giorno, ogni notte mi affaccio
per parlare con il mio mare,
quando posso vado sulla riva,
per ricordare le speranze e le promesse
che ho seppellito sotto la sabbia.
Tante volte vedo qualcosa
che accarezza il mio sguardo
come un’allucinazione,
guardo in alto e il cielo mi appare
come una vela popolata dalle nuvole.
Scritta da Mariella Di Camillo.
RACCONTO,SEZIONE B
Un viaggio lungo 28 giorni
Settembre 1969. Mi chiamo Carlos, sono nato a Panama e ho 33 anni. Mi trovo su un piroscafo che dall’Italia mi sta riportando al mio paese. Sono emozionato al pensiero di rivedere la mia famiglia, pure non posso nascondere una certa malinconia nel lasciare l’Italia, dove ho abitato per 13 anni. Me la sono presa comoda, mio padre a Panama è senatore, non mi ha fatto mancare soldi per vivere bene ed io ho fatto diventare 13, gli anni di università per diventare medico. Ho sempre pagato le tasse, ma sono stato per interi anni senza fare un esame. La vita in Italia, a Roma, è stata per me bellissima. Con i soldi di papà ho avuto sempre un appartamento tutto per me. L’ultimo dove sono stato era nella zona di piazza Bologna, tre stanze e servizi, avevo una colf che una volta alla settimana veniva a sistemare, sono di natura molto ordinato e ci tengo alla pulizia. Avere una casa è stato utile per intrecciare relazioni o brevi avventure, ed io ne ho avute tante. Le donne sono indispensabili per me, io sono quello che in Italia si chiama ‘un donnaiolo’ ed è vero, me la son goduta. Ora sono nella mia cabina, sdraiato sul letto e sto ricordando l’intensa vita fatta in questi tredici anni. Sono riuscito a laurearmi perché hanno dato l’opportunità di fare l’esame mensile, mi sono messo di impegno, mio padre due anni fa, si era imposto dicendo che mi avrebbe tagliato i viveri, se volevo restare in Italia dovevo trovare un lavoro e mantenermi. Io fin da bambino volevo fare il medico, non penso sarei capace di fare altro. Mi sono messo a studiare e anche se ero fermo ad Patologia medica, un esame del terzo anno, ho fatto un tuffo nello studio, non lasciando i libri neppure la notte. Mentre penso sento i rumori di questo piroscafo, non ho preso l’aereo perché mia madre non ha voluto, purtroppo ha perso un figlio, un po’ più grande di me, in un incidente e non vuole sentire parlare di viaggi fatti nell’aria. L’ho accontentata, povera mamma, ancora soffre per il suo lutto e anche io sono rimasto scioccato dalla morte di mio fratello, in mare mi sento più sicuro. Le giornate qui sono movimentate, molti sono in viaggio di piacere, c’è una vita sociale frenetica, aperitivi, cene e feste, già ho adocchiato un paio di signore niente male che viaggiano da sole. Esco dalla mia cabina e mi affaccio al parapetto, il sole è sceso, non è tardi ma il buio mi circonda. Guardo il mare, sembra nero con le onde che si infrangono sprigionando una schiuma che pare disegnata. A Roma ho lasciato una ragazza in lacrime, ma in verità io non le ho mai promesso nulla, anche se sono stato il suo primo uomo e purtroppo l’altro anno l’ho messa in mezzo ai guai, mi sono defilato e lei è stata costretta ad abortire contro la sua volontà. Non aveva alternative. figlia di militare, minorenne, ha solo venti anni, una famiglia severissima, un ambiente piccolo borghese, per lei portare avanti la gravidanza, senza avere un marito, sarebbe stata una tragedia. E’ universitaria, iscritta alla facoltà di lettere, ma è più giudiziosa di me, è in regola con gli esami perché a casa le stanno col fiato sul collo. Con l’aiuto di un’amica ha trovato un medico compiacente e si è liberata, pagando una cifra enorme. Io sono sparito, non le ho dato nemmeno un centesimo né mi sono offerto di accompagnarla. Eppure è stata lei che dopo qualche settimana è venuta a cercarmi. A me non mancavano le donne, ma avere lei a disposizione, lei che mi piaceva da morire, era l’ideale, tanto per la disciplina del padre aveva poca libertà di giorno e ogni sera alle 8 doveva tornare a casa, avevo tempo per stare con lei e avere altre avventure. Abbiamo ripreso la nostra relazione, lei non so su cosa poggiava la sua sicurezza, ma pensava che l’avrei portata con me, al diavolo l’università e la famiglia borghese. Si era fatta un film che io non ho mai confortato con promesse vane, mi limitavo a sorridere quando cominciava a sognare. In Italia le ragazze appena inizi una storia pensano al matrimonio. Prima di lei ho avuto relazioni, una è durata otto anni e questa donna, quando l’ho lasciata, mi ha rinfacciato di averle rubato gli anni più belli della sua vita. Anche lei pensava di venire a Panama con me, oppure che avrei fatto il medico in Italia e l’avrei sposata. Io ho un programma preciso, torno a Panama e mi cerco una statunitense, andrò in vacanza in Florida, lì ci sono belle donne, ma io la prenderò anche brutta, basta che mi sposi e mi faccia prendere la tanto agognata, ’carta verde’, voglio lavorare negli USA e fare un sacco di soldi. Sono ricco di famiglia ma devo fare i conti con i miei tanti fratelli e sorelle, che hanno visto male il mio lungo soggiorno in Italia. Per loro mi stavo divertendo a spese della famiglia e questo è vero. Guardo di nuovo il mare increspato, nero come la pece, non sembra neppure lo stesso mare che ho visto stamattina, ubriaco di sole, liscio come una tavola. La mattina vado in piscina, sono tre giorni che sono in viaggio, partecipo a tutte le iniziative, stasera ad esempio c’è una festa danzante e io ballo bene. Voglio prepararmi alla grande e rimorchierò di sicuro. Devo fare attenzione però, non posso ritrovarmi per tutto il viaggio una donna appiccicata che pensa di mettermi il collare, voglio divertirmi con tutte quelle che mi capitano a tiro, le europee e le americane hanno una mentalità più aperta accettano l’avventura, però è sempre bene stare in campana, il viaggio dura ventotto giorni, non voglio appiccicumi o altro che mi costringano ad una vita da ‘fidanzato’. Voglio essere libero, solo avventure, niente relazioni.
Scritto da Mariella Di Camillo (accetto il regolamento del contest)
SEZ A
ACCETTO IL REGOLAMENTO.
” …ASCOLTO QUEI LUOGHI…”
…quanti pensieri sono lì
tra le parole mescolate
e confuse scritte su fogli
che non trovano strada
Le storie raccontate
riemergono in me di quei
giorni sento il vento
giovani sguardi
incontrati in occhi grandi
volti baciati dal sole
traccia di terra rossa
Quanti punti lontani
privi di rotte
inseguiti
ma mai raggiunti
sogno come da bambino
disperdo i miei pensieri
in case di pietre bianche
lavorate da sapienti mani
volti di pietra tristi d’erosione
liberati nell’anima
Dimenticare è impossibile
la vita mi viene a cercare
troppo lontano da quel tempo
ascolto quei luoghi
ogni loro tormento
mescolo le emozioni
per sentirmi meglio
preso ormai da quel destino
La percorrerò la mia terra
con le torri di guardia
lungo la costa e sentieri
contornati di spighe di grano
dove nasce il pane
silenziose albe
svegliano il sole
dalla sua dimora
i miei pensieri vengono
da laggiù dove la mia
lontananza ha portato
la sua croce.
Fracassi Giovanna
Sezione B
Accetto il regolamento
Veliero
L’ultimo gruppo di turisti era sceso e già le loro voci si affievolivano perdendosi fra i vicoli del porto, certamente erano diretti al vecchio pub all’angolo della piazza dove sorgeva la torre campanaria che spiccava rossiccia fra i tetti. Amava quell’ora del giorno. Sedeva sul grande rotolo delle corde ruvide e pregne di salsedine e con il viso offerto alla brezza dolce e profumata della sera, restava ad osservare il cielo che scuriva sfumandosi all’orizzonte. Adesso però era tutto un rincorrersi di nere nuvole che rosseggiavano di lampi che ne incendiavano i confini quasi vi fosse lassù l’infuriare di una battaglia con un continuo avvampare di fuoco e il rimbombo di spari come tuoni che dardeggiavano cupi .
Adam pensò a quando l’uomo, ancora ignaro di tante conoscenze scientifiche, volgeva lo sguardo tremante, impaurito e immaginava davvero dei, come forze della natura, alla presa con le loro personali controversie a fronteggiarsi a suon di fulmini e saette…quanta poesia! Ma lui voleva restare invischiato ancora, nonostante e malgrado i suoi titoli accademici, a questa libera interpretazione del mondo .
Aveva abbandonato tutto già da qualche anno. Sì tutto : carriera universitaria, l’appartamento lussuoso, l’auto potente e di prestigio, gli amici, le feste, le serate a teatro, tutto. Solo Spiffero, il caro e ormai spelacchiato cane aveva voluto portare con sé in quel porto sul mare del nord .
Raramente tornava al suo passato: se n’era andato senza alcun rimpianto e non aveva ancora il desiderio di tornare e chissà mai se lo avrebbe mai avuto.
Respirò la tranquillità di quelle onde placide, socchiuse gli occhi al leggero rollio del suo legno e sorrise ripensando a quel giorno in cui decise, così all’improvviso, su due piedi , di investire gran parte dei suoi risparmi acquistando quel vecchio e malconcio veliero.
Arrivato la mattina, era sceso dal pullman con il suo borsone da viaggio e Spiffero ubbidiente al guinzaglio: tutto il suo passato raccolto nel palmo della mano, aveva fiutato l’aria fredda del porto e aveva deciso di andare a cercare una pensione dove alloggiare. Si lasciò guidare dai passi ed arrivò davanti agli ormeggi. Quel piccolo veliero di raggrinzito legno scuro, dondolava sbatacchiando i fianchi consunti, mentre dai tre alberi pendevano vele grigiastre e butterate. Pensò che doveva aver visto tempi migliori e per un momento lo vide lucido e fiero solcare il mare .
Lesse : “in vendita “ed uno sbiadito numero di telefono. Al cellulare gli rispose una voce ruvida : poche indispensabili parole e la mattina dopo, alle 9.30, saliva da proprietario sul ponte macilento mentre Spiffero, guardingo ma festoso , annusava avido ogni angolo.
Gli ci vollero parecchie settimane per ripulire e ridare vita a quel brutto anatroccolo che si distingueva fra le imbarcazioni ormeggiate per il suo aspetto macilento. Armato di tanta buona volontà, con tutto il tempo della libertà a disposizione , era riuscito nella trasformazione. Era orgoglioso e soddisfatto del suo lavoro: ancora si guardava intorno e apprezzava il legno lucido, le candide vele, che quando si gonfiavano erano il suo stesso respiro. Sottocoperta era la sua dimora: pochi metri quadrati che lo tenevano piegato in due con il suo metro e novanta, un tavolo proprio sotto l’oblò, due sedie, un piccolo angolo cottura e un letto spartano. Ma i libri erano sparsi ovunque e il suo pc lampeggiava a lato. Ecco a questo non aveva rinunciato: alla sua finestra sul mondo che galleggiava con lui di fiordo in fiordo.
Stava iniziando a piovere, si tirò sulle spalle la cerata, si calcò meglio il berretto e rimase quasi immobile a fissare il gocciolio sempre più intenso che rendeva spumeggiante il mare. Il ticchettio cresceva mentre tutto intorno, ogni altro rumore cessava. Oramai tutti erano rincasati, le altre imbarcazioni restavano mute e spente,nessun altro aveva eletto a domicilio la propria barca.
Così Adam restava solo, ogni notte, nel piccolo porto addormentato.
A volte pensava di esserne l’involontario custode, soprattutto quando un rumore inatteso lo svegliava richiamandolo dal sonno senza sogni in cui sprofondava con una serenità che non conosceva da tempo, oppure quando ascoltava, ancora nel dormiveglia, i primi richiami dei marinai, il primo accendersi del motore dei pescherecci che uscivano nella bruma mattutina.
Fracassi Giovanna
Sez.A
Accetto il regolamento
Coppa di nostalgia
Piccolo così
granello trasportato
dal vento
leggero
ingarbugliato fra le ore
stridenti
come il clangore
di diamanti aguzzi
sul vetro ruvido
di questa notte
sfavillio di stelle
piccolo così
granello di malinconia
nel cuore impaziente
quando il cielo s’incupisce
e s’increspa di luccichii
ed è schiuma sulla spiaggia
quando l’anima è un soffio vivo
un granello che scivola
tra gli interstizi d’alabastro
fra le ombre
appoggiate sui muri
fra i silenzi dei sogni
e nella coppa di nostalgia
è acqua che freme
sulle labbra aride.
Sez. A
Accetto il regolamento
Io sono il mare
danzi su creste d’onde
gabbiano Jonathan
io sono il mare l’immenso
desco su cui ti posi
-ti guizza nel becco preda lucente-
io sono il mare tua madre
se in burrasca
vieppiù in simbiosi siamo
ti abbraccia il mio cuore trasparente
di salsedine
poi per l’azzurra volta
ti vedo svettare – verso
profondità di cieli
verso quella
libertà che aneli
Partecipo sezione A – accetto il regolamento
Non ci pieghiamo
Anche se il vento tira forte,
vento gelido di maestrale
ci ha forgiate,
dure come la roccia,
che si staglia imponente
e sovrasta il mare
come una regina.
Non ci pieghiamo
nella tempesta,
come giunchi balliamo
e ci chiniamo,
con radici ben salde
alla madre terra,
e poi ci rialziamo fiere
con la schiena dritta e il “muso”
rivolto al cielo,
in segno di sfida.
Noi donne Sarde,
abbiamo lo sguardo
sempre
rivolto ad est,
e vediamo il sole
anche attraverso
le nuvole.
L’ESTATE DI MONDELLO
Il profumo del pesce nell’aria
afrore che stordisce nella canicola
l’impreparata gente di pianura
fra le casse di frutta in disordine.
Grida di donne nel mercato, cesti
e lo sfrecciare incurante dei motorini,
ragazzi sulla spiaggia che penseresti
assorti sui libri, muscoli al sole esibiti,
farandola di mani e di giochi.
Nelle vetrine arcobaleni di cassate,
cannoli gravidi d’antica voluttà,
fresche granite al gelso stupite
al contatto delle lingue e il mare immoto
e l’affrettarsi all’acqua e l’immergersi
sdegnando la premura delle ore
ed improvviso il bisogno
d’abbracciar questa vita:
nodo alla gola la cravatta
camicia di forza la giacca
scarpe ferrate ai piedi
e spogliarsi subito da questa corazza
e nella nudità del petto accoglierla.
Stendersi sull’asfalto
misurando nel silenzio i suoi passi.
Fabrizio BREGOLI
Accetto il regolamento – sez A
sez A Gabriella Pison
Dichiaro di accettare il regolamento
INCREDIBILE ESTATE
Al sole è altra cosa
Stendo l’anima sul bagnasciuga
Gocciolante d’onde e fili luminosi
Di pensieri che si allontanano
Benedico quest’acqua che mi consacra all’estate
Al canto ingioiellato delle cicale
A un senza tempo
Che è la sola ragione dei sensi.
Un tuffo che è sete, vertigine di madreperla,
trasparenza di cobalto all’alba,
una smania di confondersi con la salsedine
e il brusio del silenzio.
Mi abbandono all’ombra delle tamerici
Al contrappasso delle memorie gelate dell’inverno
Ai guizzi gitani tra gli scogli
Al mormorio delle sirene profumate d’alghe.
Cos’è vivere senza l’estate?
Sez B
Accetto il regolamento.
Lo strano viaggio di Ruggero
Ruggero aveva avuto, non so se lo ha ancora -non so niente di lui più di quel che ho letto- un padre molto protettivo. Un padre che gli dava calore e fresca ombra, che lo lasciava immergersi in contemplazioni di pleiadi, se il cielo si degnava si stendere il suo manto grigio, che accanto al fuoco del camino, in estate e in inverno lo avvolgeva di famiglia. Gli impediva di accendere il fuoco, forse per paura che si bruciasse ed io, con una capriola pseudo psicologica, immagino che quel fuoco si sia impedito di accenderlo nel suo narrare.
Gli piaceva uscire, inconsciamente teso ad accaparrare calore, osservatore acuto, attento e solitario di tutto quello che gli capitava intorno e dei dettagli che gli scorrevano davanti come le faville, monachine misteriose e incappucciate, che sprizzavano dai ciocchi accesi dal suo babbo e che volavano via.
E un giorno, ormai adulto, dalla finestra vide le sue monachine che avevano riempito tutto il cielo e decise senza pensarlo e senza saperlo che era giunta l’ora di raggiungerle e togliere loro il cappuccio.
Quel brillio in cielo era alquanto velato; brillavano di più gli occhi del gatto che lo osservò, appollaiato sulla colonnina che reggeva il cancello e sbadigliò indifferente.
Quasi senza bagaglio, lungo la strada comprò un bastone, perché pensava che, in quanto viandante senza meta, gli ci volesse. e, senza accorgersene, comprò un bastone da cieco.
Viaggiò verso est, per veder tramontare il sole il più tardi possibile –così racconta-, passò per l’Africa del nord fino all’oceano e dimenticò le faville nei posti dove il pane ed altro si cuoceva sulle pietre arroventate dal sole.
Poi volse a nord, verso lo stretto di Gibilterra e rimase in Portogallo, in qualche piccolo paese sul mare. E un giorno, guardando il suo vecchio bastone bianco, gli venne l’ispirazione di farsi cieco.
Cominciò a bendarsi in casa. Chi sa se da cieco avrebbe potuto scoprire il segreto delle monachine incappucciate.
Qualcosa scoprì: la potenza di tutti gli altri sensi, imparò la prudenza e il controllo dei più piccoli movimenti quotidiani, l’esplorazione dell’ambiente col suo bastone, il riconoscere le persone dagli odori, dal tipo di rumore che facevano muovendosi, a indovinare come erano pettinate e vestite. Quando ebbe il controllo totale della nuova situazione, si divertiva ad uscire un giorno da cieco e un altro da vedente, vestito in maniera completamente differente, tanto che le cameriere del bar che frequentava non si accorsero di nulla.
Sopravviveva con lavori occasionali al porto.
E un giorno in cui aveva deciso di andare al porto da cieco, con tanto di occhiali neri e il bastone appresso, gli si avvicinò una sorta di caporale per offrirgli un ingaggio su una nave: gli spiegò che c’era un lavoro adatto a un non vedente e che la paga era ottima. Accettò. Si accordarono che venisse mandata la metà dell’importo alla sua famiglia e cominciò l’avventura. Divieto assoluto di salire sul ponte se non in piena notte.
Se il vascello di Rimbaud era folle, questo era un incubo. Ne scrisse in seguito e, se volete, andatevi a leggere il suo resoconto.
Fatto sta che viaggiò per anni –probabilmente- senza sapere dove si trovasse, senza avere un’idea degli scali. Di notte si avventurava sulla tolda e poteva vedere almeno le stelle. Sentiva che qualcuno camminava sul ponte con passo claudicante e con un bastone e il bastone fu l’unica cosa che riuscì a intravvedere una notte, accorgendosi che era il suo. Vedeva le stelle, analogie di faville, per niente misteriose, anzi stupide e crudeli.
Un giorno la nave attraccò malamente, si sentivano urla e correre da panico. Sentì scendere dal boccaporto un ordine: “Vai!” e sapeva che era la voce dell’uomo zoppo, ma gli sembrò quella di suo padre, ombra che lo proteggeva. Decise di tentare la sorte. Mezzo cieco davvero ormai, per la lunga permanenza al buio, si frammischiò alla gente che correva e si gettò in una scialuppa.
Prima di svenire davanti al cancelletto vide il gatto che era sceso sul plinto.
Lo curarono, si riprese in fretta e, non ancora sessantenne, si ritrovò con un paio di nipotini, ai quali insegnò ad accendere da soli il fuoco nel camino, così che non avessero poi da inseguire monachine incappucciate.
Così seppe che le scintille sono misteriose perché stanno dentro le persone. Vide la sua, e seppe di non essere più spettatore di sé stesso, spettatore di film e di vite, seppe che poteva rendere visibili le scintille altrui a chi le andava cercando.
Così, tutti i giorni, seduto su una panchina all’ombra di un enorme ulivo, regalava a chiunque gli si sedesse accanto i ricordi della sua anima e il loro significato: le tante monachine incappucciate tornavano ad essere scintille ridenti.
Incitamento
Ti hanno ingannato fratello,
hai ancora una possibilità.
Solo la loro invidia
ti ha fatto precipitare
sono barcaioli miopi
da bassi fondali.
Tu hai solo immaginato
l’orizzonte, i mari, l’infinito.
Ricuci le ali e vola più alto,
oltre ogni fantasia.
Il cielo è tuo, Icaro.
Alberto Castrini
sez. A Accetto il regolamento
IL RICHIAMO DEL MARE
Oggi il mare m’ha chiamato a sé e ho seguito quel richiamo forte, potente. L’ho inseguito per tutta la lunghezza della strada cercando di sbirciare dall’auto la sua striscia azzurra, ma il muretto che delimitava la spiaggia ne impediva la vista…era lì, lo sentivo, ma non lo vedevo. Solo in lontananza nitida l’immagine del vecchio e solitario faro, a guardia di un’ultima propaggine di terra. Uno spicchio, un angolo ogni tanto entrava nel campo visivo di me alla guida che lentamente procedevo facendomi riscaldare il viso, attraverso il vetro dal sole di febbraio, ricevendo un leggero senso di piacevole carezza.
Finalmente uno spazio sgombro da mattoni mi ha aperto la finestra sulla distesa azzurra, docile, immobile..il mare d’estate non ha mai di questi colori l’intensità, d’estate qui l’acqua si imputridisce un po’, assumendo le tinte, gli umori, i sudori della calca..ma d’inverno è uno specchio limpido in cui riflettere i propri pensieri, elaborare le proprie riflessioni.
E mi sono trovata a tuffare nel mare di questa mattina le mie giornate perse della scorsa estate, nel mio primo giorno di ferie di quelle vacanze non consumate, spese lungo corridoi di ospedali, in attesa di un domani migliore che mai sembrava arrivare. Nel mio primo giorno di ferie non potevo che essere qui a ritemprare lo spirito, a respirare a fondo allargando i polmoni l’aria salmastra sollevata ancora di più da una brezza pungente.
Ma la vista di questo mare non è stata l’unica cosa a dare senso alla mattina: ho incontrato un vecchio conoscente che non mi vedeva forse da quand’ero ragazza, che mi ha abbracciato e si è commosso mentre lo faceva, mentre diceva: “la mia ragazzina!” E io davanti a questo mare, nell’abbraccio del mare e di quest’amico anziano, non sono riuscita a trattenermi…l’emozione mi ha colto.
È stato un attimo.
Non riuscivo a trovare le parole, mentre l’abbraccio si faceva più stretto, come per comunicare di più che con le parole nella stretta di quelle mani: il passato trascorso, gli anni che ci avevano visto entrambi più giovani e il senso dei giorni futuri ancora incerti per me, curvi sulla vita per lui.
La voce si è appuntata a metà tra le labbra e il cuore, oppure lì dove l’azzurro è ancora più azzurro, su quella linea d’orizzonte netta e definita:
la linea che separa il mare dal cielo, la vita dalla morte.
Tania Scavolini accetto il regolamento sez. B
“Aqui… onde a terra se acaba”
Qui,dove la terra finisce
e forte brezza le idee stordisce,
qui,dove lo sguardo smarrito
si perde nell’indefinito orizzonte,
qui,comincia il mare…infinito.
Sospesa su rocciosa estremità
sollevo sulle punte il cuore
e capitombola rapita l’emozione
ruzzolando da strapiombo ardito.
Spazia l’animo tra terra e mare
in impeto di superba libertà
e s’abbandona alla seduzione
di cielo dischiuso sull’immensità.
Poesia ispirata ai versi del poeta portoghese Camoes “Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa….” che tradotti in italiano significano “Qui…dove finisce la terra e comincia il mare”. Questa poetica frase si trova scritta a Cabo de Roca (parco naturale di Sintra – Portogallo) su una lapide in pietra apposta per celebrare questo luogo particolare che rappresenta l’estremita’ occidentale del continente europeo.
Tania Scavolini accetto il regolamento sez A
Poesia
Sez. A
Accetto il Regolamento
Titolo
“Vento di Liguria”
Il Mare
mi naviga nel cuore
come forza primordiale
che non conosce riposo.
Ama e brama al turbinio
dell’Immenso.
All’accecante splendore
che brucia l’Anima
dal sale sconvolta.
Viaggio nell’Infinito
senza tempo,
vesti di rose abbondanti,
sogni intrecciati a reti
che l’onda dipana, stravolge.
Nel sangue pulsano
pensieri puri di libertà,
l’incoscienza della giovinezza,
il pacato ardore di un’età
di corallo e speranza.
Il Mare
annaffierà la mia tomba.
Quei fiori appassiti
che il vento di Liguria
con grato ludibrio
sconvolgerà.
IL TRENO DELLA VITA INSIEME AD UN FIGLIO
(Sez.A – accetto il regolamento)
———————————
La tua mano, piccolissima,
si perde nella mia
Ti devo portare nelle strade del mondo
Mi volto
Un treno passa veloce, e non si ferma
Ritorno a guardarti
La mia mano, tornata piccola, si perde nella tua
Mi volto
Il treno ritorna lento, e si ferma
È ora di andare
Il treno non puo aspettare le nostre lacrime
Giovanni Corda
Sezione A – Accetto il regolamento del Contest “Scrivimi”
Titolo: “Arrivederci”
1982. Sul molo solo due barche. La giornata soleggiata aveva invogliato gli abitanti di Mines ad una gita verso altri lidi. L’inverno è stato rigido e si aspettava una giornata di sole per poter portare i figli in barca e presentargli alcuni dettagli della navigazione.
Certo, il signor Mario non poteva insegnare una vita in una sola mattina, ma qualcosa si iniziava a raccontare.
Si narrava del nonno che costruì la prima barca, si narrava del bisnonno che capì qualche legno era più resistente.
Si racconta del trisnonno che iniziò a nuotare a soli 2 anni. E si narra della madre che morì dando alla luce il piccolo Manuel, che ora ha quasi sei anni e che negli occhi ha stelle che danzano alla vista dell’acqua.
Giovanni Corda
Sezione B – Accetto il regolamento del Contest “Scrivimi”
Titolo: “Maree”
La notte si tinge di scuro.
Onda su onda il capitano
spera,
un faro?
l’abbaglio di una costa.
L’approdo per la ciurma.
Ma la notte
è sempre più scura.
Vento da nord.
Il cielo è cieco.
Il nostromo balbetta
in idioma sconosciuto.
La follia del buio.
Maree
che non seguono la Luna
guardano il legno
e si dibattono per incrociarlo.
Emanuela Di Caprio, sezione A, Accetto il regolamento
Esuli
Sputare sangue e camminare ancora
senza raggiungere mai l’alba, ora vedo
altri volti e schiene piegate che mi attorniano
come corpi in disfacimento e deliro
contando demoni viscidi che sferrano calci e scudisciate.
Qual è la mia terra dunque, dove posarmi stanco?
Stracci e coperte trasciniamo per vestire
le nostre disgraziate membra, i figli piangono
nella fuga, mammelle stanche e sterili
tremolano disperate e vuote,
tra il fango e la croce del tempo.
Lontana la Siria, oppure non stiamo fuggendo?
Ogni stazione della croce qualcuno cade
e chiede l’acqua, ma il sentiero è arido e aspro
la bocca si fa nera e le piaghe ci coprono.
Nessuna pietà per i deboli, campi sterminati
e fili spinati, è tornato il bianco e nero della Shoah
nessuno s’accorge di noi. Quale dio dobbiamo pregare,
ci stendiamo alfine, deboli e sporchi, dormiamo
ad occhi aperti e confidiamo ancora nell’esile respiro
che la vita ci regala… per quanto tempo?
Cataste di corpi inutili ai padroni della terra,
non portiamo oro incenso e mirra,
non abbiamo doni, solo le nostre membra inutili.
Non abbiamo la forza per cantare inni,
aspettiamo l’aurora inetti, esuli dimenticati.
Luisanna Acerbi
Partecipo al concorso accettando il regolamento. Sezione A
Notte
La notte del mistero più scuro.
La notte della Luna sul mare.
Il viaggio dell’astro celeste.
La sua Luce non vidi.
Memore del passato,
conservai la mappa.
Quella notte, fu la notte del canto.
Ad ovest l’America
Ad est la tempesta.
Partecipo accettando il regolamento – sez. A
Bisognerebbe partire
Bisognerebbe partire una mattina
per riprendersi i sogni o per smarrirli.
Una bisaccia basterebbe al cuore
per iniziare il viaggio e non morire.
Bisognerebbe partire una mattina
per accordare i passi con il tempo
misurando l’anima coi monti
e la speranza con la sua salita.
Bisognerebbe rischiare ogni mattina
di scambiar sicurezza con il niente
poiché il tempo che va non ci dà tregua
e quello che aspettiamo sta passando.
Bisognerebbe far scorrere la vita
senza mettere dighe di paura
perché il sorriso abbracci il suo sorriso
e sapere chi siamo veramente.
Bisognerebbe partire una mattina
prima che passi la vita sulla vita
e che alla fine tutto si cancelli.
POI SAREBBE AMORE
Sono stanche le parole
e vuoto ormai lo sguardo,
si nasconde in fretta il sole
dietro un angolo di nuvola.
In ogni ombra c’è un ricordo
e ogni attimo mi scruta
minaccioso di pensieri
che mi assediano la mente.
chiederò alla mia strada
che non torni più a cercarti
perché poi farebbe male,
perché poi sarebbe amore
ed io non voglio amare più.
*Accetto il regolamento – sezione A
Il lungo viaggio verso te(tributo a Doris Lessing)
Ho sentito
il mio cuore respirare
lungo il cammino verso i monti
del pensiero.
Ho vissuto la mia Africa,
camminato sulle dune del Sahara,
nei viaggi impervi della notte.
Ho bevuto acqua fresca,
tuffandomi sorpreso
nell’oasi della tua perplessità.
Solo li’ ho trovato
lo sguardo bieco
della fame,
le mosche selvagge che ti uccidono,
le pallide albe
da gustare all’infinito.
Nessuna guerra
mi potrà fermare!
Percorrerò sentieri arditi,
oceaniche distese di frumento.
Sarò uccello
dalle ali bianche
in cerca di ristoro
sulle fresche colline
del tuo viso.
Sezione A Accetto il regolamento
Viaggio sconosciuto nei sogni
“Anna, ma sei di più di quello che sogni!” disse Rosalba la mattina del sedicesimo compleanno della sua adorata primogenita.
Ma Anna continuava a guardare il mare frammentando una storia che la notte precedente l’aveva accompagnata sino alla mattina.
Fin dal risveglio il colore dei suoi occhi era cieco quando osservava l’esterno, tutte le energie erano predisposte per la ricerca interiore di ulteriori particolari di quel mondo in cui ha potuto vivere per una notte.
C’era un vascello, c’era un porto, c’era un capitano che indicava il Sud, c’erano due marinai, e tante scintille che cadute dal cielo diventavano pesci.
“Anna, ma sei di più di quello che sogni!” ribadì Rosalba vedendo la figlia ancora tormentata dal mondo onirico. Non poteva però non ricordare di quando anche lei era giovane e di quanto si assomigliassero, con il naso per aria ad osservare il mare cercando di scovare un indizio. Sì erano simili.
“Anna, ma sei di più di quello che sogni!”. Al terzo richiamo, Anna guardò la madre, le sorrise e rispose: “Lo so, cara mamma adorata, perché il sogno è ancora ora e non c’è alcuna differenza tra luce e ombra.”
“Luce e ombra dici? Dai preparati, oggi è il tuo compleanno, 16 anni, non sei felice?”
“Mi appartiene la felicità quanto la Luna appartiene al Sole.”
“O figlia mia, a breve giungerà la nonna, non farla preoccupare con le tue storie, va bene?”
“Va bene mamma”
Anna andò in camera sua, in quel primo piano, aprì la finestra, quella che dava sulla scogliera. E gli occhi si spensero nuovamente, aveva iniziato iniziato nuovamente il viaggio sconosciuto nei sogni.
Alberto Maiola – Sezione B (racconto breve)
Accetto il regolamento
un sogno
con la voce della soffitta.
Altre mani e altri volti inafferrabili.
Forse l’ingresso di un buco?
In cima la militanza
dei salmi per la prima strada. Anzi
nel chilometro di un autobus Loro
si sono strofinati addosso per l’immenso silenzio.
Cinque miliardi di anni. Si. Il latrato ignorante .
Ho guardato il lancio di una bottiglia.
Poi fino al giardino pubblico le rose addossate.
-Puoi ritornare a casa Ichnusa _ Direbbe il destino-.
Nessuna poesia nell’incontro della scena. Interi gli orli dei pastrani.
La porta sempre disponibile ad ogni fermata.
Scruto qualcosa verso il mare.
Un muone di luce faceva
l’angolo dietro la casa outsider .
Ci siamo alzati e seduti.
Un secondo.
Calze nere dai piedi onnivori.
In tutto nove posti rettangolari
presso il “Caffè Civile” sotto le stelle.
I grandi monumenti sfiorirono. Niente nel mondo.
-Better Ichnusa in the abdomen-.
Come un ferro di cavallo
rinvenuto durante la gita senza nome.
Accetto il regolamento – sezione A
Partecipo sezione A
accetto il regolamento
Non ci pieghiamo
Anche se il vento tira forte,
vento gelido di maestrale
ci ha forgiate,
dure come la roccia,
che si staglia imponente
e sovrasta il mare
come una regina.
Non ci pieghiamo
nella tempesta,
come giunchi balliamo
e ci chiniamo
con radici ben salde
alla madre terra,
e poi ci rialziamo fiere
con la schiena dritta e il muso
rivolto al cielo,
in segno di sfida.
Noi donne sarde
abbiamo lo sguardo
sempre
rivolto ad est,
e vediamo il sole
anche attraverso
le nuvole.
Alessandra Solina, accetto il regolamento – sez b
Amor vincit omnia
L’amore è morto.
E’ naufragato
infinite volte,
le spiagge hanno cullato
il suo cadavere
in una notte di luna dispari.
Morte naturale o artificiale
poco importa.
E’ deceduto senza strepiti
in un catino di lontananza.
Ma me lo vedo vagare ovunque.
La sua presenza
distrae il canto degli uccelli,
confonde
la direzione dei fiumi,
i poli del pianeta.
Si annida nelle conchiglie
e ripete strofe d’ambrosia
in orecchie orfane.
Trasporta carichi di rose e iris
su una carretta in pieno sole,
senza vergogna
mostra spacchi di cielo
tra nubi di porpora.
Si intromette nello sguardo
di un vecchio storpio,
trasuda da un alluce ricurvo.
Risale cime d’uncino,
traballa foglie
e miete il tempo.
Senza fretta.
Spavaldo e deciso.
Perché lui sa.
Lui sa che se una goccia fa arcobaleno,
per me
attraverserà in zattera il Pacifico
e animerà le ieratiche statue di Rapa Nui.
CI SONO DEI MARI…
Camminare sull’acqua del mare
di solito viene tanto naturale
che neanche ci fai caso:
passeggi o corri
pensando solo alla tua meta,
o al limite
a quanto è dura o morbida l’acqua…..
Ma ci sono dei mari
che risucchiano:
il corpo – con i vortici
la mente – con le attrazioni
del regno nel loro profondo.
Talvolta l’uno tiene l’altro a galla.
Talvolta s’inghiottono tutti e due.
Entro accaldata
dal sole che ho preso sulla riva
e dalla corsa che ho fatto,
impaziente di entrare…
Spargo scintille sulla superficie;
Smuovo le onde –
Chissà dove arriveranno…
A volte l’acqua bolle dove sei entrato,
A volte si scalda un po’ tutta …
Sento la freschezza
prima piacevole,
poi crescente
fino a diventare un gelo:
perché nel mare
l’ospite non è come un pesce!..
Allora l’ultimo sforzo –
E via…
Ci sono dei mari
usa e getta
che ti usano e gettano.
Ci sono dei mari
dove entro come aria nei polmoni
e ad ogni espirazione
so già che tornerò.
Veronica Liga, sezione A, accetto il regolamento.
SCRIVIMI
Perché basterebbe il seno delle braccia,
un colpo nel corridoio ventilato,
un frammento di una lettera di riscatto.
Disaggregati, come quella carta,
dai grumi rimasti uniti nel fango.
Scrivimi.
Se anche mi arrivasse una sola lettera
il significante coincide.
Nicola Matteucci, sez.A, accetto il regolamento.
Maria Carmela Dettori – SEZIONE B – ACCETTO IL REGOLAMENTO
IL TAPPETO VOLANTE
Ogni pomeriggio, in ogni stagione, qualunque fosse il tempo, da dieci anni ormai si recava sulla spiaggia, faceva una lunga passeggiata a lambire le onde, poi si sedeva sulla piattaforma del chiosco-bar vicino. E restava lì, a fissare da lontano le pieghe del mare, a seguire con gli occhi qualche gabbiano, ad aspettare il primo riverbero delle luci del tramonto. Assorta nei suoi pensieri.
E ogni giorno rivedeva lo stesso film, ogni giorno aggiungeva un pezzetto di storia, un pezzo di passato, così intenso, così bruciante e nello stesso tempo così vuoto! Gli anni trascorrevano, la loro ombra la inseguiva e lei inseguiva il mistero di un domani astratto, a cui non riusciva a dare una connotazione, ma che la lacerava dentro, ogni giorno, lì, gli occhi gettati nel fondo nel mare, era una fitta sempre più acuta. “cosa voglio io? dove vado io?”
Il senso di insoddisfazione cresceva sempre di più, quella sera, appoggiata alla colonnina in legno, che stringeva in maniera parossistica, sentiva le gocce di sangue colare vivide dal cuore. D’istinto si sollevò, le luci del meriggio cominciavano a calare, corse verso la riva e conficcò i piedi tra sabbia e sassolini, sotto l’acqua trasparente, e guardò giù… la vide, quella vecchia che la fissava, rideva e sghignazzava, le rughe spesse, invadenti ogni lembo del suo viso, piangeva e urlava… poi improvviso il silenzio, il volto vitreo, senza più alcuna smorfia, solo gli occhi, spalancati, a fare domande senza risposta. Si chinò cercando di toccare quel volto, lo raccolse, ma dalle mani scivolò soltanto un po’ di sabbia bagnata e le ultime gocce di pianto. In fondo, sarebbe stato semplice, persino magnifico, lasciarsi andare a quell’immensa pienezza, l’avrebbe accarezzata, frustata anche, riempita sino a farle male e infine… il silenzio totale! Desiderava questo?
Qualcosa di caldo le coprì le spalle.
-Signora, non sente freddo? Perdoni se mi sono permesso, ma l’ho vista tremare e ho pensato che la mia giacca di lana potesse confortarla-
Si era girata lentamente, due occhi nerissimi in una giovane carnagione un poco scura e i tratti medio-orientali, come la sua pronuncia. Abbozzò un sorriso e in silenzio continuò a guardarlo.
-Sa, anche io amo passeggiare in riva al mare prima del tramonto! Posso parlare con me stesso, estraniarmi da tutto, io e il mare meraviglioso, io e il sole meraviglioso, io e il cielo meraviglioso… sapesse quante cose ci raccontiamo! Vede quella nuvola lassù? quella biancastra, a forma di quelle che disegnano i bambini? beh, sa cosa mi ha detto poco fa? –
-No, cosa?-
-Ha cominciato a muoversi lentamente … era chiaro che voleva che la seguissi, non crede? mi diceva ‘seguimi’; ed io l’ho seguita… e mi ha portato qua-
Sorrise, ma lei non batté ciglio e seguitò a guardarlo.
-Non capisce? L’ha vista da lassù, sola e triste, infreddolita e a suo modo mi ha chiesto di portarle aiuto-
-Da dove vieni?- gli chiese.
-Dall’Iran-
-Quanti anni hai?-
-Venticinque, signora, e mi chiamo Alì, sono venuto qui due anni fa con la mia fidanzata Laleh-
-Siete felici?-
-Credo di si, signora! Ci troviamo bene qui, siamo liberi!-
Liberi, che parola magica!
-Liberi… perché non siete più nel vostro Paese, vincolati alle sue leggi e alla sua cultura?-
-In parte si, signora, ma siamo liberi perché possiamo scegliere. Le faccio un esempio: la mia fidanzata qui da voi porta l’hijab come faceva in Iran, e quando all’inizio le chiedevano tutti perché mai lo portasse ancora, visto che qui era libera, lei rispondeva “Appunto, qui sono libera: di portalo o no, di metterlo e toglierlo, è una mia scelta”-
-Alì, conosci la favola di Aladdin?-
-E chi è Aladdin?- disse lui stupito.
-Niente, un tappeto cinese volante, o forse una lampada… Ciao, Alì, buona fortuna-
Gli diede un bacio sulla guancia e lo salutò sorridendo restituendogli la giacca.
S’incamminò e ogni tanto si girava a guardare quella giovane figura che lentamente spariva nelle ombre del tramonto. Reale? Irreale? Non aveva più importanza.
Mentre rientrava le martellava un numero nella testa “54, 54, 54….. 54 anni e una vita di merda. Colpa di chi? Scelta da me! Scelta da me!”
Arrivata a casa, passò in garage, levò il telo impolverato che ricopriva la sua vecchia Kawasaki, provò a metterla in moto… e la moto con una fragorosa risata rispose al richiamo; poi, entrata in casa, senza curarsi di Giorgio, stravaccato sul divano a guardare la partita di calcio, con birra e
sigarette a fargli compagnia; Giorgio, suo compagno di vita, “compagno di vita!”, pensò, “compagno… e di vita”, sollevò le sopracciglia con un sospiro e salì in camera da letto, rovistò nell’armadio e freneticamente riempì un vecchio zaino.
-Che stai facendo, Angela?- improvvisa rimbombò la voce di lui.
-C’è una nuvola che mi aspetta e più in là un tappeto volante. Con sopra un Genio. Parto, Giorgio!-
-E dove vai? E’ successo qualcosa a tua madre?-
-No, è successo qualcosa a me, parto, il primo volo per non so dove, il primo incrocio a sinistra tra l’annichilimento e la libertà. Vuoi venire?-
-Ma che stai dicendo? certo che no! e Riccardo?-
-Riccardo ha trentun anni, ha imparato da molto a volare! Allora, vieni?-
-No! tu sei impazzita!-
-Oh si! per mia fortuna, Giorgio ….. dopo un appiattimento totale, dopo le tue intoccabili pantofole, sempre al solito posto, indossate alla solita ora, ogni giorno, domeniche e feste comandate… finalmente sono impazzita! Ho scelto, Giorgio… tu no? Faccio da sola! Ciao, caro! Dì a Riccardo che lo chiamerò, o gli scriverò-
Sull’uscio, attonito, incredulo, Giorgio ebbe soltanto il tempo di vedere schizzare via e scomparire una reboante Kawasaki vecchio modello.
MARE OSCURO
Mare oscuro,
La luce ti striscia di sé
Ma l’essenza nera
Non l’accoglie.
Viviamo con te accanto,
Mostro d’acqua,
Ti pensiamo incatenato
Come drago sconfitto,
Leviatano dormiente,
Capro legato,
Sentina piena
D’ogni nostro peccato.
Distogliamo lo sguardo,
Ma in ogni dove
Sentiamo il soffio
Del tuo respiro.
Vorresti tu baciarmi
Sulle labbra immote,
Rapirmi al rumore
Che la mente confonde?
Strappami via dal nido
Di ragnatele,
Liberami il corpo e l’anima,
Sii il cavaliere impossibile
Almeno per poco.
Lasciami nel deserto
Dove risponderò solo
Dei granelli gialli
che la mia ombra calpesta.
Antonella Albano
Accetto il regolamento
Maria Carmela Dettori- SEZIONE A-ACCETTO IL REGOLAMENTO
SULLA BATTIGIA VAI MORMORANDO
Tienimi per mano,
sarà nostro
il silenzio del tramonto,
accarezzo i passi della mia terra
sul tuo merletto di filigrana,
mentre scivola sulle ciglia
una vagabonda goccia
in questo cielo senza vento,
quietudine fresca
dell’onda sulla muta sabbia.
Mi osservi,
con i tuoi occhi di mille lune,
assenti e vigili,
ti fai vascello e culli
le mie malinconie,
è mio, questo tuo sguardo,
azzurro e trasparente,
che mi trafigge
e mi scorre dentro,
sangue delle mie emozioni.
Sul mio foglio bianco
mi trastullo,
mentre ascolto le tue risa,
e il tuo lamento,
brusii sommersi, che scivolano
sulle trame della tua memoria,
luci di stelle
che accompagnano il canto
di chi porta l’approdo
nel suo destino.
Da questo crepuscolo,
bagnato del tuo argento,
sulla battigia a sera,
mare, vai mormorando.
IL MIO E’…UN TAPPETO VOLANTE
Per averlo ho attraversato un po’ di mondo;
mi parlava del futuro
e il suo profumo rubava rossi frutti ai rovi.
E’ passato il vento
sfiorando il grigio scolorito dei muri delle case,
dei sonni inquieti
e il mio tappeto ha preso il volo
scoprendo ricchezze e sogni di libertà!
China per non cadere
dal morbido arazzo
solo silenzio nella nebbia soffusa,
nel sole velato, nel tramonto di rame,
poi la notte e in basso
un miraggio di pace.
Volano foglie secche sui fili del bucato
e nelle stelle i tuoi occhi sulla città che dorme.
L’avanzata dell’inverno:
gelida brina, un timido ruscello,
la pioggia che accarezza sorrisi
e si confonde con le lacrime,
poi la neve nei giardini…
e tutto intorno il mondo è più bello!
Il merlo, la tortora e il loro eco…
Il mio tappeto volante è magico nelle favole,
triste sul pavimento;
fine del viaggio
ma se socchiudo gli occhi
sogno e riparto!
Sez A – accetto il regolamento
Una pinna azzurra
Nuotava ogni giorno alla stessa ora, nello stesso posto, una baia quasi un cerchio, di circa un chilometro di diametro, Lo faceva indossando un paio d’occhialini, di quelli da piscina, senza le pinne. Affermava che potevano far sorgere dei crampi. Conosceva il fondale della baia compresi tutti i punti sullo stesso ove allocavano i massi tenuti da una cima che terminava con un galleggiante. Solitamente aggirava le boe e si dirigeva, nuotando, verso la punta estrema della baia che dava a ponente. Prediligeva quella punta poiché il vento che spesso spirava era il maestrale e da quella parte il mare era sempre più calmo nei frangenti. Quel giorno era sceso in spiaggia qualche ora prima, per questioni personali. Si trovava ora sulla spiaggia ed osservava la baia. Quella era un’ora in cui il mare era piatto poiché la brezza cessava ed attendeva i venti che sorgevano insieme al sole. La baia era deserta, né una barca, né un nuotatore. Nemmeno i soliti bimbi che giocavano a riva. Aveva un remoto riserbo ad avventurarsi sino alla punta a quell’ora. Non temeva niente di particolare ma era semplicemente una condizione che non aveva mai sperimentato. Indossò gli occhialini e si tuffò. L’acqua gli sembrò subito diversa dal solito, come temperatura, ma nell’affondare le braccia nuotando è come se notasse una diversa densità. Nuotando, spesso, alternava le bracciate automaticamente senza osservare il fondo o dove si stava dirigendo. Lo faceva così spesso che ormai quasi n’aveva l’automatica sensazione della direzione presa. Non pensava a ciò che avrebbe potuto incontrare in mare ma pensava a tutt’altro. Era come se fosse in trance, andava col pensiero attraverso situazioni o emozioni provate cercando di dare un significato a ciò che i pensieri gli comunicavano. A quel punto doveva essere già arrivato alla meta. Uno sguardo intorno, sempre sotto la superficie, gli fece intravedere gli scogli che iniziavano ad indicare l’istmo su cui sostare. Cercava l’approdo ora, rallentata la nuotata, su di uno scoglio sgombro di ricci.
Una pinna azzurra! Veloce! in lontananza verso il largo. Era arrivato sullo scoglio e non fece caso ad essa. Pensò d’essersi sbagliato. Si riposò un minuto e riprese la via del ritorno. Il fondale in quel punto era sui cinque metri. La visibilità aumentava col sole che si alzava. Solitamente il ritorno era più piacevole, scioltisi i muscoli all’andata. Il tragitto era effettuato in minor tempo senza affanno. Superò le boe e deviò verso la spiaggia. Qualche minuto e sarebbe arrivato a riva. Al metro d’acqua si fermò e inizio a camminare verso terra. Da terra, a circa 20 metri, vedeva persone che agitavano le braccia e gli gridavano qualcosa. Cosa avranno mai da dire costoro? Penso! Forse salutavano! Ma erano troppo affannati a farlo ed egli non capiva cosa volessero da lui. Se n’accorse l’attimo successivo. Un rumore alle sue spalle lo folgorò! Pareva quello di uno scafo a motore che improvvisamente avesse cambiato direzione. Ebbe appena il tempo di girarsi e quasi non credeva a ciò che aveva appena intravisto con la coda dell’occhio. Una breve onda provocata dal mezzo lo investi, ma il mezzo non lo vide. Non era sull’acqua! Era dentro l’acqua. Una massa nera di circa tre metri correva ora verso il largo, forse timoroso di essersi avvicinato troppo a riva. Lo aveva seguito per un po’ e dalla spiaggia se n’erano accorti. Cos’era? Pensò: ” forse una sirena”.
– Accetto il regolamento – sez B
Mediterraneo
Di spartano sapore le tue sponde
immutato specchio di terre all’orizzonte.
Ora Greci ora Bizantini
vennero a solcarne l’onde.
Insieme ai levantini
fusero per sempre i loro geni
finanche i temuti Saraceni.
In un mare comune ci specchiamo
ora distanti
come fratelli spartiti dal destino
nel rivedersi o ritrovarsi senti
il fiato d’un germano
e il mare che nutrice abbraccia tutti
ci plasma e ci modella coi suoi flutti.
Ci accomuna il mare!
Ci accomuna il mare coi suoi frutti
comuni i suoi colori
che tornano ridondanti in ogni dove.
In ogni angolo di questo nostro mare
ritrovi del natio i propri odori.
Si affacciano bianche sulle sponde
le case ovunque
stesso il mormorio dell’onde.
Se poi ti appresti per le strette vie
d’un di quei siti che candidi coronano le coste
ritrovi stessi visi, stesse melodie
del vivo affaccendarsi dei tuoi posti.
Sez. A – Accetto il regolamento
Andrea Lo Chiaro
sezione B – Accetto il regolamento Scrivimi.
Non lontano
Lucia era nata nel borgo di San Pantaleo non distante dalla costa nord. Il vento nella notte della sua nascita si era placato dopo settimane. Sua madre Irma ritenne che fu un buon presagio. Lucia non ha mai conosciuto il padre, cinque mesi prima della sua nascita si è imbarcato in un peschereccio per guadagnare qualche soldo ma, al rientro del peschereccio, quel bel ragazzo dagli occhi verdi non era sulla nave. Invano Irma chiese notizie, nessuno ne ebbe il coraggio. Guardavano solo il suo bel pancino e cercavano un’osteria per bere e mangiare qualcosa con la speranza di ricever attenzioni femminili.
Lucia conosceva un’altra storia, la madre le raccontò che suo padre morì in mare per salvare un caro amico.
Lucia ora aveva sette anni ed ogni mattina andava a scuola sognando quell’eroe, suo padre, che aveva incontrato una morte così onorevole. Tanta era la sua fiducia che non prendeva in considerazione le prese in giro dei suoi compagni, lei sapeva la verità – ripeteva spesso a se stessa.
Ma la verità è che non lontano quel bel marinaio dagli occhi verdi si era creato una nuova famiglia, aveva due figli maschi gemelli di appena sei anni. Una casetta ed una moglie.
Capitò che al quindicesimo compleanno di Lucia, Irma decise di fare un breve viaggio con sua figlia ed il caso volle che sulla spiaggia incontrarono Luigi.
Fulminea Irma lo riconobbe subito. Ed anche Luigi non poté scordare la donna che aveva ingannato tanti anni prima.
L’amore di sua figlia però vinse la rabbia ed al ritorno in paese ringraziò Dio di averle concesso una benedizione così grande.
Piero Baroni
Sez. A accetto il regolamento
L’Onda
Ascolto il mare
che mai sa darsi tregua
e cento…mille volte
l’onda getta
senza fretta dal buio verso riva
corre il pensiero
alla mia vita
a cento…mila giorni
ormai gettati
di sole e giovinezza colorati
cercando il tempo che li ha sbiaditi
schiarendo l’ombra che me li ha rubati
pagine preziose accartocciate
da lame di ricordi un po’ stracciate
ora respiro nebbia che mi appaga
nello sciacquio il suono della vita
che tutto placa
culla le ferite
sfinita l’onda torna ad esser mare
ma tornerà ancora a riprovare
riccio geloso il cuore ora si stringe
a salvare quel poco che rimane
piange guazza la notte
che già stinge
lucciole perse sui sentieri del mare
luci struggenti ondeggiano
lontane
verso nuovi orizzonti a navigare.
Di vento di sole di mare (accetto il regolamento sez. B)
Sono ore decisive , l’ostacolo maggiore per Martina è attendere gli adempimenti burocratici. Da qui in avanti dovrà valutare bene le scelte a sua disposizione.
Ha ancora un grosso livido violaceo ben visibile sulla coscia destra. Due mesi prima, dopo una lite con suo marito, era finita al pronto soccorso per varie contusioni subite, era stata trattenuta in ospedale per timore che ci fossero delle lesioni interne e muscolari.La sua ira era esplosa quando Martina le aveva comunicato di aspettare un bambino, non si sentiva pronto, essere padre comportava grosse responsabilità,avrebbe voluto che sua moglie abortisse.
Martina ora coltivava il desiderio di rifarsi una vita, col divorzio sarebbe finalmente arrivata la serenità. Con la mente sovraffollata di pensieri, camminava lungo il bagnasciuga, intanto definiva dettagli della sua vita.
Da quando aveva deciso di lasciare quell’uomo violento, si sentiva rinata. Si sedette sulla sabbia, le mani appoggiate sulle ginocchia, guardò a lungo il mare nel tentativo di contenere il dolore legato ai ricordi. Ancora le mancava il respiro.
Leggere folate di vento, giocavano con i suoi capelli e con le onde che facevano dei salti per rincorrersi e sparire. Nella vita non si sa mai cosa può capitare, si potrebbe anche iniziare ad essere felici pensò. La vita è come un onda che va e che viene,si increspa, si infrange, sparisce e si rinnova.
Quell’ angolo di mare era il suo nascondiglio preferito, il luogo in cui ritrovare l’ equilibrio.L’acqua incontra la terra , nell’infinito il cielo si appoggia sul mare. Nella feconda terra Martina vede la speranza , in quella stessa terra dove uomini e donne hanno versato sangue e continuano a versarlo. Rabbrividì alla brezza, si guardò intorno per godere dell’ equilibrio perfetto, con un umile gesto, mise protettiva una mano sul ventre dove riposava il suo bimbo, sorrise vinta dalla dolcezza,si abbandonò al rumore delle onde e si lasciò cullare.
Sensazioni (accetto il regolamento sez. A)
Il vento
trasporta la melodia del mare
note liete di bonaccia
travolgenti di burrasca
son le onde della vita
sensazioni…
S’infrange sugli scogli
tutto muta
si compone l’assoluto
riprende la sua corsa
attraversa l’anima
dà voce al cuore
esplode il canto.
da “Amore a piene mani”
edito dalla NOSM 2017
Mirra Fernando – Sezione B – Accetto il regolamento
La ragazza del melograno
Osservavo da quella posizione privilegiata sulla finestra della camera da letto. Il mare, quella coperta blu che non ho mai voluto maledire, ma che non ho mai smesso di amare. La tua lettera brucia ancora tra le mie dita per le sue parole, per quello che il tuo ingenuo cuore pensava, senza conoscere né il suo significato, né quanto sarebbe rimasto.
“Mi sto perdendo a guardare il fuoco. Mi sa che faccio un thè e riprendo a leggere. Tanto tu avrai da scrivere le tue 3000 parole notturne.”
E chiudi con la tua firma leggera ma io ti vedo che senza troppa fretta rincorri le ciabatte e te le infili mentre cerchi limoni, coltello e thè. Lo hai sempre bevuto amaro, lo hai sempre assaporato fingendo che fossi ancora a Londra, immersa tra le tue amiche che ti consolavano e ti dicevano di non preoccuparti. Quello stronzo non avrebbe più fatto parte della tua vita. Ma ti girava la testa, un calo di zuccheri, un malessere ordinario che ti stringe alla testa e un cappio al cuore stretto da una mano invisibile che avresti voluto tagliare. Hai scansato le sofferenze disegnando il tuo sorriso giorno per giorno, avvolto da una nebbia di confidenze che ti si sono ritorte contro. E sei tornata nella tua Sardegna, mentre ancora avevi il cuore avvolto dalle fiamme e disegnavi il tuo cielo, nascosta nella cabina. Poi tutta la tua anima veniva svegliata da un improvviso accelerato battito del cuore. E tornavi su e affacciata al parapetto e guardavi giù. Non importava il tramonto, le ore di rollio, la valigia rotta in più punti e quel dolce dolore al ventre che sembrava chiamarti, ma che non ti faceva dormire.
Hai scritto molto, da quando ti sei imbarcata.
“Volevo tornare prima, ma ti saresti stupito e chissà cosa mi avresti detto. Ma ho nostalgia della mia terra, del mangiare e della polvere che si alza, del rumore del treno e di quella voce metallica che annuncia l’arrivo del traghetto. Un sottile smog mi ha intossicata. Ma grazie. So che mi aspetterai. Mi dispiace che la tua ragazza non possa venire a prendermi… se solo sapesse, non ti lascerebbe uscire. E quel melograno che d’inverno riempiva le mie mani e la maglietta messa a conca, per prendere più frutti possibili… Lo voglio abbracciare come si fa con una persona cara che non vedi da tempo… ma prenderò per mano te, prenderò il tuo brutto naso che casca come un amo da una canna e mi divertirò a parlarci assieme. Ti voglio ignorare per guardare la mia sabbia, il mio mare… Io voglio bere il mare, il mio mare. Aspettami.”
Questa era più bella. Lo guardo anche io il tuo mare. Lo chiamavi “tuo”, come se ti appartenesse, e di cui eri gelosa. Il melograno non c’è più, ma c’è quel ricordo che ha nutrito la terra, i tuoi passi che alzano quella polvere che d’inverno o d’estate riesce a resistere in aria e che respiri senza fatica, senza problemi. E sei tornata. Valigia alla mano, l’altra si grattava la testa. Continuamente guardavi freneticamente a destra e sinistra.
“E adesso?”
Non c’era. Qualcosa o qualcuno lo aveva trattenuto e tu lo sapevi, che tanto era così. Da sola. Londra-Cagliari. Un bel tragitto non c’è che dire. Hai avuto coraggio, hai avuto paura. Quando te ne sei andata hai avuto coraggio, tornando avevi solo paura. È per quello che ti sei rivolta a quella persona che non aveva visto di buon occhio che tu partissi. Gli hai scritto lettere ordinarie, meravigliose, cartoline farcite di ottimo inglese e di faccine sorridenti. Be happy my friends! Think about me… Miss my Sardinia… Dopo un po’ ti sei chiesta perché. Ti amava e tu non lo sapevi. Sei partita e hai trovato quello che cercavi… ma le cose come una ruota panoramica prima vanno in cima e poi scendono e il panorama che hai guardato per un attimo e ti ha tolto il fiato sparisce… Hai continuato a scrivere e a forza di risposte, chissà cosa è capitato: ma è possibile innamorarsi così? Sì, evidentemente sì. Ma sei tornata. Sei andata al melograno e ti sei addormentata sotto. Lui aveva scelto qualcosa d’altro. Forse più sicuro e… ma che cosa ne posso sapere io? Ti sei aggrappata come le unghie di un gatto che gioca col tuo dito. Ma per non sentirti troppo debole hai voluto darti un’altra possibilità dopo quello che era successo. E così hai scritto qui, nella tua amata terra, a quel ragazzo che aveva scelto un’altra strada. E ancora una volta vieni svegliata da quel dolce dolore al ventre che ti chiamava. Dopo aver accarezzato ancora il tuo albero, lo hai abbracciato, così come si fa con una persona cara. Sei andata al mare, a quella coperta blu che non ti aveva mai tradito e sorridendo come una pazza, tutta vestita ti sei lasciata cadere come su di un letto. Galleggiavi, sorridevi, rinascevi. Me lo hai raccontato milioni di volte. Ma anche se non ci sei più, te lo domando lo stesso: un po’ hai pianto?
E mentre cercavi di lavarti via tutti i pensieri, immersa, onda dopo onda, parlavi.
“E va bene… prendiamo la cosa come va… Ti piace il mare?”
Ti rivolgevi a me, mentre ti accarezzavi la pancia…
Mirra Fernando – Sezione A – Accetto il regolamento
TAZZINA DI CAFFÈ
Tante ne avrei bevute
Mentre in silenzio portavo segreti
Nuvole calde che mi inviavano messaggi
Nel treno, seduto, il vagone di riflesso nel vetro
Saluta con stanco soffrire, nel cielo.
Fermata dopo fermata, come sorso dopo sorso
Da una tazzina di caffè, ogni volta che la porta si chiude
E mi porta a destinazione
Mi immergo nel pensiero del mare distratto
Che schiaffeggiato dalla prua sento dal ponte
Non vorrei essere che qui, e che tu mi aspetti al di là delle servili onde
Di un solido, accecante, fremente motore
Che è il mare che nemmeno al suo fondo rimane immobile
E l’ancora che ora mi frena, diventa salvezza man mano che la terra si avvicina.
LAMPEDUSA, LONTANO DAGLI OCCHI
Un castello di avanzi di barche
ammassi di legno, metallo e ruggine.
Stracci, vesti, scarpe, bottiglie
col tempo il mare riprenderà tutto.
Se non osservi da presso
non puoi penetrare fino in fondo
ma forse inconsciamente lo scegli
per non essere costretto a pensare.
L’isola non è spazio chiuso anzi
Il mare si apre a tutti aprendo le menti
Non puoi erigere muri in mare
e gli isolani neanche vorrebbero.
Il nostro è un mare bambino
una immensa vasca d’acqua
da sempre seduti di fronte a loro
eppure abbiamo paura.
Arrivano nudi, sporchi, stremati
gli occhi aperti non significano vita
portano una foto, un credo, un sogno,
resti di vite sorprendentemente vere.
Vincenzo non si sente eroe
eppure ne ha strappati dodici al sale
lo avrebbero fatto tutti sussurra
solo rabbia per non aver fatto di più.
La gente dell’isola è santa
apparecchia sotto le verande
ragazzi esausti si siedono, mangiano
è tutto cosi normale e straordinario.
In barche minuscole spinti come molle
lo sa bene Pietro che li cura
lotta affinché tutti abbiano il diritto
di vivere come l’abbiamo noi.
Ci vuole coraggio
un immenso coraggio per partire
eppure domani loro e noi
riempiremo le pagine dello stesso libro
E quando un bimbo ci chiederà
se noi c’eravamo in quel tempo
ci scopriremo a mentire
urlavano ma lontano dagli occhi.
– sez. A – accetto il regolamento
EXODUS
Sono cieco di luna,
di cielo, di stelle,
sento il mare ondeggiare
in questo buio angusto
in quest’immobile apparenza
che al largo mi sospinge.
Con me solo il mio passato
e il desiderio di un approdo.
Ciglia incrostate di sale
nostalgia che gonfia il cuore
la mia storia è un’orma sulla sabbia
un granello ormai spinto dal vento.
Portami lontano, mare,
là dove finisce l’orizzonte,
intreccia i lamenti alla spuma d’argento,
all’ignoto e a te mi affido
in questo viaggio.
Accetto il regolamento – sez. A
silvana sonno – sez. A – accetto il regolamento
Il tempo dell’attesa
Conta le costole,Giona – dice il poeta*
così non smarrirai il ritmo delle ore
conoscerai il tuo tempo e ti saprai
vivente, nel tempo dell’attesa.
Conta le costole e intanto raggruma i tuoi ricordi
tra tutti, quando nuotavi cucciolo nel mare
e una lama di luce t’arricciava i capelli
e quando, stanco di nuotare, chiamavi
a sostenerti l’onda chiara, e sorridevi
al sole al cielo e agli uccelli marini
presagi d’ altri lidi.
Avevi tempo, allora, e sorridevi.
Poi il mostro s’è levato dall’acqua, e un vorticoso
risucchio ti ha aspirato nel ventre della bestia
e nel fetore, così a lungo stordito
hai immaginato d’essere mai nato.
La memoria erosa dall’oblio
sfugge la porzione funesta della vita
ma precipita in caduta l’integrità di te
e dentro te preme invece un istante felice
liberato dai luoghi e dai nomi del dolore
che ti chiama al ricordo
Conta le costole, Giona, e senti il tempo
senti che scorre anche dentro il mostro
che rugge e spande i suoi lamenti
e i tuoi, nel tempo dell’attesa.
*Riferimento al poeta statunitense Dan Albergotti e al suo testo
Things to Do in the Belly of the Whale
CERCAMI NEL MARE
Frantumano il cuore amori strani e impossibili
amori che lacerano la vita
coprendoli di pensieri a cui non sai dar risposte
ma la certezza è stretta in quell’anima
chiamata MARE.
MARE ritrovato ogni volta
che libero il pensiero a quello scoglio
dove provo a vivere le più belle maree
di questo intenso cielo e felice grido il mio amore.
Il MARE che mi spiega una emozione .
Il Mare come il pensiero
lascia la libertà di decidere dove andare .
Allora lasciatemi amare il mare quando è in tempesta
per regalarvi la montagna che nel cuore porto.
E non cercherò nel Mare di parole
ciò che manca al cuore
ma cercherò le parole del Mare
per avere la certezza d’amare
come una poesia arrivata da un anima .
Quando mi cercherai….
vai verso quell’orizzonte
che unisce il cielo e la terra per diventare il mare..
sarò li con la mia anima,
perchè il mare è come la musica,
regala allegria seguendo onde di note
urlate al cielo.
Quel cielo che mi fa innamorare
ancora una volta di questa splendida emozione.
Accetto il regolamento. Sezione A
Silvana Sonno sez. B – accetto il regolamento
Tramonto
La spiaggia era deserta,quasi desolata,con le cabine scrostate e i sostegni degli ombrelloni abbandonati a terra, ombre smorte sulla sabbia grigia e uniforme. Una nuda striscia di terra incolore, come fuori del tempo, emersa prima della luce e dell’impero delle forme, e le alghe e i resti portati dal mare contribuivano a renderla una realtà a parte, separata dal resto del mondo.
Il mare però era bello. Non calmo, ma azzurro, profondo, immenso; le onde vi si rincorrevano spumeggiando e ogni tanto qualche cavallone più grosso si spingeva oltre la linea del bagnasciuga e le lambiva i piedi. Le voci dei gabbiani graffiavano il cielo in un canto di gemiti, una lacerante acuta preghiera. Uccelli spazzini, i gabbiani -lo sapeva -, attratti dai rifiuti del mare e della spiaggia, eppure il loro volo, tra i profili delle larghe ali biancoargento, la richiamava a un’antica presenza di angeli e se ne sentiva protetta, pacificata.
Eppure, a pochi metri di distanza c’era la strada, e il traffico convulso, e le grida della gente.
A lei piaceva quel luogo e veniva spesso a sdraiarsi sulla rena umida, a sentire la brezza marina scompigliarle i capelli, e l’odore di salsedine pungerle le narici. Se ne stava così, per lunghi momenti immobile, in un desiderio profondo di uniformarsi al paesaggio, di entrare a farne parte, quasi annullandosi anche fisicamente, cercando di diventare sempre più piccola, se possibile: niente più che un ciottolo grigio, levigato dall’acqua, o una conchiglia sperduta sulla sabbia.
E alle sue spalle c’era il mondo,la gente, la confusione.
A lei piaceva guardare lontano, dove il cielo e il mare si uniscono e le nubi e le onde sembrano tutt’uno, e gli uccelli e i pesci diventare partecipi di una medesima realtà. Lo sguardo a lungo fisso si faceva allora confuso, il senso delle cose si smarriva, e mentre in lontananza si smorzava la melodia lieve del vento, nel sopraggiungere del silenzio poteva avvertire il canto della vita, dolce e potente. Il mondo alle sue spalle si consumava nella fenesìa dei singoli momenti, la sua voce gracchiava scomposta e nessun richiamo le suonava attraente.
Solo l’abitudine al ritorno le faceva girare le spalle al mare e rimmettersi nel traffico anonimo e violento della città. I piedi la conducevano come piccoli demoni protettori e le consentivano di non indugiare quell’in più necessario al compiersi di quanto il suo mormorio interiore le chiedeva. Scegliere il tutto per diventare nulla, l’eterna impermanenza delle nuvole e delle onde, al posto dell’opaca dolente contrattura della materia. Il suo corpo. I suoi pensieri.
Sapeva che sarebbe tornata sulla spiaggia, sapeva che il mare l’attendeva.Il mondo alle sue spalle avrebbe continuato la sua corsa. Lei non era indispensabile a nessuna delle due realtà e per questo il suo passo si consumava in un andirivieni inetto e la sua mente affogava negli arabeschi di immagini forse soltanto sognate. Ma sentiva con certezza che il suo tempo si stava allineando con quello delle cose e degli esseri di cui stava imparando la melodia. Qulla canzone era una garanzia di salvezza … doveva solo attendere ancora un po’, finchè le parole del testo avrebbero risuonato chiare in lei e l’avrebbero richiamata dentro il vortice stesso della vita a cui anelava. La sua propria brama di vivere l’avrebbe presto condotta al luogo a cui era destinata. Allora, forse …
Un lungo stridìo lacerò i suoi pensieri e li confuse in un viluppo turbinoso, prima di disperderli nell’aria; l’ultima luce del tramonto li risucchiò, infine, nello sfavillìo purpureo del cielo che annottava. L’automobilista dichiarò di aver visto solo un’ombra.
SEZIONE A – POESIA
ANNA FRESU
ACCETTO IL REGOLAMENTO
MEDITERRANEO AMARO
Quel mare
dell’infanzia
fatto di trasparenze
e seduzioni.
Quel mare
che apriva
il mio sguardo
ad orizzonti nuovi
desideri e scoperte,
ad avventure.
Quel mare
che ho continuato
ad amare
e a sognare
nella lontananza.
Quel mare
si è fatto amaro
nel presente,
in questo presente
di illusioni,
speranze disattese,
vite rubate.
Questo mare
che non è più
abbraccio,
conoscenza,
fatto amaro
dall’egoismo
e dall’indifferenza.
Quel mare-madre,
liquido di vita
e di rinascita,
ora rosso di sangue,
non di coralli
o di stelle marine.
Quel mare
culla di civiltà
e di leggende
di cui parla la Storia
ed il ricordo.
Non più luogo di sogni,
fatti incubi.
Ultimo approdo
dell’umano patire.
SEZIONE B – RACCONTO
ANNA FRESU
ACCETTO IL REGOLAMENTO
UNO È IL MARE
Uno è il mare. Non conta se lo chiami MEDITERRANEO o PACIFICO, o AZOV. Il mare è uno. Acqua. È lì che siamo nati e, a volte, moriamo. Naufraghi di terza classe in navi di lusso o ammucchiati su zattere impossibili.
La bussola è sempre la stessa. Speranza, la chiamano. Avvenire, fuga, sempre. Da che cosa? Dalla fame, dalla guerra, dal tradimento, dall’orrore? Da tutto questo e anche di più. L’altro nome è nostalgia.
Una striscia lunga di sabbia, dune, macchia. Un’acqua che a quest’ora non ha colore.
Un vecchio e un uomo, poco più di un ragazzo. Passeggiano sulla spiaggia. Si fermano. Guardano lontano. Ricordano.
Si passano accanto, indifferenti.
Ognuno con la sua storia, che è quasi la stessa.
Rossana Bacchella – Sezione A – Accetto il regolamento
Carezza agli scogli
Una linea si muove e lenta
disegna il drappo dell’acqua.
Acqua marina
-tarlo di madre-
l’ultimo fiato ti stuzzica
oltre il sinuoso limite e
sfrigoli, t’increspi, frammenti,
docile varchi il confine,
e tramuti.
Olio morbido e grasso
nell’ultimo raggio di sole
felpato su nubi da velo di culla
la trama più lasca
a losanghe
e quadrati,
s’intreccia e tesse, col sole
ormai rosso,
fiabesche illusioni dell’occhio.
Con onda leggera e mai stanca,
dal vago e remoto orizzonte
approdi a un lembo di cosmo
che -tronfio- s’arroga il sapere,
attingi vigore dai sogni
e lieve ti struggi
in sommesse carezze agli scogli.
I COLORI NON PIANGONO
Limpide stanchezze d’amore
inebriano i movimenti dissonati
della tua lucida presenza.
Il desiderio resta agonizzante.
Negli aromi notturni
cerco l’essenza del tuo volto
sotto opachi riflettori di vita.
Ma tutto tace.
Tace questo orlo di strada.
Tace il lungo respiro dell’anima.
Tace il pianto dei tuoi occhi.
I colori non piangono,
incupiscono negli occhi della vecchiaia
là dove una luce fioca risale lentamente
il fitto buio di una stanza.
I colori non piangono,
respirano attraverso una porta socchiusa
e riflettono dolcemente nella fonte del silenzio
come petali splendenti di rubini e topazi.
sez. A -accetto il regolamento –
Rossana Bacchella – Sezione B – Accetto il regolamento
MARE NOSTRUM
Sì era il 3 ottobre dell’anno 2013. Come dimenticare quel giorno! Solo il primo di tanti altri di cui si ha ancora meno memoria. Lo so, avrei dovuto rispettare le mie leggi, ma, per dio, non sono un cimitero!
Nella mia immensa memoria liquida vagano o s’adagiano sul fondo relitti, mummie, foto, bambole, documenti, coperte, cellulari, veli, Tasbeeh a 33 grani più uno, da viaggio. Sono abitato dall’orrore, non mi ci so abituare. Ma ancor peggio sono le voci rimaste intrappolate nei miei cristalli di sale che non mi danno pace. Voci di nessuno se voci senza nome. E allora voglio dar loro un nome e affidarle, perché le portino nel mondo come un mantra, perché non vengano scordate, per non essere solo ad ascoltarle, ai venti.
“Uno stupro sopra un altro mi ha svuotato la pancia appena riempita di una vita non cercata, la costa è lì, la vedo, devo sperare, affrontare la vergogna? No, la vergogna sarà di altri. Io fluttuo leggera. E non ho scelto.” Dal profondo del mio cuore blu è uscito per te il nome Tahira, che vuol dire Pura. Ti raccomando al Grecale perché il tuo dolore non sia mai scordato.
“Appena partiti da Misurata siamo naufragati e ho rivisto le carceri di Libia, passi da gambero nella paura. E se anche da Lampedusa mi cacciassero? La mia anima non sopporterebbe nuovo terrore. Meglio la morte.” Ti ho chiamato Wa’el che significa Colui che ritorna. Vola lieve sulle ali di Zefiro, Wa’el, per raccontare la paura.
“Avvinghiata a nuovi fratelli e sorelle di viaggio sono in un solo grappolo deforme di speranze trafitte. Tanto precise sono le frecce di chi mai ci ha voluti vedere?” Era a 1852 bracciate dalla costa e, abbracciandola, le ho dato nome Muna, significa Desiderio. Poiché ormai vederla è impossibile, voglio che venga ascoltata. Confido in te, vento di Mezzogiorno.
“È forse il canto di corteggiamento delle balene azzurre quello che sento? No, viene dallo scafo sul fondo, sono i lamenti acuti dei compagni che inondano la mia testa e mi perforano il cuore.” É emerso gonfio, al largo, attorno al capo aveva una corona di scarpe, enormi e minuscole. Difficile scordarlo. Per me ormai è Latif, uomo Gentile. Che dalla tua testa, Latif, si levino quelle terribili voci nel vento di Levante.
“L’aveva detto Helmi, sei pazzo, è un suicidio? Lo è anche il servizio militare a vita, gli ho risposto. E mentre speravo di diventare umano, hanno fatto di me merce.” Questo è Junayd, Giovane lottatore, te l’affido Maestrale, per mostrare alle genti la via maestra.
“Camminando nel deserto avevo una gran sete di mare, ho chiuso gli occhi e il movimento è diventato di culla nel grembo di mia madre. E là, ora, dopo infinite crudeltà e inganni, torno.” Gli ho dato nome Bilal, colui che si è Dissetato. Per ricordarlo, portalo con te, umido Libeccio. E sazia la sua sete.
“Ho lascito andare la merendina di Nawal, ho lascito andare anche Nawal, tra le mani candide di una straniera. Quando l’ho vista ho capito subito che le avrebbe dato un’altra merendina.” Ti ho chiamata Salima, che significa Salva. Per non scordarti ti affido allo Scirocco che, chissà, forse è il vento della tua terra.
“L’ho vista spogliata a forza, nuda per la prima volta. Tahira era mia sorella e per tutto il viaggio non l’ho più guardata, non l’ho curata dalle ferite, ma di continuo ho ascoltato il suo pianto. E ora, che la vorrei abbracciare… è troppo tardi.” L’ho chiamato Jihad, Sforzo sulla via di Dio. Per averne memoria, soffia lontano il suo pentimento, vento di Tramontana.
Ho visto passare Ulisse, Enea, Amilcare il cartaginese. Mare Nostrum era il mio nome per greci, turchi, tunisini, siriani, egiziani, libanesi, algerini… e per italiani, francesi, spagnoli…
HIC SUNT LEONES! Non dove credevano gli antichi.
Lo so ho le mie leggi… ma con un’onda leggera poso Farida su un ruvido legno e la cullo dolcemente, come avrebbe fatto la madre che da lontano la chiama: Farida! Farida! Faridaaaaaaa
E così ho infranto le mie leggi per Farida, Perla rara. Non sono un cimitero!
Sezione A – Accetto il regolamento
ALBA SUL MARE
E’ un’alba chiara questa, che disperde
le mie malinconie e le tristezze
è un cielo terso, un’acqua cristallina
fresco ristoro nella calda estate.
Nel soffio lieve d’un breve sospiro
mi strizza l’occhio gioioso il mattino
e mi riaccende fremiti di sogni.
Scioglie il silenzio la magia di un canto
fischia il vento un’arcana melodia
insegue l’onda che scintilla al sole
e che regala spume alla battigia.
E volo tra fioriti arcobaleni
qui, dove l’alba ha sapore di miele
e ancora il cuore vibra di speranza.
SPOTO MARIA
SEZIONE A
ACCETTO IL REGOLAMENTO
TACE IL MARE!
La brezza marina
accarezza i miei sogni,
le onde spumose
lambiscono i miei pensieri,
voli di gabbiani
mi invitano
alla speranza!
Guardo il mare…
Vedo volti
allontanatisi
da terre
che sanno
di fame e schiavitù,
di terrore e guerra.
Vedo
mani desiose
di afferrare
la vita
intrisa
di rischi e speranze.
Rivolgo lo sguardo
all’acqua…
Un brivido
mi assale,
grida disperate,
pianto di bimbi
e … forse
una preghiera
io sento.
Quanti innocenti
giù nella profondità
del pelago!
Tace il mare.
Tacciono i cieli.
Solo il mio cuore
un pensiero
all’Eterno
eleva.
sezione A accetto il regolamento
INVIDIO IL VENTO
Invidio il vento.
Alito forte della tempesta,
umido di pioggia e fragrante di mare,
capace di squassare il mondo,
di sovvertire l’ordine metodico delle cose
con una potenza pari soltanto
a quella della parola.
Forza cosciente capace di sfiorare
un fiore senza coglierlo,
portando con sé soltanto
il profumo che racchiude per donarlo al mondo.
Invidio il vento,
energia che nessuna rete può trattenere,
che inquieta le notti con sbattiti
di imposte e cigolii di porte,
che spinge le navi fuori rotta,
che increspa le onde in un esercizio eterno,
che trasporta lontano senza mai scernere,
tra un grido di dolore o il sospiro di un amante.
Il silenzio …
Il silenzio può saziare,
può colmare,
permette l’accesso al sé,
lì dove è possibile giungere solo
a chi sa avanzare,
con calma,
con tempo …
Il silenzio non dura a lungo,
se non si sa aspettare,
va cercato,
chiesto,
condiviso,
rispettato.
Il silenzio può creare unità,
sintonia,
fiducia,
fraternità,
anche se si ha davanti
una folla sterminata di persone.
I giorni possono passare,
ma non il silenzio,
esso sta alla porta,
attende,
non si stanca d’aspettare,
non entra,
eppure quando lo si trova,
riempie di pace …
Nel silenzio tutto scorre in modo diverso …
Il silenzio affina la capacità
di riempire di intensità
la fragilità del presente,
nella ricerca di ciò che dura oltre il tempo …
dichiarazione di accettazione del regolamento – sez. a
L’ancora di salvezza
C’era una volta una grandissima nave che aveva navigato in tutti i mari della Terra, aveva visto la maggior parte delle meraviglie del mondo. Nel suo lungo viaggio per il mondo era approdato in tanti porti senza trovarne uno confortevole in cui gettar l’ancora e fermarsi per la sua vecchiaia. Un giorno nel suo lungo pellegrinar nei mari, intraviste da lontano un porto piccolissimo, che pian piano come si avvicinava diventava un bellissimo porto accogliente. Così di pian piano chiese al porto se la poteva accogliere tra le sue braccia; il porto gli rispose che era contento di accoglierla, la nave contentissima gettò l’ancora. Così iniziarono a conoscersi a parlare e discutere di molti argomenti; in alcuni, erano d’accordo, altri avevano delle riserve. Un giorno la nave si fecce coraggio e le dichiarò che l’amava e sarebbe sempre rimasta tra le sue braccia calorose; il porto li rispose che anche lei li voleva molto bene. Nel frattempo che la storia continuava tra i due, l’ancora della nave protestava su molti motivi, tra cui che iniziava a arrugginire. La nave era troppo presa nella storia d’amore con il porto che non la ascoltava; fin un giorno in cui la catena della ancora non si ruppe e l’ancora di salvezza li disse addio, forse per sempre. La nave inizio pian piano a uscire dal porto tranquillo e caloroso senza poter far niente, si allontanava sempre più fin si ritrovò così lontano da non poter più veder il piccolo porto. La nave divenne sempre più triste. Un certo punto si ritrovò, prima in mare aperto, poi in pieno oceano. Che vedendolo così triste, l’oceano divenne a sua volta triste, iniziò ad agitarsi. Più si agitava e più il cielo si rattristava, così pian piano divenne un oceano di lacrime, perché la nave iniziò a piangere la perdita della sua figlia ancora, e per la perdita dell’abbraccio caloroso tranquillizzante del suo bellissimo porto. Il cielo, vedendo la nave piangere sempre più, iniziò a sua volta a piangere, e più piangeva e più l’oceano si metteva in tempesta. La tempesta oceanica si trasformò in un uragano così forte che investì la nave. Essa iniziò a ondeggiare talmente forte da rischiare di affondare. La nave iniziò a pregare all’oceano di non farla affondare e al cielo di smettere di essere triste per lei. Il cielo pian piano si calmò, ma l’oceano e l’uragano continuavano a essere tristi per la storia della nave. Lei continuando a ondeggiare nell’oceano sotto l’effetto dell’uragano, cercò di essere ottimista che tutto sarebbe finito bene. L’oceano vedendo la nave un po’ meno triste e il cielo tranquillo, si placcò, a sua volta l’uragano iniziò a perdere la sua forza, e così pian piano la nave si ritrovò in un mare più calmo. Quando le nuvole della tempesta si diradarono, la nave si ritrovò quasi tra le braccia del suo amato porto. Così la loro storia d’amore poté continuare per sempre.
A proposito voi vi state chiedendo che fine ha fatto l’ancora? Fu ripescata e saldata a una nuova catena alla sua nave madre. E vissero tutti felici e contenti.
Accetto il regolamento – sez. b
L’Oceano a Lisbona
Ho raccolto la tua luce atlantica
e le nuvole sfilacciate di Pessoa
alte sul davanzale da contabile
in Rua dos Douradores.
Avrei voluto assaporare il tedio
come frutto maturo del girovagare
finalmente immota
contabile anch’io della mia vita.
Hanno deciso altro
le nuvole mie personali
-che soffiando il vento ad occidente-
in compagnia di Enrico ,navigatore azzurro,
di nuovo mi riportano per mare.
Accetto il regolamento- Sez.A
Mariella Smiroldo
Il Capitano fantasma
Danzavamo per notti nel nostro mare
creato da stelle il nostro mare
creato da parole magiche.
Insieme eravam due.
Le onde ci sobbalzavano
il veliero era solido
e si proseguiva in quel blu
attendendo la comparsa della mappa.
Costruendo la mappa.
Il Capitano fantasma,
l’uno che divenne due,
il due che divenne uno.
Danzava da solo
nel mare.
Sezione A – accetto il seguente regolamento
Sezione A Poesia
Accetto il regolamento
GRAZIA FRESU
Niente mi separa dal mare
Niente mi separa dal mare
neppure il deserto di Atacama
il Ponte dell’Inca la valle di Uspallata,
niente mi separa dal mio mare,
Mediterraneo
chiuso in un abbraccio di terre
le torri sulle coste i paesi
di calce bianca sulle rive
i pini contorti dal vento
le rocce scolpite
le barche veleggiando
nel continuo sillabare del tempo,
niente mi separa dalle colonne
Invecchiate su ripidi costoni
dalle sirene cavalcando delfini
dalle isole aspettando il ritorno
da Penelope con le dita insanguinate
dalla bambina che ascoltava storie
dalle regine del mito
incoronate di coralli e di spine,
niente mi allontana dalla musica
del mio mare quando infuria nel porto
e poi si placa potente tra i canali,
neppure la vastità del Rio de la Plata
il tango di Buenos Aires
abbracciando gli amanti nella notte
neppure gli anni in questa terra
coinvolgente e dura
di spossate carezze e di illusioni.
Sezione B Racconto breve
Accetto il regolamento
GRAZIA FRESU
Adiós, pampa mia
C’è qualcosa nella pampa che smarrisce. Siamo in quattro su una camionetta in apparenza attrezzata per ogni evenienza, ci alterniamo alla guida. La strada dritta come una fettuccia spartisce lembi di terra uguale dove l’orizzonte permane privato di limite, di distanza. Guidiamo in silenzio, aspettiamo che un tramonto senza punti cardinali incendi le sterpaglie all’orlo del cielo, che qualche lepre enorme ci salti davanti all’improvviso cercando la tana, che poi scendano le stelle basse come se il firmamento stesse schiacciandosi su di noi e presto il buio diventa così assoluto che sembra impossibile che i fari della macchina lo buchino. E ti sembra impossibile quel silenzio inusuale tra noi che nessuno osa profanare. Stiamo sull’orlo di un abisso, su uno stupefatto vuoto del cuore. Ci serviamo un mate bollente, inavvertitamente ci sfioriamo come dentro un disagio. Uno di quei viaggi senza meta da cui si torna temprati, esausti e indifesi. Scrivo per tutti la memoria del viaggio parole scarabocchiate con grafia incerta dentro questa scatola di latta traballante che ci distingue nettamente da una natura per lo più vergine e insidiosa. Ci sono leggende di gente persa in queste strade, un’ ultima birra in un agglomerato di quattro case e poi scomparsa nel nulla, inghiottita dal mistero della pampa. So che all’alba si vedrà qualche tetto, qualche bestia smarrita e qualche “gaucho” coi pantaloni ampi e le “boleadoras” alla cintura. Ci saluterà con un cenno della mano e sarà per ore l’unico essere vivente che incontreremo. Poi la pampa lo cancellerà soffocandolo come una madre troppo vasta e troppo esigente.
Il giorno avanza impietoso con folate di polvere che s’impastano a sterpi, palle inestricabili che a volte ci ostacolano la visione e il cammino, sbattendo sulla macchina, facendo mulinello sul vetro del cruscotto. Non si rallenta perché quel cammino così dritto contro l’azzurro ci rassicura falsamente. Col mattino riprendiamo a parlare, uno strano dialogo a singhiozzi, sembrerebbe senza logica, ancora tinto dei fantasmi della notte. E cantiamo anche, prima sussurrando poi a squarciagola per liberarci dal silenzio, per dirci che siamo amici che condividono canzoni. Le mani sul cambio restano quasi sempre sulla quarta, in queste terre si scala marcia solo se incontri una mandria o un gregge che ti taglia la strada o per qualche ragione vuoi fermarti. Non ti sembra neppure di guidare, è la macchina che guida, anzi la strada che guida nell’unico posto dove conduce, nell’unico paesaggio che ti permette. Un’immensità che cambia così poco da farti credere di non esserti mai mosso, di percorrere sempre lo stesso frammento di terra e che sarebbe monotona noiosa in qualsiasi altra parte del mondo e qui non lo è. Spesso credi di guidare da sveglio e non lo stai facendo, i tuoi compagni ti toccano, ti dicono di accostare, ti danno il cambio alla guida. L’ uniformità spaziale della pampa, il suo senso dilatato di tempo ti scivola tra le mani e senza le coordinate spaziotempo a cui sei abituato, una parte di te, intangibile fino a quel momento, si misura con le tue permanenze e la tua fuga. Se fossimo sulla luna non sarebbe diverso, sei senza atmosfera e la crosta su cui cammini sconosciuta ti rende sconosciuto a te stesso. Quando lo sai, quando lo capisci, quando d’improvviso ti stringe la sensazione alla gola, dopo tanti giorni di cammino, allora ti si congela l’anima, di colpo ti viene voglia di città, di strade che s’ incrociano, di rumore, luci, gente, la vita come la conosci e vivi ogni giorno.
Ma hai deciso di no, che ti vuoi disintossicare, avete lasciato a casa cellulari, computer portatili, vuoi scattare rare foto solo con una vecchia macchina non digitale, vuoi usare soprattutto pelle, respiro, sguardi, mani per costruire il viaggio, per ricordarlo. E tutto questo proposito ha una sua sfida, una sua bellezza. Mi viene in mente la mia terra, “tancas serradas a muro”, ma qui non ci sono muri a secco a delimitare la terra, a volte trovi del filo spinato e poi di colpo, come una visione di Morgana, un’estancia”, piccola grande non importa, la sensazione è sempre la stessa, quella di una cattedrale nel deserto. Tutto parla di un tempo protervo che si è fermato mentre una pampa immensa, misteriosa, suggestiva ci inghiotte.
IL MANGIATORE DI RICCI
In quel mare ci trovava la felicità,quella felicità che non si può raccontare a chi non lo ha mai vissuto con l’amore di chi ci è nato.
L’amore di un ragazzino che non perdeva mai occasione per viverlo,quell’immensa passione per il mare, è ancora vivo e pulsante.
E’Ernesto mangiatore di ricci.
Ernesto infatti ,nato in una città di mare,è stato un ragazzino che del mare ne porta ancora l’anima dentro, nonostante la vita verso il futuro lo allontana sempre più. E i ricordi li porta nel cuore come pensieri che si liberano nel sorriso ogni qual volta ha l’occasione di ritornare nella natia terra ,dove il ponte maestoso e unico, si apre in senso girevole al passaggio di navi.
Ernesto torna ogni estate per amore del mare,quel mare colmo di saggezza che sa dare forza e vigoria nuova,solo per cercare ancora nel mare quelle splendide e meravigliose creature da catturare e mangiare con un tozzo di pane all’istante: I RICCI.
Ernesto s’innamora in quei colori che s’allontanano verso il tramonto,quei colori che solo il mare sa inventare,tuffandosi in quella conca per trovare i ricci. Sceglierà lo scoglio abbellito di ricci ,quei ricci di colore marrone , scelti con cura, perché sono la dolcezza per il palato goloso.
Ogni immersione è una apnea dolce che libera la conoscenza di chi sa amare il mare e Ernesto si accontenta di ridiventar ragazzino per la felicità di assaporare anche un solo riccio ,da gustare respirando quella dolce brezza piena di salsedine.
L’emozione di poter rifare ad ogni ritorno, al natio scoglio bagnato da quell’immenso mare,questa splendida esperienza , fa di lui l’eterno ragazzino che vola tra le onde accarezzando scogli sempre generosi pieni di quelle creature che sanno regalare e placare la voglia di gustarle con amore.
Ernesto ritorna ogni estate per emozionarsi nel ritrovare lo splendido mare appoggiato sullo scoglio pieno di ricci
Ernesto mangiatore di ricci lo sarà sempre anche quando resterà solo il ricordo di un ragazzino.
accetto il regolamento. sezione B
DA CHE PARTE È LA NOTTE?
La porta si è appena chiusa e dietro di lei se ne sono andati i miei ultimi sette anni. Lui ha deciso per tutti e due, senza considerarmi: “Da qualche tempo non provo più nulla, per te, ed è giusto che tu abbia al tuo fianco qualcuno che ti ami”. Sapeva di mentire. Lo sapevo anch’io.
Come quasi tutti gli uomini non ha avuto il coraggio di dirmi quello che da tempo già so: si vede con la cubana del Bar Mistral, giù in darsena, ma credevo… Speravo… Fosse solo un momento di impasse tra noi… E io, disposta a perdonare qualsiasi cosa, ora mi sento addosso il senso di inadeguatezza di chi vede il proprio passato gettato nell’umido e il futuro immerso nell’incertezza.
MI lascio andare sul divano, il ‘nostro’… le lacrime hanno finalmente via libera, gliel’ha impedita finora il mio orgoglio. Non dovrei nemmeno, non se le merita, chi ha distrutto il mio castello non merita il mio pianto. Non ce la faccio, è più forte di me. La radio è ancora accesa e nel silenzio della sala diventa una triste colonna sonora per un addio: “I’ve been trying oh so long / let you know / let you know how you feel…” No, Phil, non adesso… Non mi pugnalare anche tu… La spengo piano, Phil non deve accorgersi che non voglio ascoltarlo.
Mi guardo attorno e tutto mi ricorda lui. Il Ficus Benjamin che mi ha regalato quando ho pubblicato il libro, la poltrona dove accarezzava la gatta, i magneti musicali sul frigo, persino le tende abbiamo scelto e montato assieme.
Adesso sulla poltroncina appare la mia solitudine con le gambe accavallate, il sorriso malinconico e mi guarda fisso negli occhi. Sapevo che saresti arrivata… Potevi aspettare, no?… Forse non te ne sei neanche mai andata… Ti odio, lo sai?…
C’è ancora un po’ di caffè nel bricco. Lo scaldo convinta possa togliere almeno quel retrogusto amaro neanche tanto ‘retro’, ma il profumo… Ricordo le mattine quando mi svegliava con un bacio e l’aroma dalla moka pronta che inondava la casa; la sera me lo portava lì sul tavolinetto mentre ero intenta a scrivere un’altra pagina sul tablet. Me ne verso una tazzina controvoglia e sembra mi punga tra le mani: mi fa male, Dio se mi fa male, adesso…
La getto nel lavandino. Meglio un bicchiere di Mirto. Due, tre, cinque… Alla fine mi siedo sul pavimento, ai piedi della solitudine… Scherzavo, prima, mia cara… Non ti ho mai odiata… Tieni, fuma anche tu una Winston… Mi spiace, il Mirto è finito, non posso offrirtelo… In macchina ho l’album degli AC/DC, sorella: vestiti, fatti bella e andiamo a farci un giro in barca. No, magari non torniamo più…
Prima di uscire, dimmi: da che parte è la notte?
Moreno Coppedè
Via Camillo e Otto Cima, 37 – 20134 Milano
Tel. 342 976 0844
Accetto integralmente il regolamento. Partecipo alla sezione B
Per questo mare
(sonetto)
Per questo mare mosso da tempesta
passa la nave mia sfidando i venti
tra i flutti del viaggio che s’appresta.
Lungo la rotta degli incantamenti
raccolgo della vita ciò che resta
mille illusioni, fatui sentimenti,
l’amore, l’odio che il mio cuor detesta,
riviere e lidi, e bianchi fari spenti.
Come fuscello mi sommerge l’onda,
bruciante più del sale dentro gli occhi,
quando perduta credo l’altra sponda;
ma da lontano sento già i rintocchi
di una campana dalla voce tonda
che mi consoli e come manna fiocchi.
Marisa Cossu
L’opera è frutto del mio ingegno.
Accetto il regolamento. Sez. A
LA FUGA
Tutto si fonda su alcune idee che si fanno temere
e che non si possono guardare in faccia”.
( Paul Valèry )
La fuga si era conclusa a molti chilometri da casa, in un residence presso il mare; forse non era neanche una vera fuga, ma piuttoso il bisogno di stare in se stessa, contemplare il mare, sentirsi sola in un viaggio interiore che della vastità del mare avesse gli aspetti di infinita risonanza e fluidità. Sara si trovava ora in una stanza spoglia, rischiarata in un angolo da una flebile fiammella riflessa in uno specchio. Nessuno sarebbe venuto a cercarla.
Dalla finestra aperta, il mare entrava con voce suadente e la chiamava: galleggiava nel vuoto delle emozioni dove si insinuavano rabbia, abbandono e tormento. Le tornavano in mente tutte le incomprensioni e le incongruenze del suo mondo di giovane ragazza e l’ultimo gesto di sua madre che, da quando viveva con un nuovo compagno, le aveva fatto capire che per lei non c’era più posto. Una donna depressa sua madre, incattivita da una vita sbagliata.
E il mare? Era il ricordo di un giorno d’estate, un lampo di memoria che ora si concretizzava di fronte a lei in un abbraccio insidioso. Abbandonarsi, lasciarsi cullare navigando tra le braccia amorose delle onde; il pianto, libero di essere sale. Ferma, immobile, insicura sul da farsi, svolgeva l’ esperienza emotiva tra realtà e irrealtà, agitazione, quiete; ne prendeva coscienza in modo alterato e sfuggente, tra momenti di certezza ed altri di buio profondo.
La sua era coscienza di “qualcosa”; ma forse quella mancanza di oggetti nella stanza spoglia le poneva l’interrogativo della sua esistenza: sarebbe continuata la vita in quell’ombra? Ne sarebbe mai uscita? Se la flebile luce si fosse spenta che cosa le sarebbe rimasto?
E l’ombra? L’ombra disegnata alle sue spalle, sul muro e sul pavimento, le apparteneva o era altro da sé, indipendente, indifferente al suo essere “qui ed ora”? E il volto appena visibile nello specchio polveroso era il suo o qualcuno la spiava per invitarla a vedere l’essenziale?
Se la piccola lampada si fosse spenta avrebbe preso coscienza della metafora che rappresenta: la morte nella vita, la presenza che continua oltre l’esperienza sensibile. Fissare la luce, benché fioca ed incerta, era pur sempre un gesto di distensione, riappropriazione e liberazione, che le suggeriva di non essere condannata al buio quando la tenue fiamma avrebbe consumato tutto l’ossigeno.
Eppure la sua ribellione era stata sempre un grido di aiuto, una richiesta inascoltata, d’amore.
Credeva di averlo trovato in un ragazzo egoista e indifferente che le aveva fatto troppo male.
Fissò il vuoto, il muro, si guardò dentro, perché ora non c’era altro di più importante da vedere e sentire, se non il silenzio che s’inoltra nell’anima, se non il nuovo inizio, la luce che spegnendosi avrebbe acceso un barlume di coscienza. Si il mare, il nuovo inizio sotto la luna sulla strada argentea disegnata dai riflessi di onde placide: entrare a piedi nudi nella dimensione del mare, nell’incalzare delle onde, poi inabissarsi o sentire troppo freddo e tornare.
Marisa Cossu
l’opera La fuga è frutto del mio ingegno. Accetto le norme del concorso. Sez. B
Il viaggio del mare
sezione A poesia
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Il mare intraprende
il suo viaggio,
bagnando le spiagge
dorate delle isole
deserte, bagnate
dalla spuma bianca
salata del mare.
Il mare le sue onde
cavalcate dai surfisti
australiani, che viaggiano
in cerca di onde.
Partecipo per la sezione A – Poesia
Dichiaro di accettare integralmente il regolamento.
“Viaggio dell’addio”:
Sussurrami quel bacio
che mai ti diedi
Sfiorami di ciglia il battito
e lascia la bocca
alla sua sete
Tutto il corpo fu luna,
fu spiaggia e poi
falò
mentre altrove
la lunga estate
della vita scorreva.
Sfogliami quel corpo che
non ti appartenne,
gridami quel piacere che
non ti diedi,
sciogliti,
scivolami infine fra le dita.
Oppure restaci.
E respirami,
ma per quell’istante solo.
Mai fummo l’uno all’altro uniti
come oggi,
consapevoli di andare
incontro a quell’infinito
che ci separò.
© Mirella Morelli
Andrea Capoverso
Partecipo alla sezione B con il racconto “Nuvole sparse”. Accetto il regolamento
Era agosto, non pioveva da quattro mesi e gli abitanti di Villurbe, la sera, guardavano con speranza il cielo cercando di presagire acqua.
Ma la mattina il sole bruciava nei campi. Il vecchio camminava lento nella piazza blaterando sempre la solita frase: le nubi sono state arrestate. Trovate il colpevole.
Solo alcuni bambini prestavano attenzione alle parole del vecchio ed immaginavano un potente Dio che aveva incatenato le chiare nuvole.
Poi , a fine agosto arrivò un vento forte. Tutti gli abitanti sperarono in grandi nuvole nere ma il vento fu così forte da far intravedere nuvole sparse all’orizzonte che velocemente andavano via proseguendo il loro cammino.
Il vecchio continuava: Trovate il colpevole. Si nasconde tra di noi.
E proseguiva la sua camminata verso il mare furente.
Arrivò settembre.
Arrivò ottobre e gli abitanti razionavano la poca acqua rimasta per le poche colture che sopravvivevano.
Poi una sera un tuono avvertì.
Gli abitanti uscirono dalle case.
Pioveva.
Trovarono il vecchio morto sulla piazza.
sapore di mare
Quel mare lontano, quel canto delle onde
mormorio soffuso sulla sabbia fragile
incapace di tenere memoria d’ogni impronta
vento ed acqua complici a confondere
segni fugaci d’una vita di passaggio.
Quel sussurro che penetrava dalle fessure della persiana,
una volta si lasciava sempre una strada
al soffio dell’aria ed era dolce aspettare
che la pelle respirasse il messaggio di sale.
Quel calare del sole che allora era appena
un desiderio lanciato ad un legittimo domani
ed oggi memoria ed oblio al tempo stesso
rimpianto, dolce abbandonarsi
alla marea invadente dei ricordi
nascosti dietro le stelle che stanno arrivando.
Sezione A – accetto il regolamento
Sezione B Accetto il regolamento.
Il Pirata e la Luna
raccolta Don’t Cry Baby di Rosalba Vangelista
La falce lucente della luna si rifletteva nell’immensità del mare di notte.
Il porto era vicino.
Capitan George lo sapeva, lo sentiva fiutando l’odore dell’oceano…
Tornava con la sua ciurma da un lungo viaggio nelle acque dei Caraibi, con sé i tesori e il ricordo delle battaglie in posti esotici.
Dentro si portava il calore del sole, delle spiagge bianche e cristalline del Nuovo Mondo, che lo avrebbe continuato a scaldare una volta arrivato nella sua vecchia Inghilterra.
Il vento fresco carezzava la prua della Saint Mary e scompigliava i suoi lunghi capelli corvini.
Era bello come un angelo nero, e le donne cadevano ai suoi piedi come passeri travolti dall’inverno.
Negli occhi oscuri e profondi, il dolore di una vita dura e difficile che lo aveva forgiato a “Signore dei Mari”.
Era giovane, ma i suoi ventidue anni gli facevano portare dentro il cuore la consapevolezza e la saggezza di un uomo vissuto mille di anni.
Tante donne, tante avventure, ma nessun grande amore; era la bellezza dell’anima che cercava, non solo quella esteriore, un amore profondo e travolgente come il suo amato mare, in grado di trascinarlo oltre i confini da lui conosciuti, oltre ogni certezza.
Gli oceani gli avevano dato e tolto tutto.
Orfano di padre e madre, uccisi durante una battaglia nelle acque spagnole, era stato allevato dallo stesso capitano della nave dei suoi genitori.
George era cresciuto in fretta, aveva appreso l’arte del combattimento e delle conquiste direttamente da quel capitano che gli aveva fatto da genitore e, alla sua morte, aveva preso il comando della “Freccia del Mare”, come chiamavano la Saint Mary, tramite la votazione e il consenso di tutta la ciurma.
Un uomo che viveva di passioni: questo era quel ragazzo.
Dai modi signorili, dalla forza di un leone in battaglia, ma che sapeva trasformarsi in dolcezza ogni volta in cui guardava la luna specchiarsi sulle acque nel cuore della notte, quando tutti i componenti della ciurma riposavano.
«Buonanotte, madre. Buonanotte, padre…»
Si tolse il cappello piumato e lo poggiò sul petto, vicino il cuore.
Era il saluto rivolto ogni notte ai suoi genitori mentre guardava la luna, quella stessa luna che gli ricordava il viso dolce e vellutato di sua madre.
Aspettava il calar delle tenebre per poterla vedere, e quando le nubi oscuravano l’astro incantato, chiudeva gli occhi e la immaginava, consapevole della sua presenza e del suo abbraccio sul mare.
L’oscurità aveva lasciato posto alla luce lieve e timida del primo mattino.
Il porto era lì, immenso e fiero di fronte a loro.
La Saint Mary, trionfante e ricca come una regina che rivendica il trono nel suo giorno di incoronazione, entrava acclamata dai presenti e dagli stessi componenti della ciurma, felici di poter sbarcare e tornare per qualche tempo dalle loro famiglie.
Abbracci e corse di bambini festanti erano uno spettacolo dolce e allo stesso tempo triste per George che, dalla prua, guardava i suoi uomini, accolti dalle proprie famiglie, andare via.
Nessuno lo aspettava, nessuno con il cuore a mille scrutava tra la folla in attesa di vederlo arrivare sano e salvo.
Rimaneva lì, solo con la sua nave, solo con il suo carico di ricordi e di responsabilità che si lasciava alle spalle la sera, quando usciva per mangiare e bere del buon whisky in qualche locale della città.
Lungo la strada che portava al Tom’s, una locandina, attaccata al muro di una vecchia bettola brulicante di marinai e prostitute, catturò la sua attenzione.
Era di una bellezza infinita, raffigurava una ragazza dai lunghi capelli dorati che suonava un violino.
George ne rimase incantato: i suoi occhi brillavano come due gemme nere, gli sembrava di sentire quel violino suonare sotto la luce della sua amata luna.
Doveva sentirlo, qualcosa lo aveva catturato sin da subito, decise di andare allo spettacolo che si teneva a due isolati da lì, all’HarmonyTheatre.
L’ingresso trionfante di bellezza accese gli animi delle giovani e delle signore borghesi, ammaliate dal suo fascino oscuro.
I lunghi capelli incorniciavano un viso demoniaco e raffinato, era “Il Signore dei Mari” e spezzava il cuore solo a guardarlo.
I tendoni di velluto si aprirono.
George, seduto in prima fila, aspettava l’arrivo della ragazza misteriosa della locandina.
Un angelo dai lunghi capelli biondi e dagli occhi blu come l’oceano fece la propria comparsa, suonando una stupenda melodia con il violino.
Era musica per l’anima, era il canto di mille sirene, era sogno e dolcezza.
George non poté che chiudere gli occhi e abbandonarsi a quella meraviglia.
Non sapeva se fosse più bella quella creatura o la sua musica.
Era affascinato, travolto, perso di quella ragazza, sensazioni nuove e incredibilmente intense, che mai aveva provato prima.
Voleva conoscerla, avrebbe dato via tutti suoi gioielli e dobloni per poter trascorrere un solo istante con lei.
Poco prima della fine dello spettacolo, ancora con il cuore che batteva all’impazzata per quella meraviglia, si precipitò all’ingresso dei camerini grazie all’aiuto di uno dei sorveglianti, ricompensato profumatamente per quello strappo alla regola.
L’applauso finale gli arrivò fin alle orecchie, laggiù nei fondi del teatro: lei aveva finito e si prendeva l’amore e la stima del pubblico.
Si chiamava Lindsay e suonava da quando aveva memoria.
Aveva girato il mondo portando la sua arte e la sua dolcezza nei teatri.
George l’attendeva; appoggiato alla porta del camerino, ripensava a quel viso bianco ed etereo che gli ricordava la sua amata luna.
E fu così che, una notte, il mare e la luna si incontrarono.
Perduti nel blu e nel nero dei loro occhi, si amarono fin dal primo istante di un amore travolgente e profondo, di un amore che trascina oltre i confini e oltre ogni certezza.
Di quell’amore che Capitan George sognava da tutta la vita, capace di portarlo nei mari e nei teatri del mondo…
Sezione racconto- Autorizzo la pubblicazione
Occhi nella notte
Lei amava camminare nel buio, e amava il mare. Passeggiare a notte fonda dava un senso al suo tormento ,
alla sua inquietudine. Occhi verdi, passo deciso, sigaretta in bocca. Era bella, molti si giravano a guardarla, battute spinte , risate d’approccio. Ma l’espressione del suo volto di solito bastava a scoraggiare gli scocciatori. Aveva la faccia di chi ha visto molto, di chi non ha paura, mai.
Chi non l’aveva capito in tempo portava ancora un suo ricordo.
Quella notte intorno alle 4 del mattino il lungomare di Rimini era quasi deserto. Poca gente in giro, le discoteche ancora aperte si mangiavano la gioventù.
Vide con la coda dell’occhio due uomini che tenevano sottobraccio una ragazza, avrà avuto vent’anni. Il trio stonava, la ragazza barcollava. Stavano prendendo la strada che andava verso la spiaggia.
Li guardò di nuovo.. pensò di andarsene “ mica sono fatti miei ..”
La ragazza però strisciava i piedi in un modo strano. Quelle gambe molli, quei piedi che strisciavano lungo la sabbia non le permisero di andarsene. Si appiattì dietro una palma, e restò a guardare alla luce fioca dei lampioni.
Li vide arrivare alle sdraio chiuse. Gli ombrelloni serrati sbattevano al rumore del vento.
Sentì la ragazza dire qualcosa , forse protestare , poi vide i due che la trascinavano verso le cabine.
Si incamminò verso il mare, senza fretta, senza fare rumore.
La luce della luna era inquietante.
Udì sei suoni, forse dei lamenti.
Arrivò alle sdraio, girò verso le cabine. I due uomini erano di spalle, la ragazza aveva qualcosa in bocca e non riusciva ad emettere suoni comprensibili. Era senza vestiti. Tentava inutilmente di togliersi di dosso uno dei due. L’altro guardava lo squallido film .
Lei infilò la mano nella borsetta, prese lo stiletto. Lungo, affilatissimo. Un’arma scomoda da portare in giro, ma sempre molto efficace, sicuramente la sua preferita.
In un istante gli fu addosso, prese la testa per i capelli e tirò forte indietro, recidergli la giugulare fu questione di un istante. Il secondo uomo si voltò, ma un secondo troppo tardi, quando la lama gli stava già penetrando all’altezza del cuore. Dieci secondi, forse venti.
Poi guardò la ragazza, lei era terrorizzata , sicuramente ubriaca, forse drogata ma fu sicura che, complice l’oscurità non si sarebbe ricordata del suo volto.
Non voleva ringraziamenti.
Lentamente si avviò verso il mare. La passeggiata poteva continuare.
La mia prigione
Dall’alto si vedeva il mare, le onde alte lambivano le rocce del litorale. Io scrutavo l’orizzonte, nuvoloni neri s’addensavano in lontananza, mi strinsi ancora di più nel cappotto, avevo freddo ma non mi decidevo a rientrare. Il mare ha sempre esercitato un forte richiamo per me, e quando avevo bisogno di stare da sola m’incamminavo, senza rendermene conto mi ritrovavo lì, sempre al solito posto, io e il mare in simbiosi. Mi sarei dovuta allontanare, intraprendere quel viaggio che mi avrebbe portata lontano da tutto quel caos che avevo dentro eppure ogni volta ritornavo sui miei passi. Non mi sentivo più parte della famiglia, avrei voluto cambiare aria, dare un taglio netto a tutto eppure mi mancava il coraggio. Malgrado stessi male continuavo a farmene di più. la mia indecisione mi costringeva a vivere una vita che non volevo. Oh quante volte mi riproponevo di cambiare, ma intanto il tempo passa e io sono sempre qui in questa mia prigione dorata.
accetto il regolamento
partecipo sezione B
Partecipo per la sezione A poesia
Accetto il regolamento
Eterna poesia
Non tutto è luce pulita
cercando il giorno sereno
nei ricordi vissuti
sobbalza il cuore
tra i monti imbiancati
come corone di spose
sospinte dal vento sferzante
per tuffarsi in fresche sorgenti
arrivando
nel tempo
tra spume del mare
risorsa perenne di vita
eterna poesia.
© LM/LiZ
Elena Maneo
Accetto il regolamento – sez. A
I gabbiani mi raccontavano storie
Giocavo con la conchiglia,
appena la schiuma bianca
del mare mi toccava.
E poi son caduto,
tra le braccia del mare,
in un veliero fantasma.
Dal ceruleo profondo del cielo,
i gabbiani mi raccontavano storie,
fantasie che sognavo,
ma che a colpi di onde
si infrangevano.
Dal mare mi lasciavo ghermire
il mio viaggio cercava di annegare.
Mamma, papà,
ho cercato di tornare,
di nuotare nel caldo rubino del vostro cuore.
Viaggio a San Miniato
È come ritrovare abbracci e sorrisi
nel quadro giallarancio che mi viene incontro
al ritmo caldo e lento di questi quattro vagoni
che portano il treno gentile ad assaporare
ogni bacio di terra toscana.
Olivi e cipressi, vigne e manieri,
sentieri, giochi di passeri e foglie, luci tra le fronde
e giù giù un torrente smilzo tra i campi,
un piccolo gregge, un fiore di case e famiglie
che immagino, nella religione del lavoro e dell’armonia,
a far capriole per il pane e ad allevare bimbi semplici e svelti
a ricordarmi di quel giorno d’ottobre
quando mi raccontasti che tu, in un cantuccio dell’Est,
in uno spensierato nulla,
al primo raggio di sole correvi tra lamponi e betulle.
È un fazzoletto tenero, di motivi a pastello,
un melograno minimo
il cuore di San Miniato
capriola di volpe il colle assolato
nota allegra di sogni aquiloni
che s’adagia tra le braccia fedeli di due torri che sfogliano
chiese, visi affiatati, profili di palazzi persi nella loro bellezza
e ritrovi di tavoli che sanno il tempo e gli umori,
isole e nidi avvoltolati nell’eterea tela bianca del tartufo.
Persone scendono come me
e come me si voltano
accartocciano ancora una briciola d’emozione.
L’ultimo mio sospiro ha sapore di ritorno
mentre quest’aroma fraterno
riposa nella metamorfosi della notte.
Sezione A
Giuseppe Mandia
Accetto il regolamento
LAURA VARGIU
SEZ. A
ACCETTO IL REGOLAMENTO DEL CONTEST.
“Saffo non canta più”
Alla sua isola antica
approdo un tempo di miti e cantori
le braccia speranzose protendono
mediterranee erranze da Oriente fuggiasche
in bilico su disperazioni fragili e stanche
Saffo non canta più
né la passione
né la dolce agonia dell’amore,
ma muto è il suo canto
cupo lo sguardo
che al largo si perde nel lutto
del più profondo azzurro
Ascolta impotente gli abissali silenzi
le suppliche, i lamenti
le inumane derive ch’esplodono in tempesta
pur i dinieghi di filo spinato
echeggianti più duri della pietra
Saffo non canta più
né l’inquieta insonnia delle stelle
né i fremiti di cuore e pelle,
solo il dolore spezza la lingua
la ghermisce, l’avvinghia
mentre impietosa di sbarchi cala un’altra notte
già presaga di pianti e di morte
E all’alba rigurgita il mare
avanzi di naufraghe vite
tra la spuma dell’onde stagioni tradite
sorrisi infranti d’infanzia
tra ruvidi scogli ed esangui rive.
(Laura Vargiu)
Accetto il regolamento del contest
sezione A
FERMARSI
Seduto su una panchina,
guardo da lontano
il panorama…
un mare immenso
è lì dinanzi a me
e gli alberi,sospinti
da una brezza leggera,
rendono più dolce
lo scenario!
Intorno la vita scorre…
mentre assaporo
questi istanti di silenzio,
affascinato da ciò
che mi circonda.
Il correre? La fretta?
Via da me,
fermarsi a guardare…
questo sì!
La vita è uno scenario
meraviglioso,
ma solo se ti verità
la comprendi e
scoprirai l’ eterna verità!
ANGELO JOF
Accetto il regolamento e partecipo alla sezione A
Originale
Femminile,
le mie acque risalgono
la corrente.
Femminile,
lo spazio che intercorre
tra il corpo e la psiche.
Femminile,
il mare che mi anima.
Originale canto
di nuvole che dal
vento si lascian cullare.
Femminile,
la spuma da cui
la figlia amata ebbe vita.
L’uomo guardava dalla
riva.
L’uomo guardava Bellezza
e si guardò le mani.
Femminile,
il gesto della pace.
Originale canto,
che mi fu donato.
Sezione A
Accetto il regolamento
Poesia edita nel volume “Sfumature di attimi”, la raccolta delle poesie vincitrici del concorso “Versi in volo 2014” (Sensoinverso edizioni)
Titolo: Alla bassezza
Risa rotte dal pianto,
speranze senza volto
pogano da tempia a tempia.
Il tempo fugge come sabbia fina.
Serro i pugni per sentirlo.
Non parto, non decido, non resto.
Nuoto in un limbo nebbioso
come farfalla fiaccata dal gelo,
senza volare alto.
Comoda, putrida, calda bassezza!
Mi elevo per sentir l’ebbrezza
dell’attimo in cui decido di decidere
di non essere come sono.
Quattro mani per un mare
Al di là della mia passione
c’è solo il tuo grande mare,
le tue onde mi fanno pensare,
sussurrano, vorrebbero parlare.
Ti lasci ascoltare dentro il tuo agitare,
il profumo, il tuo sciabordio,
straripano nel mio timore.
Devo affrontare questo mare,
anche solo con il cuore come timone,
declinando il dolore al mio tramonto,
il vento porterà con sé il mio urlo
più profondo.
Il tempo è rimasto senza giorni
aspettando che rincasasse l’azzurro
del mare.
Giuseppe Gaudino sezione-A
Accetto il regolamento
La tratta
Passano sui barconi spenti,
di notte, in mare aperto
viaggiano queste cose
senza nome né storia.
Si gettano in questo mare buio
con quegli stracci logori,
partono stipati e silenti
questa gente da ogni dove.
Arrivano, forse ancora vivi
batte ancora quel cuore di uomo
buttato in mare, stipato silente
e con quell’ultima luce rimasta
guarda al nuovo mondo.
Ma su questi porti sicuri
non trovano l’attesa pace
ma un campo chiuso
dove tutti sono conservati.
E si gettano allora in mare
quei sogni desiderati,
quelle storie mai accadute,
quell’essere finalmente uomo e non animale.
SEZIONE A
HO LETTO E ACCETTO IL REGOLAMENTO
Tiziana Topa, sezione B, accetto il regolamento
Come vent’anni prima. Affacciata al parapetto del traghetto che la portava in Liguria dalla sua Sicilia, Marianna guardava quella placida immensità azzurra e aspirava a pieni polmoni l’aria salmastra che aveva sempre il potere di placarla. Ci era nata, lei, al mare e quel profumo lo aveva respirato fin dal primo vagito, in quella casa sugli scogli. Il verde dei fichi d’India, l’oro della sabbia e l’azzurro del mare erano i colori del suo mondo. Un mondo quasi mitico nel quale irruppe lui, con tutta la forza della passione giovanile.
Marianna aveva sedici anni; l’estate era arrivata in anticipo e, mentre stendeva il bucato, canticchiava godendosi la piacevole sensazione del sole che le pizzicava la pelle. Lo vide. Giù in spiaggia, spingeva la barca verso i flutti per andare a pesca. Era bello, carnagione ambrata, occhi verdi. Il canto le morì in gola. Allora anche lui la vide: la trovò deliziosa con la sua vestaglia a fiori e i capelli leggermente spettinati. Aveva capelli biondi e occhi azzurri, Marianna; non si sarebbe detto che era siciliana, piuttosto sembrava una principessa normanna. Lui le rivolse un sorriso che scoprì denti bianchissimi e regolari. Fu quel sorriso a farla innamorare.
Antonio e Marianna si incontravano tutti i giorni in una caletta; cullati dal rumore delle onde, se ne stavano abbracciati per ore amandosi e fantasticando. Alba fu concepita lì, era figlia del mare. Quando la madre di Marianna venne a sapere della gravidanza non fece scenate. Mantenne il solito atteggiamento severo; dal volto duro non trapelava alcuna emozione. Disse solo: «Questo figlio non lo puoi tenere. Lo sai, vero?». Non voleva che la gente dicesse che sua figlia era una svergognata, che lei non aveva saputo farne una donna onesta. Marianna amava già quella creatura con tutta se stessa ma sapeva che sua madre sarebbe stata irremovibile; una volta che il bambino fosse nato, lo avrebbe affidato a chissà chi. Era giovanissima, Marianna, ma l’amore che la muoveva le infondeva il coraggio di affrontare qualsiasi difficoltà pur di stringere tra le braccia il frutto dell’amore con Antonio.
Quest’ultimo intanto era partito per la leva militare in una città del nord; lo avrebbe raggiunto e avrebbero formato una famiglia lontano dall’ipocrisia del paesino siciliano. Antonio la aiutò a organizzare il viaggio; Marianna partì durante la notte, a bordo di un traghetto che la portava verso una vita incerta; era consapevole che i sacrifici sarebbero stati tanti, ma non si pentiva di nulla.
Alba nacque; ora la vita sembrava sorridere a Marianna, ma presto Antonio cambiò. Era distaccato, quasi insofferente. Non era fatto per legarsi a una sola donna. La relazione naufragò e Marianna rimase sola con Alba. Si rimboccò le maniche, trovò un lavoro e faticosamente raggiunse un equilibrio. Passarono vent’anni e una sera, appena dopo cena, Marianna ricevette la telefonata di una zia che la pregava di tornare in Sicilia. La madre, malata da tempo, si era aggravata e chiedeva di lei accoratamente. Il primo impulso di Marianna fu di rifiutare; le montò una rabbia sorda ricordando quel volto duro, quella ruga in mezzo alla fronte che la madre aveva quando le disse: «Questo figlio non lo puoi tenere. Lo sai vero?». Poi si calmò e cominciò a riflettere. «Quella donna ormai non ha più potere su di me. Ho ascoltato il mio cuore, ho lottato e ho vinto io» disse tra sé. Decise. Sarebbe scesa per darle l’ultimo saluto.
Quando arrivò in ospedale, chiese in quale stanza si trovasse la madre. «Camera 16» rispose l’infermiera. «Che strano» pensò Marianna «16 come i miei anni quando sono rimasta incinta».
Eccola, la stanza 16. La porta era socchiusa; le gambe le tremavano leggermente. Si fece forza ed entrò. Sua madre era assopita. Marianna si avvicinò con un po’ di timore; come se avesse avvertito il tocco di quello sguardo azzurro, la donna socchiuse gli occhi. «Figlia» sussurrò «sei tornata… Credevo che mi odiassi troppo per sopportare di vedermi ancora. Ho sbagliato tutto con te… Volevo proteggerti dalla cattiveria della gente, dalle brutture del mondo. Da te, da quel tuo carattere impulsivo… Come il mio. Invece ho ottenuto solo di perderti. Sappi però che io ti ho sempre amato, ma non sono riuscita a dimostrartelo».
«Tu eri solo un’ipocrita preoccupata del giudizio della gente, delle malelingue…».
«Tesoro mio» proseguì la madre «volevo che non si dicesse di te ciò che a suo tempo si disse di me». «Cosa stai cercando di dirmi?». Marianna non riusciva a dire “mamma”.
«Io sono sempre stata una donna onesta, Dio mi è testimone ma… ascoltami». Deglutì. «L’uomo che ti ha cresciuta con tanto amore non è il tuo vero padre. Era l’estate del ’43. Gli alleati erano appena sbarcati in Sicilia. Mia madre mi mandò a consegnare un abito a una cliente fuori città. Faceva la sarta, ricordi? Per strada incontrai un gruppo di militari. Sentivo il loro sguardo su di me. Ero bella sai? Allora ero bella… Avvertivo un pericolo. Due di loro cominciarono a seguirmi. Avevo sempre più paura. Mi dissero qualcosa ma io non capivo la loro lingua. Poi fu tutto veloce. Ricordo solo che uno dei due mi afferrò e mi portò in un campo di grano, biondo come i suoi capelli… E come i tuoi…». A Marianna mancò il respiro. Ora capiva che sua madre aveva compiuto una scelta d’amore tenendo quella figlia generata dal dolore. Capiva che l’aveva amata come poteva e lei non aveva mai immaginato lontanamente quale peso avesse dentro. Pianse e finalmente riuscì a dire: «Mamma».
Il viaggio stava per finire. La costa appariva all’orizzonte. Marianna si sorprese ancora affacciata al parapetto. Non aveva mai staccato gli occhi dal mare. Una lacrima le rigò la guancia e, cadendo, si perse tra i flutti, sale nel sale.
SEZIONE A
ILARIA RUCCO – accetto il regolamento
USTICA
Persa in mezzo al mare
coi piedi che non toccano terra
quando la testa è a metà strada
tra il vento e le nuvole.
Ed io non sono nessuno,
appartengo a tutto e a niente
le croste di salsedine proteggono
il cuore in balia della tempesta
che poi si scioglie al sole.
Persa in mezzo al mare:
la fuga è chiedere scusa
per chi non ha una meta
e il viaggio è l’unico approdo
verso una pace che non ha cura,
né fine.
sez A
Lei
La sua voce rifletteva
il canto del mare;
l’impeto dei suoi movimenti,
la dolcezza infinita.
Piena di vita e di ricordi
era Lei,
che si dipanavano in fuochi
di luce vera.
Strade calpestate,
tra polvere e fango,
tra magie e arcobaleni.
L’aspettavo,
ed è arrivata.
Ha aperto la porta senza bussare,
perché era con me,
dentro di me…
Simone Cumbo
Dichiaro di accettare il regolamento
SEZIONE B
Ilaria Donà – ACCETTO IL REGOLAMENTO
“Anniversario”
Quando i suoi occhi si aprirono, lentamente e a fatica, ancora tutti intorpiditi dalle ore di sonno, si ritrovò davanti ad un letto vuoto. Le coperte sfatte, buttate verso di sé da una seconda persona che in quel momento non era lì.
Con pigrizia, ed un pesante sospiro, Raehwan si mise supino e si strofinò gli occhi nella speranza di sentirne le palpebre più leggere con una sorta d’infantile speranza. Nel mentre, sbadigliò rumorosamente domandandosi dove fosse finito Minseok, perché si fosse alzato invece di rimanere lì con lui, perché non lo avesse svegliato così da farsi compagnia a vicenda, ma le risposte a quelle domande in fondo le conosceva già. sapeva fin troppo bene com’era fatto dopo una vita passata assieme, dall’infanzia fino a quel momento in cui il passato sembra ormai lontano e tutti i nostri trascorsi sono le fondamenta di ciò che siamo. Raehwan si trascinò, i piedi stanchi, fino all’entrata dell’abitazione presa in affitto, e prima di uscire si preoccupò di indossare una pesante felpa sopra alla maglia del pigiama.
Non mise le scarpe.
Erano lì in vacanza, una più che meritata fuga dal solito tram tram cittadino di Seoul a cui ormai avevano fatto l’abitudine i due ragazzi di campagna. O meglio, uomini. Avevano scelto come meta Jeju, un’isola all’estremo sud della nazione asiatica e spesso meta turistica, ma di fare i turisti i due non ne avevano la minima voglia nonostante fossero stati attirati dalle meraviglia del luogo come api coi fiori primaverili. Per quello avevano cercato un’abitazione in affitto, una che avrebbero utilizzato per quelle due settimane di quiete. Desideravano seguire le loro regole, il loro tempo, crogiolarsi nei loro momenti senza dar modo alla gente di additarli, etichettarli, marchiarli con una nera scritta di disprezzo per i sentimenti che condividevano.
I loro sentimenti.
Silenzioso, con passi felpati, Raehwan andò dritto al sentiero che altro non era che una sorta di scalinata composta da grandi pietre incastonate nel terreno, sembravano fatte apposta, eppure l’ordine casuale in cui giacevano fredde suggeriva diversamente. Facendo attenzione il moro arrivò fino alla spiaggia in cui era sicuro di poter trovare il proprio migliore amico, seduto proprio come lo vide sulla calda sabbia illuminata dal mite sole di fine estate, i capelli di un castano scuro spettinati dalla brezza gentile, che osservava l’orizzonte mentre le onde dell’oceano attaccavano la riva impetuose ed arrabbiate. Sapeva quanto divertissero Minseok; “è come se cercassero ogni volta di prendermi senza riuscirci e per questo ritentano con sempre più grinta” gli aveva detto due decadi prima, quando entrambi avevano sei anni ed i genitori li avevano portati al mare.
«Minseok.»
Lo chiamò con voce fine, il genere di timbro vocale che non ci si aspetterebbe mai da spalle ampie ed occhi affilati, felini, scuri. Si fermò ad un paio di passi da lui, il giusto per vederlo sussultare un millisecondo prima di voltarsi a guardarlo con caldi occhi a mandorla sgranati.
«Hwannie, che cosa ci fai qui? Perché non hai le scarpe? Yah–»
«Non c’eri.»
Minseok venne interrotto proprio all’inizio di quella che sembrava una petulante ramanzina su quanto fosse stato irresponsabile da parte sua non preoccuparsi della propria salute, da quella semplice affermazione di Raehwan, il minore. La loro differenza d’età non si poteva realmente considerare tale in quanto a dividerli vi erano soltanto una manciata di mesi, uno a giugno l’altro a novembre, mentre l’anno di nascita era lo stesso per entrambi. I genitori di Minseok erano molto vicini a quelli di Raehwan, tanto da affidare a loro la custodia del figlio in caso di morte.
Quella scelta sembrò dettare la loro sorte.
«Scusa, ho perso la cognizione del tempo stando qui.»
Poi i suoi dolci occhi seguirono i movimenti del più piccolo che, lentamente, si sedette sulla sabbia dietro di lui ignorando un suo “sei ancora in pigiama” per avvicinarsi alla sua schiena mantenendo le gambe divaricate. In quel modo avrebbe avvolto l’esile corpo di Minseok con il proprio come una calda e leggera coperta. Lo abbracciò da dietro, gli circondò i fianchi andando ad appoggiare il mento su una delle sue piccole spalle. Sapeva di sale, sapeva di mare.
Il maggiore si appoggiò a sua volta e tornò ad osservare l’ampia distesa blu che era l’oceano che bagnava quelle coste con la propria sicurezza, una promessa quella che prima o poi avrebbe inghiottito tutto diventando l’unico padrone del mondo.
«Stanno di nuovo provando a prenderti?»
«Come sempre.»
Un secondo passò, nel quale i due indugiarono sulla sensazione dei loro corpi vicini, attaccati, uniti.
«Dovremmo prepararci.»
«È già ora?»
Raehwan non rispose verbalmente se non con un basso rumore che gli fece vibrare il petto.
«Non ci siamo portati le ceneri dei tuoi per nulla, lo sai.»
Sebbene non potesse vederlo, un po’ per via della posizione in cui si trovavano, un po’ perché aveva chiuso gli occhi, l’uomo dai capelli corvini riusciva perfettamente ad immaginare le labbra arricciate del maggiore, infelice che il momento dovesse interrompersi proprio sul più bello. Sul suo apice di serenità.
«Perché non lo hanno fatto i tuoi a loro tempo? Almeno mi risparmierei di farmi vedere con il moccio al naso da te.»
«Come se fosse qualcosa di nuovo..»
Minseok rise, mentre Raehwan l’accennò soltanto la risata mischiandola con un leggero sbuffo d’aria. Era l’anniversario della morte dei genitori del maggiore ed un’altra delle loro richieste era che le loro ceneri venissero rilasciate nel mare, libere di andare ovunque le correnti le avessero portate continuando il loro viaggio del mondo anche da morti, quando non si poteva più assaporare la cucina tipica del luogo, o osservare le meraviglie di quella cultura. Di primo acchito chiunque lo avrebbe trovato insensato, ma bastava fermarsi un attimo a riflettere con le onde dell’oceano come accompagnamento per capire quanto senso avesse in realtà.
“Facciamolo, avanti” lo esortò Minseok, e mentre lo guardava sporgersi dalla barca per svuotare l’urna dalle ceneri, Raehwan sorrise tristemente assaporando sulla lingua ciò che la sua mente stava pensando: mare, viaggio, morte.
— PARTECIPAZIONE AL CONTEST TERMINATA —
— 102 OPERE PARTECIPANTI —
— RINGRAZIAMO PER IL GRANDE INTERESSE DIMOSTRATO —
— I FINALISTI E VINCITORI SARANNO DICHIARATI TRA UNA DECINA DI GIORNI —
— IN BOCCA ALLA GIURIA —
VINCITORI E FINALISTI DEL CONTEST:
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