Cinema: i registi dalla carriera più longeva #6 – Il mondo di ieri: parte 1

Riprendiamo da dove ci eravamo salutati non più di una settimana fa: siamo sempre in Europa, ma non più quella contemporanea. È giunto il momento di arretrare di qualche decennio con l’intento di scovare i numerosi cineasti, e sono effettivamente in molti a trovarsi celebrati come autentiche leggende, che han saputo raggiungere e superare la soglia dei 50 anni di carriera dietro la macchina da presa.

Cinema Il mondo di ieri 1

Strutturando la nostra esplorazione in ordine alfabetico, il primo Paese che incontriamo è l’Austria, quella originaria (conosciuta all’epoca come Impero Austro-Ungarico) di due imprescindibili maestri dell’arte cinematografica come Otto Preminger e Fred Zinnemann, accumulati rispettivamente 55 e 52 anni di onorato servizio. Attivi soprattutto nella Hollywood dei tempi d’oro (e difatti naturalizzati statunitensi), l’uno ha ricevuto il primo incarico con “Il grande amore” (1931), l’altro con “Gente di domenica” (1930), entrambi recitati in lingua tedesca.

Il nome di Preminger è indissolubilmente legato a grandi produzioni come “Vertigine” (1944), “La magnifica preda” (1954), “L’uomo dal braccio d’oro” (1955), “Porgy and Bess” e “Anatomia di un omicidio” (1959), “Exodus” (1960), ma sue pellicole di minor popolarità (perlomeno in Italia) si sono ritrovate in concorso a Cannes, vedi “Carmen Jones” (1954), “Tempesta su Washington” (1962) e “Dimmi che mi ami, Junie Moon” (1970), o l’hanno portato agli Oscar, come nel caso de “Il cardinale” (1963). Solo la morte gli ha imposto il ritiro, essendo il suo ultimo contributo, dedicato ad un episodio della serie documentaristica “Cinéma cinémas”, da collocarsi nel 1986.

Zinnemann invece s’è ritirato a vita privata dopo aver completato “Cinque giorni, un’estate” (1982) e sarebbe deceduto solo nel 1997. I cinefili gli sono grati oltremodo per aver donato al mondo monumenti del calibro di “Mezzogiorno di fuoco” (1952), “Da qui all’eternità” (1953) e “Un uomo per tutte le stagioni” (1966), ma anche “Odissea tragica” (1948), “La storia di una monaca” (1959), “I nomadi” (1960) e “Giulia” (1977), tutti titoli che gli hanno fatto guadagnare almeno una candidatura agli Academy Awards. Con “Teresa” (1951) e “Un cappello pieno di pioggia” (1957) s’è avvicinato al Leone d’oro; da ultimo si fanno ancora gradevolmente ricordare il musical di successo “Oklahoma!” (1955) e lo spy movie “Il giorno dello sciacallo” (1973).

“Døden” era il corto televisivo con cui nel 1951 si faceva conoscere uno dei numi tutelari dell’industria danese, quel Gabriel Axel che in molti conoscono probabilmente solo per uno degli ultimi lavori, “Il pranzo di Babette” (1987), premiato con l’Oscar al miglior film straniero. Tralasciando la serie di pellicole softcore, in questa sede ha più senso segnalare qualche altra vicenda da riscoprire: su tutte, i festivalieri “Dollari dal cielo” (1948, a Berlino), “Den røde kappe” (1967, a Cannes) e “Christian” (1989, a Venezia); per spirito di curiosità aggiungiamo pure l’ultima, “Leïla” (2001).

Alain Resnais

Venendo il turno della Francia, non restiamo sorpresi dalla numerosità dei suoi rappresentanti. Siamo autorizzati ad esserlo piuttosto constatando l’estensione del curriculum di Alain Resnais, che morto all’età di 91 anni ne può vantare 78 devoluti alla causa del cinema: queste sono le cifre se includiamo il minuto preludio alla carriera vera e propria, datato 1936, ossia il cortometraggio incompiuto realizzato all’età di 14 anni “L’aventure de Guy”.

In effetti la sezione più compatta delle sue produzioni si originerà solo un decennio più tardi, dal… mediometraggio perduto “Schéma d’une identification” (1946), mentre la notorietà comincerà ad arridere nel 1950, quando “Van Gogh” vincerà agli Oscar nella sezione dedicata ai migliori cortometraggi a due bobine. Gli anni ’50 trascorrono nel segno delle brevi durate, di cui sono degni esponenti “Gauguin” (1950), “Guernica” e “Pictura” (1951, quest’ultimo Premio speciale ai Golden Globe), “Notte e nebbia” (1956) e “Tutta la memoria del mondo” (1957); ma il 1959 cambierà per sempre la nomea che s’era cucito il nostro: esce “Hiroshima mon amour” ed è capolavoro.

Di lì, per citarne solo alcuni, verranno “L’anno scorso a Marienbad” (1961, Leone d’oro), “Stavinsky, il grande truffatore” (1974), “Mio zio d’America” (1980, unanime Premio della Giuria a Cannes), “Smoking/No Smoking” (1993, Orso d’argento “per l’originalità”), “Cuori” (2006, Leone d’argento), “Gli amori folli” (2009, Premio speciale a Cannes “per l’eccezionale contributo alla storia del cinema”)… Resnais fa in tempo a godersi la presentazione del proprio “Life of Riley” in concorso a Berlino e viene a mancare neanche un mese dopo, il 1° marzo 2014.

A debita distanza (62 anni raggiunti) si colloca Édouard Molinaro, che fra il corto “Evasion” (1946) e il quinto episodio da lui diretto per la fiction “Le tuteur” e trasmesso nel 2008 ha conosciuto le soddisfazioni maggiori grazie a “Il vizietto” (1978, adorato agli Oscar) e “Il vizietto II” (1980).

Immediatamente di seguito si posizionano Jean Delannoy, la cui dipartita è avvenuta a 100 anni tondi, 74 anni dopo l’esordio (“Une vocation irrésistible”, 1934) e 13 dopo l’ultima prova, “Marie de Nazareth” (1995), entrato 5 volte negli annali di Venezia (con esito particolarmente positivo in corrispondenza di “Dio ha bisogno degli uomini”, 1950) e 3 in quelli di Cannes, e uno dei patriarchi della settima arte, Abel Gance, grande autore dell’era del muto, in cui operò sin dal 1911 col corto “La digue”, ma attivo fino al 1972, quando attraverso “Bonaparte et la révolution” rieditò il suo capolavoro assoluto, “Napoleone” (1927), inglobando le modifiche apportate già nel 1935 con l’uscita di “Napoléon Bonaparte”. Pregevoli e significativi anche “Per la patria” (1919, in originale “J’accuse”, pure rifatto nel 1938) e “La rosa sulle rotaie” (1923).

A quota 60 staziona uno dei documentaristi più studiati di sempre, Chris Marker, debuttante nel 1952 con un esteso resoconto sulle Olimpiadi di Helsinki (“Olympia 1952”), destinatario nel 2012 di un’ultima commissione, il trailer della 50esima edizione della Viennale (“Kino”), prima di lasciare questo mondo. Fra le opere più citate stanno il lungo “Sans soleil” (1983) e i lunghi(ssimi) “Le joli mai” (1963) e “Le fond de l’air est rouge” (1977), oltre a numerosi corti a cominciare da “La Jetée” (1962).

Jacques Rivette

Gli fa compagnia una delle voci di prim’ordine della Nouvelle Vague, Jacques Rivette, 3 film in concorso a Cannes, 2 e 2 a Berlino e Venezia; venne iniziato all’arte cinematografica nel 1949 attraverso il corto “Aux quatre coins” e se ne congedò nel 2009 con “Questione di punti di vista”.

Procedendo, la coppia di “cinquattottini” è costituita da un’altra figura che come Gance proviene addirittura dal XIX secolo, Marcel L’Herbier, e dal meno conosciuto Marcel Cravenne. Il primo, dopo le sperimentazioni del corto incompiuto “Phantasme” (1917), è entrato nella storia con un nutrita filmografia sia muta che parlata, sia destinata alla sala che alla televisione, ove troneggia senza dubbio “L’argent” (1923); l’ultimo lavoro è un trittico di documentari, chiuso (davvero spettralmente nel gioco di simmetrie, vorremmo dire) da “La féerie des fantasmes” (1975).

Il secondo, dopo una manciata di lungometraggi cinematografici, il primo dei quali è “Sous la terreur” (1936), s’è quasi interamente dedicato a svariate produzioni per il piccolo schermo; l’ultimo contributo è stato pensato invece per l’home video ed inserito nel collettaneo “De Serge Gainsbourg à Gainsbarre de 1958-1991” (1994).

Altro autore maiuscolo della tradizione francese è Éric Rohmer, un Leone d’oro per “Il raggio verde” (1986) e uno alla carriera nel 2001, più altre 4 candidature veneziane, 4 berlinesi e 2 a Cannes incastonate fra un corto dimenticato (“Journal d’un scélérat”, 1950) e “Gli amori di Astrea e Celadon” (2007), di ben maggior visibilità.

Jean Rouch non gode di una fama altrettanto grande, sicuramente non nel nostro Paese: ci limiteremo a segnalarne la schietta propensione per il genere documentario, che ingloba debutto (il corto documentario “Au pays des mages noirs”, 1947) e commiato (“Le rêve plus fort que la mort”, 2002, presto caduto in oblio).

Il nome di Claude Autant-Lara non suona più familiare, ma ciononostante una buona dose del suo corpus artistico, racchiuso fra il corto muto “Fait-divers” (1923) e il lungometraggio “Gloria” (1977), è penetrato nel nostro territorio: 5 volte si è infatti trovato in competizione per il premio più ambito al Festival di Venezia.

Di Christian-Jacque i palinsesti televisivi generalmente ospitano almeno “Fanfan la Tulipe” (1952, Orso d’argento e Premio al miglior regista a Cannes) con Gérard Philipe e Gina Lollobrigida, “La legge è legge” (1958) con Totò e Fernandel e “Il tulipano nero” (1964) con Alain Delon e Virna Lisi. Iniziò nel 1932 con “Le bidon d’or”, si ritirò dopo aver portato a termine un documentario sul leggendario Marcel intitolato “Carné, l’homme à la caméra” (1985).

Claude Chabrol

Il 52 è il numero di Claude Chabrol, novellino con molte cose da dire già nel 1958, quando realizzò “Le beau Serge”, considerata la prima opera autenticamente Nouvelle Vague, mentre da tempo navigato maestro al livello della serie televisiva “Au siècle de Maupassant: Contes et nouvelles du XIXème siècle”, di cui ha diretto due episodi fra il 2009 e il 2010, poco prima di morire. È stato selezionato per la competizione ufficiale 6 volte a Berlino, 3 a Venezia e 2 a Cannes.

Assai lontano per profondità tematica sta Jean Rollin, esordito nel 1958 col corto “Les amours jaunes” e salutato l’ultima volta nel 2010 all’uscita di “La masque de la Méduse”, appartenente al genere con cui s’è imparato ad identificarlo, l’horror, spesso anche intriso di erotismo esplicito.

Spostandoci in Germania, conduce la gara un personaggio inimitabile che ha diretto 6 film e un cortometraggio nell’arco di 70 anni esatti, i primi 5 nei soli anni ’30: si tratta ovviamente della reporter ufficiale del partito nazionalsocialista Leni Riefenstahl, scopertasi incredibilmente talentata non solo in veste d’attrice ma anche e soprattutto in quella per l’appunto di regista già nel 1932 con “La bella maledetta”, unica opera di finzione assieme a “Bassopiano” (1954).

Il resto appartiene all’apoteosi (è il caso di dirlo) del cinema del reale, con “La vittoria della fede” (1933) banco di prova per due dei maggiori monumenti di propaganda che la storia abbia conosciuto, “Il trionfo della volontà” (1935, sul Raduno di Norimberga dell’anno precedente) e “Olympia” (1938, sui Giochi tenutisi a Berlino nel 1936, diviso in due parti). Qualche giorno prima di compire 100 anni, l’anziana signora è potuta tornare alla ribalta con un mediometraggio, “Meraviglie sott’acqua” (2002), trasmesso contemporaneamente dalle televisioni tedesca e francese.

Su tutt’altro piano si colloca naturalmente Alfred Weidenmann, dall’esordio del 1936 (l’oscuro mediometraggio documentario “Jungbann 2”) agli anni ’70 fedele alle sale cinematografiche e dal 1979 convertitosi definitivamente alla tv, sino all’estremo episodio (1999) appartenente alla serie “Il commissario Köster”. Ci basti sapere che nel 1958 dirigeva Romy Schneider alias Scampolo nell’ingannevole “Sissi a Ischia”, dove non v’è traccia della celeberrima principessa.

Lotte Reiniger

Con Lotte Reiniger si torna a percorrere le strade della grande storia, essendo questa ricordata come l’autrice del primo lungometraggio d’animazione a noi pervenuto, “Le avventure del principe Achmed” (1926); tutta la sua vita è stata devoluta a questa tecnica cinematografica, dal 1919, anno del primissimo cortometraggio (“Das Ornament des verliebten Herzens”), al 1980, quando vide la luce “Die 4 Jahreszeiten von Lotte Reiniger”.

Jürgen Roland ha conosciuto prima il mondo televisivo e solo successivamente, dalla fine degli anni ’50, quello del grande schermo; in entrambi non ha lasciato tracce realmente significative. Cominciò col corto “Zwischen Ebbe und Flut” (1950), concluse con un ultimo episodio diretto nel 2002 per la serie poliziesca “14° Distretto”.

Infine si accoda Wolfgang Staudte, debuttante col corto “Jeder hat mal Glück” (1933), 2 volte in concorso a Berlino, Cannes e Venezia; ha vissuto gli ultimi giorni in tv, occupandosi della miniserie “Der eiserne Weg” (1984).

I Paesi Bassi hanno dalla loro un duo di opposte fazioni, dove un membro sta nettamente dalla parte dei documentari, mentre l’altro da quella della fiction: il primo è il nume Joris Ivens, Leone d’oro alla carriera nel 1988, avviato, in maniera amatoriale grazie al corto “De wigwam” (1911), al mondo del nitrato d’argento che riprese in maniera assai più strutturata sul finire degli anni ’20, realizzando ritratti ancor oggi studiati dai cinefili (su tutti “Il ponte”, 1928 e “Pioggia”, 1929). Dall’altro capo della sua esperienza lunga 77 anni sta il suo splendido testamento artistico, “Io e il vento” (1988).

Il secondo risponde al nome George Sluizer, nato a Parigi ma olandese d’adozione, certo meno influente del connazionale, ma in ogni caso selezionato in 3 occasioni per la gara all’Orso d’oro, cui va aggiunta una partecipazione vittoriosa allo stesso evento con l’opera prima, il corto “De lage landen” (1961); prima di ritirarsi, portò a termine “Dark Blood” (2012), incompiuto da quasi vent’anni a causa della morte del giovanissimo primattore, River Phoenix.

Uno dei maggiori cineasti polacchi è anche fra coloro che hanno potuto giovare di una carriera davvero estesa, 66 anni per la precisione. Nel lasso di tempo che va dal corto “Zly chlopiec” (1950) ad “Afterimage” (2016), presentato poche settimane avanti il decesso, per titoli come “I dannati di Varsavia” (1957), “Cenere e diamanti” (1958), “L’uomo di marmo” (1977) e “L’uomo di ferro” (1981) Andrzej Wajda si è meritato il Leone d’oro (1998), l’Oscar (2000) e l’Orso d’oro (2006) onorari. Ancora, nel 2008 “Katyn” risultava nominato agli Academy Awards come miglior film straniero.

Wanda Jakubowska

È quindi il turno di un’altra donna, Wanda Jakubowska, che dopo aver collaborato al corto documentario “Reportaz nr 1” (1932) si è cimentata in 16 lungometraggi, il più recente dei quali è “Kolory kochania” (1988). L’opera più significativa resta “L’ultima tappa” (1948, in concorso a Venezia), prima ricostruzione in assoluto delle atrocità vissute nel campo di sterminio di Auschwitz, estremamente fedele in quanto sia la regista che la sceneggiatrice vi erano state deportate.

I (quasi tutti) magnifici cinque del Regno Unito sono capitanati dal minore, Ken Annakin, 66 anni di glorie sporadiche (spiccano i due kolossal bellici “Il giorno più lungo”, 1962 e “La battaglia dei giganti”, 1965) che presero avvio col corto di propaganda “London 1942” (1943) e lo videro fino alla morte impegnato nel rimontaggio del materiale filmato nel 1992 per un film mai completato, rinominato “Gengis Khan: The Story of a Lifetime” ed uscito nel 2010.

Segue Guy Hamilton, fermatosi a 54 una volta concessosi (caso unico in tutta la sua parabola artistica) alla realizzazione di un corto di genere documentario (il minuscolo “On Location with ‘The Man with the Golden Gun’”, uscito direttamente in home video nel 2006 ed incentrato sulle riprese di “Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro”, 1974): amava assai di più i lungometraggi, che realizzò in numero 22, da “L’uomo dai cento volti” (1952) a “Se ti piace… vai…” (1989), praticamente nulla in confronto a “I due nemici” (1961, che fece approdare Alberto Sordi ai Golden Globe) , le 4 note avventure di James Bond e le 2 ideate da Agatha Christie a lui affidate (“Assassinio allo specchio”, 1980, con Angela Lansbury nei panni di Miss Marple, e “Delitto sotto il sole”, 1982, con Peter Ustinov in quelli di Poirot).

Stessa vetta è stata conquistata da Alfred Hitchcock, il quale naturalmente non ha bisogno di presentazioni: il suo “Number 13” (1922) è un esordio leggendario in quanto… incompiuto e considerato perduto; dalla parte opposta sta “Complotto di famiglia” (1976), l’ultimo ironico thriller per cui ricevette l’unica nomination ai Golden Globe in qualità di regista. Nell’arco di vent’anni, solo 5 le candidature agli Oscar: per “Rebecca – La prima moglie” (1940), “Prigionieri dell’oceano” (1944), “Io ti salverò” (1945), “La finestra sul cortile” (1954) e “Psyco” (1960); più un Premio alla memoria Irving G. Thalberg, certo.

S’inserisce a questo segno un altro divo celeberrimo, Charles Chaplin: la prima opera in assoluto ritenuta da lui diretta è “Charlot pazzo per amore” (1914); ogni dubbio di sorta è fugato invece con “La contessa di Hong Kong” (1967), epilogo inferiore a moltissimi lavori precedenti. L’Academy gli ha tributato 2 Oscar onorari, nel 1929 per “Il circo” (1928) e nel 1972, cui se n’è aggiunto un terzo nel 1973 con effetto retroattivo per le musiche di “Luci della ribalta” (1952), a lungo bandito dal maccartismo.

Ken Russell

Gli si affianca infine l’irrequieto Ken Russell, non certo conosciuto per il corto esordiale “Peepshow” (1956), né per quello finale, “Boudica Bites Back” (2009), quanto piuttosto per i non poco problematici “Donne in amore” (1969), “L’altra faccia dell’amore” (1970), “I diavoli” e “Il boy friend” (1971), “Lisztomania” e “Tommy” (1975) e “Stati di allucinazione” (1980).

I tre veterani della Repubblica Ceca, Jan Němec, Jirí Weiss e Karel Kachyňa, sono assolutamente ignoti in Italia, benché gli ultimi due vi abbiano fatto tappa concorrendo per il Leone d’oro rispettivamente 3 volte e una. I primi due hanno debuttato con un corto (“Sousto”,1960 e “Lidé na slunci”, 1935) e concluso con un lungo (“Vlk z Královských Vinohrad”, 2016 e “Marta ed io”, 1990), mentre il terzo è stato lanciato con un documentario (“Není stále zamraceno”, 1950) ed ha chiuso con un film televisivo (“Cesta byla suchá, místy mokrá”, 2003).

Anche dalla Spagna non giungono nomi familiari: apre la selezione Jesús Franco, fecondissimo regista di b-movie (nel 1983 ne uscirono ben 15 a lui riconducibili), in gran parte horror ed erotici non di rado approdati anche nel nostro Paese; le prime e le ultime testimonianze, ossia il corto documentario “El árbol de España” (1957) e la commedia “Revenge of the Alligator Ladies” (2013), ossequiano al contrario ben altro registro.

Sempre sul piano dei 56 anni di servizio sta José Antonio Nieves Conde, attivo fra il 1946 di “Senda ignorada” e il 1977 di “Casa Manchada”, per poi prendersi 25 anni di congedo e infine sperimentare un’unica volta il formato del lungometraggio documentario con “Secuencias de la vida de un cineasta” (2002).

Risultano tutto sommato più rispettabili Luis García Berlanga e Juan Antonio Bardem, frequentatori di Cannes (dove entrambi hanno pure ricevuto una menzione speciale per la sceneggiatura di “Benvenuto, Mister Marshall!”, 1953) e Venezia, il curriculum del primo esteso fra i corti “Tres cantos” (1948, di genere documentario) ed “El sueño de la maestra” (2002), e quello del secondo fra “Paseo por una guerra antigua” (1948) e “Resultado final” (1998), grazie al quale s’è però meritato il Premio Yoga come peggior regista.

Se parliamo della Svezia torniamo a solcare le cime dell’arte cinematografica, perché qui ci attende, solitario, il divino Ingmar Bergman, da godere (e studiare) fotogramma per fotogramma sin dalla prima pellicola, “Crisi” (1946).

Lo conosciamo e bene, ma ad ogni modo è cosa buona e giusta, specie in favore dei profani, provare a stilare una top 10 dei titoli imprescindibili: “Monica e il desiderio” (1953), “Il settimo sigillo” (1957, Premio speciale della Giuria a Cannes), “Il posto delle fragole” (id., Orso d’oro), “La fontana della vergine” (1960, Oscar al miglior film straniero), “Come in uno specchio” (1961, id.), “Luci d’inverno” (1963), “Persona” (1966), “Sussurri e grida” (1972, 1 Oscar su 5 nomination), “Fanny e Alexander” (1982, 4 Oscar su 6 nomination fra cui quello al miglior film straniero), “Sarabanda” (2003, ultimo lungometraggio distribuito quando Bergman era ancora in vita: “Spöksonaten”, videoripresa dello spettacolo teatrale andato in scena nel 2000, venne trasmesso per la prima volta il giorno di Natale del 2007, mentre il corto documentario “On Set Home Movies”, costituito dai dietro le quinte di tre produzioni degli anni ’50-‘60, venne rilasciato direttamente in dvd nel 2008).

Miklós Jancsó

Ci resta da esplorare l’Ungheria: vi troviamo anzitutto Miklós Jancsó, 62 anni passati in cabina di regia, dal 1950 col corto documentario “Kezünkbe vettük a béke ügyét” al 2012 col collettaneo “Magyarország 2011”, dramma ostile al governo Viktor Orbán. Venne selezionato per i concorsi ufficiali di Cannes in 5 occasioni e di Venezia in 3, ivi ricevendo il Leone d’oro alla carriera nel 1990.

Anche il collega Károly Makk, due drammi poco frequentati (“Gyarmat a föld alatt”,1951 e “Így, ahogy vagytok”, 2010) a conchiudere la carriera, è stato spesso apprezzato al festival francese, di cui ha ambito alla Palma ben 6 volte.

Questo è tutto, per adesso: la settimana a venire torneremo a rivolgere lo sguardo al presente, alla ricerca dei pesi massimi, medi e minimi che ancora abitano fra noi dopo aver celebrato il loro personale cinquantennio di professione nell’alveo della settima arte.

Sottostante nelle info, si trova un assaggio accuratamente selezionato delle produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei virtuosi che sin qui abbiamo incontrato.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

Info

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Link utili

“Gente di domenica” (Fred Zinnemann, 1930)

Trailer di “Cinque giorni, un’estate” (Fred Zinnemann, 1982)

Sequenze iniziali di “Olympia 1952” (Chris Marker, 1952)

“Kino” (Chris Marker, 2012)

“La bella maledetta” (Leni Riefenstahl, 1932)

“Meraviglie sott’acqua” (Leni Riefenstahl, 2002)

“De wigwam” (Joris Ivens, 1911)

Sequenza da “Io e il vento” (Joris Ivens, 1988)

“Charlot pazzo per amore” (Charles Chaplin, 1914)

Sequenza da “La contessa di Hong Kong” (Charles Chaplin, 1967)

“Peepshow” (Ken Russell, 1956)

Intervista su “Boudica Bites Back” (Ken Russell, 2009)

“Crisi” (Ingmar Bergman, 1946)

Trailer di “Sarabanda” (Ingmar Bergman, 2003)

Sequenza da “Gyarmat a föld alatt” (Károly Makk, 1951)

Trailer di “Így, ahogy vagytok” (Károly Makk, 2010)

 

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