Cinema: i registi dalla carriera più longeva #7 – Il mondo di oggi: parte 2
Riprendiamo da dove ci eravamo salutati non più di una settimana fa: doverosamente scandagliata l’Europa, allarghiamo l’orizzonte per individuare i numerosi cineasti nativi delle diverse aree geografiche del pianeta che han saputo raggiungere e superare la soglia dei 50 anni di carriera dietro la macchina da presa.

Muoviamo anzitutto dai restanti Paesi in prevalenza anglofoni: l’Australia ha da offrire solamente Bruce Beresford che, raggiunti i 58 anni di attività a partire dal corto “The Hunter” (1959), sta ora girando la commedia “Ladies in Black” (2018). In Italia lo si ricorda facilmente per i lavori del secolo scorso piuttosto che per quelli più recenti, in particolare “Tender Mercies – Un tenero ringraziamento” (1983, grazie a cui ha ricevuto l’unica nomination all’Oscar come regista) e “A spasso con Daisy” (1989, 4 Oscar fra cui quello al miglior film su 9 candidature); si è ritrovato per 4 volte in concorso per l’Orso d’oro, 3 (4 se si considera anche il film collettaneo “Aria”, 1987) per la Palma.
Il Canada vanta un quintetto capitanato, forte di una filmografia da 6 decadi non particolarmente preziosa, da Sidney J. Furie, avviato nel 1957 con “A Dangerous Age” e ultimamente congedatosi da “Drive Me to Vegas and Mars” (2017, pronto per la distribuzione): lo si può efficacemente identificare con “Ipcress” (1965, nomination alla Palma d’oro) e “Superman IV” (1987).
Gli succede Ted Kotcheff, esordito con un episodio della serie tv “On Camera” (1956) e accreditato l’ultima volta per il corto “Fearless” (2014); tutti lo ricordano grazie al primo celebre “Rambo” (1982), ma noi aggiungiamo che “Soldi ad ogni costo” (1974) lo fece a suo tempo vincere a Berlino.
Nel gruppo Denys Arcand è la pecora nera francofona: iniziò a 6 mani col breve dramma “Seul ou avec d’autres” (1962), attualmente sta occupandosi della commedia “Triomphe de l’argent”. “Il declino dell’impero americano” (1986), “Jésus de Montréal” (1989, nominato all’Oscar come film straniero) e “Le invasioni barbariche” (2003, vincitore della statuetta) hanno tutti portato a casa premi importanti a Cannes; ancora, vale citare almeno “L’età barbarica” (2007).
Chiudono la rosa Michael Snow, che fra i corti “A to Z” (1956) e “Puccini conservato” (2008) si è distinto come autore sperimentale da noi ricordato quasi unicamente per “Wavelenght” (1967), mediometraggio ambientato in un’unica stanza, e il ben più noto Norman Jewison, debuttante con la serie “The Big Revue” (1952) e ritiratosi dopo il thriller “Caccia all’uomo” (2003), insignito del Premio alla memoria Irving G. Thalberg nel 1999 in ragione di un buon numero di pellicole memorabili: gli hanno fruttato la candidatura all’Oscar per la regia “La calda notte dell’ispettore Tibbs” (1967), “Il violinista sul tetto” (1971) e “Stregata dalla luna” (1987), mentre all’Orso d’oro si è avvicinato grazie ad “Hurricane – Il grido dell’innocenza” (1999). Impossibile infine dimenticare “Il caso Thomas Crown” (1968) e “Jesus Christ Superstar” (1973).

Spostiamoci in America del Sud, da dove son sorti personaggi in gran parte estranei alla nostra sensibilità culturale. A partire dall’Argentina, incontriamo Fernando Birri, 58 gli anni accumulati fra il mediometraggio animato “La primera fundación de Buenos Aires” (1959) e una singola puntata del talk show “Decile a mamá que estamos todos bien” (2017), quiescente dal 1964 al 1978, 3 uniche firme apposte nel nuovo millennio; e Fernando Ezequiel Solanas, Orso d’oro onorario nel 2004, esordito col corto negletto “Seguir andando” (1962) e dal 2004 autore di soli documentari, l’ultimo dei quali risulta essere “El legado” (2016): si è guadagnato 2 e 2 nomination alla Palma e al Leone d’oro.
Lo sparuto rappresentante della Bolivia è Jorge Sanjinés, la cui carriera è contenuta fra il corto documentario “Sueños y realidades” (1961) e il biopic “Juana Azurduy, Guerrillera de la Patria Grande” (2016).
In Brasile il veterano numero uno è senza dubbio José Mojica Marins, il quale ha raggiunto, col corto horror “Coffin Joe Born Again” (2015) appartenente al genere grazie a cui è principalmente ricordato, i 65 anni di un onorato servizio intrapreso nel 1950 in corrispondenza del corto d’avventura “Reino sangrento”.
Subito dopo viene Nelson Pereira dos Santos, candidato 4 volte all’Orso d’oro e 3 alla Palma fra il corto documentario “Juventude” (1949) e il documentario “A Luz do Tom” (2013); a distanza maggiore si piazza Carlos Diegues, 3 nomination alla Palma d’oro incastonate fra il corto “Fuga” (1960) e il dramma “O Grande Circo Místico”, in arrivo per il 2018. Stazionante sul mezzo secolo esatto resta per ora Júlio Bressane, assiduo frequentatore delle notti di FuoriOrario: nel 1966 debuttava col corto documentario “Lima Barreto – Trajetória”, mentre nel 2016 lo ospitava Locarno con “Beduino” (2016).
Il Cile ha dato i natali al celebre Alejandro Jodorowsky, del quale si ricordano pressoché tutte le opere, ovvero gli 8 lungometraggi fra cui sono oggetto di vero culto “El Topo” (1971) e “La montagna sacra” (1973), e i 3 corti, a partire dall’esordio de “La cravate” (1957) sino allo straordinario auto-biopic “Poesia senza fine” (2016), di prossima distribuzione sul suolo italiano.
Al Messico si riconduce la figura di Arturo Ripstein, che mosse dal western “Tiempo de morir” (1966) per giungere al terzo recente episodio diretto per la serie documentaristica “Maestros Olvidados, oficios que sobreviven” (2017): venne ammesso con 4 film a Cannes e 3 a Venezia.

Riavvicinandoci all’Europa transitiamo in Russia, dove al momento il più autorevole decano è Andrej Končalovskij, il quale s’è fatto apprezzare a Berlino con “Il proiezionista” (1991), a Cannes col lunghissimo “Siberiade” (1979), “A 30 secondi dalla fine” (1985) e i meno conosciuti “I diffidenti” (1987) e “Asja e la gallina dalle uova d’oro” (1994), a Venezia con “Il primo maestro” (1965), “Maria’s Lovers” (1984), “La casa dei matti” (2002), “Le notti bianche del postino” (2014) e “Paradise” (2016). Della sua parabola americana resta poi vivido “Tango & Cash” (1989); agli antipodi del suo primo corto (“Malchik i golub”, 1961) sta una coproduzione italo-russa in arrivo per il 2018, un biopic su Michelangelo Buonarroti intitolato “Il peccato”.
C’è quindi spazio per tre individui pressoché ignoti in Italia: Aleksandr Mitta, attivo dal 1961 col dramma “Drug moy, Kolka!..” al 2014 col biopic “Shagal – Malevich”, Vladimir Naumov, attivo dal 1951 con “Taras Shevchenko” (1951) al 2001 col film televisivo “Chasy bez strelok”, e Gleb Panfilov, attivo dal 1958 col corto “Narodnaya militsya” al 2008 con “Khranit vechno” (2008): quest’ultimo nel 1987 vinse l’Orso d’oro grazie a “Thema”, distribuito in versione integrale a 7 anni di distanza dal completamento per problemi di censura.
La Georgia offre un trio aperto da un regista che fra gli anni ’80 ed oggi ha accumulato solo 4 produzioni, Marlen Chuciev: 63 gli anni che dividono il corto “Gradostroiteli” (1950) e il collettaneo “Venice 70: Future Reloaded” (2013). Più familiare il nome di Otar Iosseliani, non tanto per il corto televisivo esordiale “Akvarel” (1958), né per l’ultimo “Chant d’hiver” (2015), quanto piuttosto per essere risultato vincitore dell’Orso d’argento grazie a “Lunedì mattina” (2002), candidato al Leone d’oro con “I favoriti della luna” (1984), “Un incendio visto da lontano” (1989), “Caccia alle farfalle” (1992) e “Briganti, briganti” (1996). Resta quindi Georgij Danelija, 2 volte nominato alla Palma d’oro fra il corto “Vasisualiy Lokhankin” (1958) e il film d’animazione “Ku! Kin-dza-dza” (2013).
Da ultime esploriamo le regioni dell’Asia sud-orientale: in Corea del Sud è una vera leggenda Kwon-taek Im, regista di oltre 100 lungometraggi fra il 1962 con “Dumanganga jal itgeola” e il 2014 con “Hwajang”, scelto 2 volte per i concorsi di Berlino (dove ha ricevuto anche l’Orso alla carriera), Cannes e Venezia.
Al Giappone spettano Yôji Yamada, trovatosi in 5 occasioni ammesso nella selezione ufficiale a Berlino, una sola a Venezia, debuttante col mediometraggio “Nikai no tanin” (1961) e in arrivo nelle sale nipponiche con “Tsuma yo bara no yô ni: Kazoku wa tsuraiyo III”, previsto per l’anno prossimo; ma soprattutto l’ammiratissimo Isao Takahata, messo a capo di 12 episodi di Ōkamishōnen Ken fra il 1963-1965 e ultimamente del meraviglioso “La storia della principessa splendente” (2013), per cui ha pure ricevuto l’unica nomination all’Oscar.

Fra gli 8 lungometraggi animati che possono vantare la sua firma troviamo “La grande avventura del piccolo principe Valiant” (1968), quelli dedicati ad Heidi, il suo capolavoro “Una tomba per le lucciole” (1988), “Pioggia di ricordi” (1991), “Pom Poko” (1994) e “I miei vicini Yamada” (1999).
La selezione proposta quest’oggi termina con un ennesimo Carneade, che però viene considerato il maggior regista cingalese di sempre: questi è il 98enne Lester James Peries, esordito col corto documentario “Soliloquy” (1949) e accomiatatosi dall’arte cinematografica con “Ammawarune” (2006).
Questo è tutto, per adesso: la settimana a venire torneremo a rivolgere lo sguardo al passato, alla ricerca dei pesi massimi, medi e minimi che son passati a miglior vita solo dopo aver celebrato il loro personale cinquantennio di professione nell’alveo dell’arte che qui con gran minuzia sondiamo.
Sottostante nelle info, si trova un piccolo assaggio accuratamente selezionato delle produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei virtuosi che sin qui abbiamo incontrato.
Written by Raffaele Lazzaroni
Info






Link utili
Sequenza da “A Dangerous Age” (Sydney J. Furie, 1957)
Trailer di “The Dependables” (Sydney J. Furie, 2014)
“La cravate” (Alejandro Jodorowski, 1957)
Trailer di “Poesia senza fine” (Alejandro Jodorowski, 2016)
“Malchik i golub” (Andrej Končalovskij, 1961)
Intervista su “Il peccato” (Andrej Končalovskij, 2018)
“Akvarel” (Otar Iosseliani, 1958)
Trailer di “Chant d’hiver” (Otar Iosseliani, 2015)