Cinema: i registi dalla carriera più longeva #5 – Il mondo di oggi – parte 1

A distanza di qualche mese dai primi quattro sull’Italia e gli USA, il quinto appuntamento con la nostra speciale indagine sui cineasti che hanno superato la soglia dei 50 anni di carriera dietro la macchina da presa inizia a mettere a fuoco quest’oggi il resto del panorama mondiale contemporaneo.

Cinema Il mondo di oggi 1

Muoveremo anzitutto dai Paesi europei, culla delle manifestazioni più promettenti della settima arte, paralleli all’altrettanto significativo Nord America e al suo pari spettatori di molte delle poetiche più radicate e pregevoli sulla faccia dell’intero pianeta.

Procedendo per puro e semplice ordine alfabetico, la prima personalità che si incontra è anche con buona probabilità l’unico rappresentante dell’Austria: Peter Kubelka, regista esclusivamente di cortometraggi sperimentali dal 1955 (“Mosaik im Vertrauen”) al 2012 (“Antiphon”), fatta eccezione per “Film als Ereignis, Film als Sprache, Denken als Film” (2003), di quasi tre ore di durata.

Anche il Belgio vanterebbe la sola, leggendaria Agnès Varda, esordiente nel 1955 col dramma “La Pointe-Courte” e recentemente acclamatissima per il documentario “Visages, villages” (2017), vincitore del Premio del pubblico a Toronto e di due riconoscimenti a Cannes: sempre nell’anno corrente è stata scelta per niente meno che l’Oscar alla carriera, a due anni dalla Palma d’oro onoraria e a tre dall’European Film Award e dal Pardo di Locarno equivalenti. Alcune tappe significative del suo invidiabile percorso artistico: “Cleo dalle 5 alle 7” (1962, nomination alla Palma d’oro), “Il verde prato dell’amore” (1965, Premio Speciale della Giuria a Berlino), “Les créatures” (1966, nomination al Leone d’oro), “Senza tetto né legge” (1985, vincitore del Leone d’oro), “Kung-fu master!” (1988) e “Le cento e una notte (di Simon Cinéma)” (1995), candidati all’Orso d’oro.

Per la Danimarca si classifica Jørgen Leth, per la maggiore documentarista sperimentale: “Stopforbud”, primo cortometraggio del 1963 e “Pelota II”, ultimo lungometraggio del 2015, appartengono entrambi infatti all’alveo del cinema del reale.

Con la Finlandia si incrocia una coppia, costituita da Matti Kassila e Jörn Donner. Il primo risultò celebre in patria soprattutto negli anni ’50 e ’60 (“Elokuu”, 1956, e “Tulipunainen kyyhkynen”, 1961, figurarono nelle selezioni ufficiali di Cannes e Berlino) e si gode la pensione dall’ormai lontano 1998, quando è andato in onda il documentario “Kun aika on kypsä – Matti Kassila kertoo Sillanpää-elokuvistaan”; agli antipodi sta il corto documentario “Pikakäynnillä Helsingissä” (1947).

Il secondo, dall’attività ancor più estesa, noto in primo luogo per aver prodotto il più maestoso capolavoro di Ingmar Bergman, “Fanny e Alexander” (1982), col corto “Aamua kaupungissa” (1954) si approccia al campo della documentaria, in cui ad oggi ha lasciato oltretutto le ultime recenti testimonianze (il lungometraggio “Perkele II – Kuvia Suomesta”, 2017); la sua immagine si è illuminata a livello internazionale grazie a “En söndag i september” (1963) e al successivo “Amare” (1964), rispettivamente miglior opera prima e nomination al Leone d’oro al Festival di Venezia.

La “F” più ricca e storicamente influente è senz’altro quella della Francia. I nomi sono tanti e come consuetudine verranno elencati a partire dal più veterano, che in questo caso è sinonimo stesso di Cinema: Jean-Luc Godard gli appassionati lo ricordano bene fin dal primo corto, “Une femme coquette” (1955), cui sarebbero seguite oltre 100 opere di estensione, genere e confezionamento variabili.

Jean-Luc Godard

Impossibile non citare almeno “Fino all’ultimo respiro” (1960, sensazionale esordio), “La donna è donna” (1961), “Agente Lemmy Caution, missione Alphaville” (1965), “Il maschio e la femmina” (1966), “Week End – Una donna e un uomo da sabato e domenica” (1967), “La gaia scienza” (1969) e “‘Je vous salue, Marie’” (1985), tutti in concorso a Berlino, “Si salvi chi può (la vita)” (1980), “Passion” (1982), “Détective” (1985), “Nouvelle vague” (1990), “Éloge de l’amour” (2001) e “Addio al linguaggio” (2014), in concorso a Cannes, “Questa è la mia vita” (1962), “Una donna sposata” (1964), “Il bandito delle 11” (1965), “La cinese” (1967), “Prénom Carmen” (1983), “Germania nove zero” (1991), “Ahimè!” (1993) e “For Ever Mozart” (1996), in concorso a Venezia; senza dimenticare poi “Il disprezzo” (1963), “Due o tre cose che so di lei” (1967) e le “Histoire(s) du cinéma” (1989-1999). 62 anni di rivoluzioni inarrestabili che non accennano a stroncare la loro crescita, con “Le livre d’image” in arrivo per il 2018.

Attualmente in seconda posizione si distingue Claude Lelouch, il cui “Un uomo, una donna” (1966) vinse agli Oscar (e ai Golden Globe e a Cannes) come film straniero nonché con la sceneggiatura firmata dallo stesso regista; la candidatura venne bissata anni dopo grazie a “Tutta una vita” (1974); da segnalare pure “I miserabili” (1995), con cui vennero riconquistati i Golden Globe. Sono precisamente 60 gli anni che separano il corto documentario “La guerre du silence” (1957) dall’ultimo lungo, “Chacun sa vie” (2017).

Terzo posto ex aequo per le carriere 58enni di Robert Hossein, probabilmente noto maggiormente come attore, di cui si ricordano fra gli altri “La notte delle spie” (1959, nomination al Leone d’oro) e “I miserabili” (1982), avviato alla direzione nel 1955 grazie a “Gli assassini vanno all’inferno” e congedatosi nel 2013 col film televisivo “Une femme nommée Marie”; e Jean-Pierre Mocky, due volte in concorso a Berlino (“Il cielo chiude un occhio, 1963 e “Il miracolo”, 1987), firma di oltre 70 lungometraggi fra il 1959 (“Dragatori di donne”) e il 2017 (“Votez pour moi!”).

Ad appena un anno di distanza si colloca un altro ex aequo, quello di Alain Cavalier, che fra il corto “L’Américain” (1958) e il documentario “Le Caravage” (2015) ha messo a segno i maggiori successi di critica, come “Thérèse” (1986), “Libera me” (1993) e “Pater” (2011), ognuno dei quali candidato alla Palma d’oro, e di Jean-Paul Rappeneau, che fra il 1958, quando vede la luce il corto “Chronique provinciale”, e il 2015 di “Belles familles” ha accumulato solo 9 regie, in mezzo alle quali si segnala sopra tutte quella del rinomato “Cyrano de Bergerac” (1990), dove è possibile trovare un Gerard Depardieu in forma smagliante.

A quota 56 stazionano due personaggi che condividono l’anno del loro debutto, il 1961: sono Jean Becker, di cui si ricorda facilmente “Il mio amico giardiniere” (2007) e magari “L’estate assassina” (1983, nomination alla Palma d’oro), e il meno popolare Paul Vecchiali: suo “Once more – Ancora” (1988, in concorso a Venezia). Le loro opere esordiali sono rispettivamente “Quello che spara per primo” e “Les petits drames”, le più recenti “Le collier rouge” e “Train de vies”, entrambi in post-produzione ed attesi per il 2018.

Raymond Depardon

Due anni in meno per il documentarista Raymond Depardon, lanciato col corto “Venezuela” (1963) e recentemente nelle sale francesi grazie a “12 jours” (2017), pure a Cannes in competizione per la Palma d’oro nel 1990 col dramma “La prigioniera del deserto”, e l’ancor meno conosciuto (perlomeno in Italia) Luc Moullet, che nel 1960 dirigeva “Un steack trop cuit” e nel 2014 “Assemblée générale”, entrambi corti.

Più in basso, ma di certo non per notorietà, un terzetto composto da Philippe Garrel, 6 volte in corsa per il Leone d’oro fra l’esordio nel cortometraggio (“Les enfants désaccordés”, 1964) e il convincente “L’amant d’un jour” (2017), Jean-Marie Straub, la cui opera meno di nicchia resta forse “Cronaca di Anna Magdalena Bach” (1968), idolo delle notti di FuoriOrario approdato alla regia nel 1963 col corto “Machorka-Muff” e lontano dal set dal 2016, una volta terminato “Où en êtes-vous: Jean-Marie Straub?”, altro corto di genere documentario, e infine Bertrand Tavernier, Leone d’oro alla carriera nel 2015, il quale fra il secondo episodio di “Una matta voglia di donna” (1964) e la serie “Voyage à travers le cinéma français” (2016) ha dato il meglio di sé in “Una domenica in campagna” (1984), “A mezzanotte circa” (1986), “La vita e niente altro” (1989), “Daddy Nostalgie” (1990) e “L’esca” (1995, Orso d’oro), fino al più recente “L’occhio del ciclone – In the Electric Mist” (2008).

Gli ultimi due rappresentanti del principale Paese francofono li individuiamo in André Téchiné, 6 volte in concorso per la Palma e 3 per l’Orso, debuttante con un corto documentario intitolato “Les oiseaux anglais” (1965) e di recente nelle sale patrie con “Nos années folles” (2017), e subito dopo, giunto a 51 anni di onorato servizio, il maestro dell’animazione Jean-François Laguionie, che ha esordito nel 1965 con un corto vincitore al prestigioso Festival di Annecy, “La demoiselle et le violoncelliste”, per di lì realizzare 6 lungometraggi, 3 dei quali approdati anche in Italia (“Scimmie come noi”, 1999, “La tela animata”, 2011 e “Le stagioni di Louise”, 2016).

Ben nutrite risultano anche le fila della Germania, in cui al momento troneggia herr Edgar Reitz, l’uomo che portando sulle spalle ben 60 anni di carriera dietro la macchina da presa è e sarà sempre rimembrato per la titanica impresa chiamata “Heimat”, saga sulla storia tedesca del Novecento in 4 parti (1984, 1992, 2004, 2013), cui si aggiungono un prologo (1981) e un epilogo (2006), per la durata complessiva di circa 60 ore. La sua inimitabile avventura prese avvio nel 1953 col corto “Volto di una residenza” e si è conclusa nel 2013 col collettaneo “Venice 70: Future Reloaded”.

Ancora in attività è invece Volker Schlöndorff, esordiente nel 1960 col corto “Wen kümmert’s?” e presente di recente ad Amburgo con “Der namenlose Tag” (2017): fra i suoi titoli più competitivi si segnalano “I turbamenti del giovane Törless” (1966), “Vivi ma non uccidere” (1967), “La spietata legge del ribelle” (1969), “Il tamburo di latta” (1979, vincitore a Cannes), “Un amore di Swann” (1984), “Il racconto dell’ancella” (1990), “L’orco” (1996), “Il silenzio dopo lo sparo” (2000) e “Return to Montauk” (2017).

Alexander Kluge

Pure Alexander Kluge, Leone d’oro alla carriera nel 1982, non ha ancora optato per il ritiro, in lavorazione un corto horror di prossimo rilascio dal titolo “Doll Movie”; il suo iter creativo lungo 56 anni, ricchissimo di realizzazioni di breve durata, è cominciato nel 1961 col corto documentario sperimentale “Brutalität in Stein” ed ha raggiunto i risultati più lodati grazie a “La ragazza senza storia” (1966, 5 premi a Venezia), “Artisti sotto la tenda del circo: perplessi” (1968), “Ferdinando il duro” (1976) e “La forza dei sentimenti” (1983).

Segue quindi Marcel Ophüls, mitico documentarista approdato agli Oscar con due giganti da oltre 4 ore di durata, “Le chagrin et la pitié” (1969) e “Hôtel Terminus” (1988, risultato vincitore), ma anche firma di drammi televisivi, come il primissimo “Das Pflichtmandat” (1958); l’ultima prova, “Un voyageur”, risale al 2013.

Gli succede a quota 54 una delle vere colonne portanti dell’arte cinematografica contemporanea, patria ed internazionale, quel Werner Herzog che nel 1962 appena 20enne esordì col corto “Herakles” e abbiamo lasciato nel 2016 con ben 3 lungometraggi, l’ultimo dei quali per première è “Dentro l’inferno”. Tanto narratore di finzione quanto esploratore della realtà, nel corso degli anni gli Oscar gli hanno tributato la nomination solo in occasione di “Encounters at the End of the World” (2007), mentre a Berlino è stato accolto più spesso e favorevolmente (“Segni di vita”, 1968, fu miglior opera prima, “Nosferatu – Il principe della notte”, 1979 e “Queen of the Desert”, 2015, ugualmente in concorso), come anche a Venezia (“Grido di pietra”, 1991, “My Son, My Son, What Have Ye Done”, 2009, “Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans”, 2009) e soprattutto a Cannes (“L’enigma di Kaspar Hauser”, 1974, 3 premi di rilievo, “Woyzeck”, 1979, “Fitzcarraldo”, 1982, premio alla regia, “Dove sognano le formiche verdi”, 1984); ma come non ricordare anche “Aguirre, furore di Dio” (1972) e “La ballata di Stroszek” (1977), o per quanto concerne i documentari “Grizzly Man” (2005), “Cave of Forgotten Dreams” (2010) e “Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi” (2016)?

Il più americano di tutti (perlomeno nella seconda fase del suo cammino artistico) è comunque senza dubbio Wolfgang Petersen, che se nessuno ricorda per il film televisivo esordiale “Stadt auf Stelzen” (1965) è invece ben noto per titoli come “U-Boot 96” (1981), “La storia infinita” (1984), “Nel centro del mirino” (1993), “Virus letale” (1995), “Air Force One” (1997), “La tempesta perfetta” (2000), “Troy” (2004) e “Poseidon” (2006). In sordina, è tornato in sala un decennio dopo l’ultimo disaster movie con “Vier gegen die Bank” (2016).

Chiude la rosa Wim Wenders, pervenuto giusto quest’anno al mezzo secolo qui requisito: affacciatosi sulla scena cinematografica nel 1967 col corto “Scenari”, ha disseminato via via una nutrita serie di titoli memorabili, alla stregua di Herzog di carattere sia finzionale (“Alice nelle città”, 1973, “Nel corso del tempo”, 1976, “L’amico americano”, 1977, “Lo stato delle cose”, 1982, “Paris, Texas”, 1984, “Il cielo sopra Berlino”, 1987, “Lisbon Story”, 1995, fino al controversamente accolto e premiato “The Million Dollar Hotel”, 2000), sia documentario (“Buena Vista Social Club”, 1999, “Pina”, 2011, “Il sale della terra”, 2014, gli unici lavori per cui è risultato candidato all’Oscar). Al momento, archiviato “Submergence” (2017), sta lavorando all’ambizioso progetto intitolato “Pope Francis: A Man of His Word”, atteso in sala per il 2018.

Tornando a rappresentanze sparute, ma non per questo meno valorose, in Grecia (verrebbe da dire solo per nascita) troviamo Costa-Gavras, in circolazione dal 1958, quando girò il corto “Les rates”, al 2012, anno di “Le capital”, e già pronto ad allungare a 6 decadi esatte la propria già ampia carriera grazie ad “Adults in the Room”, schedulato per il 2018. Punta di diamante è fuor di dubbio “Z – L’orgia del potere” (1969), Oscar al miglior film straniero e al montaggio nonché nomination per film, regia e sceneggiatura (sempre di Costa-Gravas): in quest’ultima categoria la statuetta è arrivata con “Missing – Scomparso” (1982), pure diretto dallo stesso e trionfatore a Cannes. Non vanno poi dimenticati almeno “L’affare della sezione speciale” (1975, Premio alla regia a Cannes) e l’Orso d’oro “Music Box – Prova d’accusa” (1989).

Jonas Mekas – ©-Bori Lehman

Dalla Lituania viene Jonas Mekas, al pari di Andy Warhol fautore di prim’ordine del New American Cinema, esordiente nel 1961 col film “I fucili degli alberi” e pensionato alla veneranda età di 91 anni una volta uscito il corto “Reminiszenzen aus Deutschland” (2013): complessivamente è stato insignito più spesso per il suo contributo all’arte cinematografica globalmente inteso che per singole opere.

Al Montenegro spetta l’irriducibile Veljko Bulajić, il cui debutto coincide col corto “Oslobodjene snage” (1953) e che attendiamo per l’anno venturo col dramma bellico “Escape to the Sea”, il quale lo confermerà in servizio da ben 65 anni: di lui si ricorda soprattutto “La battaglia della Neretva” (1969, nomination per il miglior film straniero).

I Paesi Bassi possono gloriarsi di aver dato i natali a Paul Verhoeven, voce instabile del panorama internazionale, che mosse dal mediometraggio “Eén hagedis teveel” (1960) per tornare alla ribalta l’anno passato col discusso thriller “Elle” (2016), doppiamente premiato ai Golden Globe; nel mezzo i titoli più iconici, del calibro di “RoboCop” (1987), “Atto di forza” (1990) e “Basic Instinct” (1992) su tutti.

Alla Polonia appartiene un trio capitanato da Roman Polański (per la verità nato a Parigi), esordito nel 1955 col corto “Rower” e atteso nelle nostre sale il prossimo marzo con “Quello che non so di lei” (altresì conosciuto alla lettera come “Da una storia vera”, 2017), padre di pellicole d’indubitabile influenza, dall’opera prima “Il coltello nell’acqua” (1962) al noir “Chinatown” (1974), da “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” (1968) a “L’inquilino del terzo piano” (1976), da “Tess” (1979) a “Frantic” (1987), da “Il pianista” (2002) a “Oliver Twist” (2005), fino a “Carnage” (2011) e “Venere in pelliccia” (2013).

Gli altri membri sono Krzysztof Zanussi, attivo dal 1958 col corto “Tramwaj do nieba” all’anno corrente, in cui sta girando il film storico “Eter”, tre volte in concorso a Cannes e tre a Venezia (fu proclamato vincitore all’unanimità nel 1984 grazie a “L’anno del sole quieto”), e Jerzy Skolimowski, apparso nel 1960 col cortissimo “Oko wykol” e amato e odiato l’ultima volta nel 2015 per “11 Minutes”, vincitore dell’Orso d’oro con “Il vergine” (1967), 5 volte nominato alla Palma (compreso per “L’australiano”, 1978, forse il suo lavoro più noto), 4 al Leone.

Nato nell’ex colonia del Mozambico, il portoghese Ruy Guerra fra il corto “Quand le soleil dort” (1954) e “Quase Memória” (2016) lo possiamo trovare nelle selezioni ufficiali di Berlino in 4 occasioni e 3 in quelle di Venezia.

John Boorman

La rosa del Regno Unito si origina da due individui: uno è John Boorman, cui anzitutto è stato affidato un episodio della serie per famiglie “Southern Affairs” (1959) e più fortunatamente per lui “Un tranquillo weekend di paura” (1972) e “Anni ‘40” (1987), grazie ai quali ha collezionato un totale di 5 nomination agli Academy Awards; rientrano nel suo curriculum anche “Leone l’ultimo” (1970) e “The General” (1998), con cui ha vinto due premi come miglior regista a Cannes, nonché cult come “L’esorcista II – L’eretico” (1977), “Excalibur” (1981) e “Il sarto di Panama” (2001). L’ultima storia che ci ha lasciato è quella di “Queen & Country” (2014).

L’altro è il poliedrico Peter Greenaway, a quota 55 anni, che compiva i primi esperimenti già nel 1962 con “Death of Sentiment”, a qualche decennio di distanza dalle opere più significative: “I misteri del giardino di Compton House” (1982), “L’ultima tempesta” (1991) e “Nightwatching” (2007), in concorso a Venezia, “Il ventre dell’architetto” (1987), “Giochi nell’acqua” (1988), “8 donne e ½” (1999) e “Le valigie di Tulse Tuper – La storia di Moab” (2003), in concorso a Cannes, “Eisenstein in Messico” (2015), in concorso a Berlino, e ancora “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” (1989). Attualmente sta lavorando ad un biopic incentrato sul celebre scultore Constantin Brâncuşi, “Walking to Paris”, previsto per il 2018.

Subito dopo viene Michael Apted, uomo dai gusti contrastanti che s’è mosso fra onorevoli drammi come “Il segreto di Agatha Christie” (1979), “La ragazza di Nashville” (1980) e “Gorilla nella nebbia” (1988), e film ad alta tensione del calibro di “Cuore di tuono” (1992), “Il mondo non basta” (1999) e recentemente “Codice Unlocked – Londra sotto attacco” (2017). Il debutto in sordina è fissato al 1963 con alcuni episodi della longevissima serie documentaria “World in Action”, mentre l’ultimo contributo coincide col 30esimo episodio della serie Netflix “Bloodline” (2017).

Allo stesso livello si trova Kevin Brownlow, irriducibile innamorato del cinema delle origini, da Charlie Chaplin a Buster Keaton, da Rodolfo Valentino ad Abel Gance, da Lon Chaney a Cecil B. DeMille, Oscar alla carriera nel 2011. Si faceva conoscere col corto documentario “Ascot, a Race Against Time” (1961); nel 2015 ha rieditato il proprio “Winstanley” del 1975.

Tre le personalità coinvolte in qualità di directors per 53 anni: in ordine alfabetico si inizia da Hugh Hudson, l’uomo dietro le macchine da presa di “Momenti di gloria” (1981), per cui ha ricevuto la sua unica nomination agli Oscar, “Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie” (1984, nomination al Leone d’oro) e “Lost Angels” (1989, nomination alla Palma d’oro). Fece capolino nel mondo della settima arte col corto “A… is for Apple” (1963); al momento ne ha preso le distanze dopo aver firmato la regia del dramma storico “Altamira” (2016).

John Irvin

John Irvin, scandagliando la non ricchissima filmografia del quale, tesa fra il corto documentario esordiale “Inheritance” (1963) e il biopic “Mandela’s Gun” (2016), si comprende perché in Italia si lasci ancora ricordare con piacere quasi esclusivamente per il “Codice Magnum” animato da Arnold Schwarzenegger (1986).

“Comedy Workshop: Love and Maud Carver” (1964), prova di debutto realizzata Mike Newell, è finita obbligatoriamente adombrata da classici che portano il nome di “Quattro matrimoni e un funerale” (1994), “Donnie Brasco” (1997), “Mona Lisa Smile” (2003), “Harry Potter e il calice di fuoco” (2005) e “L’amore ai tempi del colera” (2007). Restiamo ora in attesa del dramma storico “The Guernsey Literary and Potato Peel Pie Society”, in stato di post-produzione.

Chiudono la classifica due giganti profondamente differenti per poetica, stile e temperamento: Ken Loach e Ridley Scott. L’uno Leone d’oro alla carriera ancora nel 1994, Premio della Giuria Ecumenica per l’intero suo corpus artistico a Cannes nel 2004, Orso d’oro onorario nel 2014, l’altro tributato di una stella nella Hollywood Walk of Fame.

L’uno con 13 film in competizione per la Palma d’oro (fra cui trionfatori, “Il vento che accarezza l’erba”, 2006 e “Io, Daniel Blake”, 2016) e 4 per il Leone d’oro, e in aggiunta 2 ulteriori pellicole votate nuovamente dalla Giuria Ecumenica a Berlino, l’altro sulle spalle 4 candidature agli Academy Awards e 3 ai Golden Globe, un unanime Premio alla miglior opera prima a Cannes (per “I duellanti”, 1977), una sola corsa al Leone d’oro (grazie a “Legend”, 1985).

Sul piano della popolarità su larga scala ha la meglio senz’altro colui in virtù del quale abbiamo visto nel corso degli anni “Alien” (1979), “Blade Runner” (1982), “Thelma & Louise” (1991), “Il gladiatore” (2000), “Black Hawk Down” (2001), “American Gangster” (2007) e “Sopravvissuto – The Martian” (2015). Entrambi comunque hanno cominciato in maniera modesta, con un episodio della serie “Teletale” (1964) e un corto, “Boy and Bicycle” (1965). L’ultimo progetto di Loach risulta essere attualmente l’umile documentario “In Conversation with Jeremy Corbyn” (2016), mentre Scott ci auguriamo non incontri eccessive difficoltà con il riconfezionamento di “Tutti i soldi del mondo” (2017), in cui, a motivo dei noti scandali sulle condotte sessuali dei divi hollywoodiani e non solo, ognuna delle scene comprendenti Kevin Spacey si è scelto di rigirare appoggiandosi a Christopher Plummer.

Jirí Menzel

È il turno della Repubblica Ceca, dove senza dubbio i cinefili vanno fieri di Jirí Menzel, che fra il corto di debutto “Domy z panelu” (1960) e l’ultimo lungometraggio, “Donšajni” (2013), ha sbaragliato la concorrenza agli Oscar con “Treni strettamente sorvegliati” (1966), nonché portato a casa un Orso d’oro per “Allodole sul filo” (1990), e di Václav Vorlíček, meno influente del collega, in attività ufficialmente dal 1953 col corto “Politická karikatura” al 2011 con il debole “Saxána a Lexikon kouzel”, sequel del proprio “La ragazza sulla scopa” (1972), ma quasi pronto a tornare in scena col fantasy “Zlatovláska”.

Spostandoci in Spagna incrociamo uno dei maestri della cinematografica iberica di ieri e di oggi, Carlos Saura: debuttò nel 1956 col corto documentario “El pequeño río Manzanares”, cui fece seguire oltre 30 lunghi di finzione accanto a una buona manciata di documentari, l’ultimo dei quali (“Renzo Piano, an Architect for Santander”) è in fase di realizzazione. È stato selezionato in concorso ben 8 volte a Cannes, 6 a Berlino (vincendo con “In fretta, in fretta” nel 1981) e 3 a Venezia; inoltre in 3 occasioni ha partecipato agli Oscar in rappresentanza del suo Paese, ma non con quello che forse è il suo lavoro meglio ricordato in Italia, lo splendido “Cría cuervos” (1976).

Al suo fianco è un altro veterano, Víctor Erice, regista di soli 4 film nella loro integrità (2 dei quali gli hanno fruttato la candidatura alla Palma d’oro): il più recente porta il nome di “Víctor Erice: Abbas Kiarostami: Correspondencias” (2016); agli antipodi sta il corto “En la terraza” (1961).

La Svezia coccola tuttora uno dei non molti talenti che in passato abbiano potuto competere col titanico Bergman, vale a dire Jan Troell, avviato alla settima arte grazie al corto “Stad” (1960) e congedatosi da essa nel 2012 col biopic “Dom över död man”: il meglio l’ha dato con “Questa è la tua vita” (1966), “Anghingò (1968, 5 premi a Berlino fra cui l’Orso d’oro), “Karl e Kristina” (1971, nominato a 5 Oscar, regia e sceneggiatura comprese), “La nuova terra” (1972, di nuovo agli Oscar), “Bang!” (1977, in concorso a Cannes), “Il volo dell’aquila” (1982, candidato agli Oscar e al Leone d’oro) e “Il capitano” (1991).

A sostegno della Svizzera è ancora vegeto il 93enne Robert Frank, co-regista del corto ideato da Jack Kerouac “Pull My Daisy” (1959), opera prima che per (contenuta) popolarità probabilmente supera tutte le successive, fino all’ultima datata 2009, il misconosciuto package film “Alfred Leslie: Cool Man in a Golden Age”, distribuito direttamente in dvd.

Kira Muratova

Per l’Ucraina (ma sarebbe nata in una località della Romania passata sotto la Moldavia, e comunque per lungo tempo attiva nell’URSS, poi Russia) resiste Kira Muratova, che nel 2012, col dramma “Eterno ritorno”, ha celebrato il proprio 50esimo anniversario dall’esordio col mediometraggio “U krutogo yara” (1962); 4 i film spartiti fra le selezioni ufficiali di Berlino e Venezia nel corso del tempo.

L’ultima nazione che rimane da indagare fra quelle geograficamente riconducibili all’Europa è l’Ungheria: qui non accenna a ritirarsi una donna devota al cinema sin da quando era poco più che 20enne, Márta Mészáros, 63 gli anni trascorsi in cabina di regia, dal 1954 (fra le mani il corto “…és újtra mosolyognak”) al 2017 (alle prese col dramma “Aurora Borealis: Északi fény”), 3 i film in concorso a Berlino (fra cui “Adozione”, 1975, vincitore assoluto), 2 a Cannes.

A 10 anni di distanza parrebbe invece pensionato il grande István Szabó, avviato nel 1959 grazie al corto “A Hetedik napon” e salutato nel 2012 in occasione dell’uscita di “The Door”, conosciuto a livello internazionale per “Mephisto” (1981, Oscar al miglior film straniero), 4 Palme, 2 Orsi e 1 Leone avvicinati senza esito positivo.

Diversa questione per Peter Medak, naturalizzato britannico e vicino più alla televisione inglese e americana che alle sale cinematografiche sin dall’esordio, collocato nel 1965 in corrispondenza di un episodio della serie “Court Martial”; va notato che “La classe dirigente” (1972) si aggiudicò in ogni caso la nomination alla Palma d’oro. Al momento è in fase di post-produzione un documentario intitolato “The Ghost of Peter Sellers”.

Questo è tutto, per adesso: la settimana a venire torneremo a rivolgere lo sguardo al passato, alla ricerca dei pesi massimi, medi e minimi che son passati a miglior vita solo dopo aver celebrato il loro personale cinquantennio di professione nell’alveo della settima arte.

Sottostante nelle info, si trova un assaggio accuratamente selezionato delle produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei virtuosi che sin qui abbiamo incontrato.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

Info

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Link utili

Sequenza d’apertura di “La Pointe-Courte” (Agnès Varda, 1955)

Trailer di “Visages, villages” (Agnès Varda, 2017)

“Stopforbud” (Jørgen Leth, 1963)

Trailer di “Pelota II” (Jørgen Leth, 2015)

“Une femme coquette” (Jean-Luc Godard, 1955)

“Remerciements de Jean-Luc Godard à son Prix d’honneur du cinéma suisse” (Jean-Luc Godard, 2015)

Trailer di “Quello che spara per primo” (Jean Becker, 1961)

Trailer di “Bon rétablissement” (Jean Becker, 2014)

“Les enfants désaccordés” (Philippe Garrel, 1964)

Trailer di “L’amant d’un jour” (Philippe Garrel, 2017)

“La demoiselle et le violoncelliste” (Jean-François Laguionie, 1965)

Trailer de “Le stagioni di Louise” (Jean-François Laguionie, 2016)

“Herakles” (Werner Herzog, 1962)

Trailer di “Dentro l’inferno” (Werner Herzog, 2016)

“Eén hagedis teveel” (Paul Verhoeven, 1960)

Trailer di “Elle” (Paul Verhoeven, 2016)

“Oko wykol” (Jerzy Skolimowski, 1960)

Trailer di “11 Minutes” (Jerzy Skolimowski, 2015)

“Boy and Bicycle” (Ridley Scott, 1965)

Trailer di “Tutti i soldi del mondo” (Ridley Scott, 2017)

“A Hetedik napon” (István Szabó, 1959)

Trailer di “The Door” (István Szabó, 2012)

 

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