“Perché ci odiano” di Mona Eltahawy: le donne islamiche devono acquisire consapevolezza della misoginia

Alle ragazze del Medio Oriente e del Nord Africa: siate impudenti, ribelli e disobbedite, consapevoli di meritare la libertà”. Si apre con questa dedica il saggio “Perché ci odiano”, edito in Italia da Einaudi Stile Libero, scritto dalla giornalista egiziana Mona Eltahawy.

Perché ci odiano

È un libro ruvido, che non fa sconti a nessuno, che racconta con la forza emotiva delle testimonianze dirette, suffragate dall’empirismo delle statistiche, la condizione delle donne nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, quell’universo mondo che respira, lotta e soffre sotto l’egida di un Islam che poco ha a che fare con la religione.

Mona Eltahawy nasce in Egitto e all’età di sette anni si trasferisce con la famiglia a Londra dove cresce in un contesto culturale e sociale tipicamente occidentale. Dopo otto anni si stabilisce con la famiglia in Arabia Saudita, dove entrambi i genitori avevano conquistato un posto di docente universitario a Gedda.

Ma come dice la stessa autriceNiente mi aveva preparata all’Arabia Saudita”. La giovane ragazza, dopo poche ore di volo, si ritrova catapultata nel Medioevo, in un mondo nel quale tutte le donne, di qualunque età, sono obbligate ad avere un guardiano maschio e senza il suo permesso non possono praticamente fare nulla, in un processo di infantilizzazione che riduce le donne a eterne bambine.

Per Mona scoprire giorno per giorno l’umiliante condizione femminile in quel paese fu un vero e proprio trauma che innescò nella sua mente di adolescente la miccia della ribellione, in nome di una uguaglianza ritenuta sacrosanta e sperimentata sia in Gran Bretagna sia in Egitto, prima della partenza.

In Arabia Saudita, è risaputo, si segue una interpretazione ultraconservatrice dell’Islam, ma l’autrice ci dimostra come l’odio per le donne non è una prerogativa esclusiva del regno saudita, bensì un modello sociologico che attraversa gran parte del mondo arabo, non escluso il suo paese di origine, quell’Egitto nel quale la Eltahawy tornerà per vivere in prima persona e raccontare direttamente la condizione delle donne, anche nel periodo della cosiddetta Primavera araba, quella delle rivoluzioni che avrebbero dovuto portare una ventata di libertà e democrazia in tutti i paesi arabi nordafricani.

Attraverso la propria testimonianza (la Eltahawy è stata picchiata, ferita e molestata sessualmente durante una manifestazione pubblica al Cairo) e quelle di molte altre donne, l’autrice ci consegna il ritratto di un paese e di una regione in cui l’odio per le donne ancora si estrinseca e si giustifica in nome di dogmi religiosi di faziosa interpretazione.

Per esempio, l’accettazione della pratica delle mutilazioni genitali femminili, divenuta illegale ma di fatto ancora largamente diffusa, è giustificata anche fra i moderati per essere sicuri che il desiderio sessuale venga stroncato ancor prima di nascere. O anche la sistematica pratica delle molestie sessuali, divenute epidemiche, che diventano colpa della vittima e non del carnefice. Un po’ il “se l’è andata a cercare” di occidentale memoria…

Altra questione sollevata dalla Eltahawy è quella del velo, argomento controverso e costantemente dibattuto anche nei paesi arabi (fatta eccezione per quelli dove è assolutamente obbligatorio e dove quindi non esiste alcuna possibilità di dibattito, come in Arabia Saudita).

Ma perché le donne si velano? Nel libro l’autrice cerca di dare alcune risposte “Alcune lo fanno per devozione religiosa, nella convinzione che il Corano lo richieda. Altre lo fanno perché vogliono essere visibilmente identificate come musulmane. Per altre donne il velo è un espediente per essere lasciate in pace e disporre di maggiore libertà di movimento in uno spazio pubblico, sempre più dominato dai maschi”.

Ci sono altresì donne che hanno visto nel velo uno strumento di ribellione verso l’Occidente. In ogni caso indossare un velo non è un gesto semplice in quanto pregno di significati “donna oppressa, donna pura, donna conservatrice, donna forte, donna asessuata, donna rigida, donna liberata”.

Mona Eltahawy

Quando l’autrice all’età di diciannove anni scopre il femminismo, un mare di domande affolla la sua mente, soprattutto relativamente al tema della necessità da parte delle donne di coprirsi per evitare di tentare il desiderio dei maschi.

Ma perché tale responsabilità deve essere delle donne? Perché non sono gli uomini ad essere sorvegliati se sono così facili preda di tentazioni a sfondo sessuale? L’onere della prova è sempre stato invertito, mai in capo ai maschi, sempre in capo alle femmine, che anche se vittime di violenze finiscono per subirne ulteriori e più pesanti conseguenze.

Da ciò al tema delle violenze e delle molestie il passo è breve. In Egitto, dice l’autrice, praticamente il cento per cento delle donne ha subito almeno una molestia sessuale. Le molestie e violenze sessuali ai danni delle donne vengono perpetrate in nome di una “cultura della purezza” che ribalta l’onere della prova: devono essere le donne a dover evitare di tentare gli uomini.

Purtroppo la consapevolezza di una cultura misogina è ancora troppo lontana: si pensi che secondo un sondaggio del 2008 condotto su un campione di duemila egiziani di entrambi i sessi, quasi tutte le donne intervistate ritenevano che le donne dovrebbero tacere riguardo alle molestie subite per non mettere a repentaglio la propria reputazione. Fintanto che la molestia sessuale viene considerata alla stregua di un qualcosa che offende la reputazione e non invece un reato contro la persona, le donne continueranno a subirne le conseguenze sia sul piano personale che su quello pubblico.

Ma l’aspetto più aberrante riguardo al tema delle violenze sessuali è quello dei “test di verginità”, condotti in maniera diffusa durante le manifestazioni di piazza Tahrir. Una violenza nella violenza.

Il tema della verginità è ancora molto dibattuto nei paesi arabi, soprattutto perché le donne vengono costantemente controllate e qualora nel corso della prima notte di nozze la donna dovesse risultare non vergine il marito è autorizzato a ripudiarla e rimandarla dalla famiglia. Parlare di Medioevo appare quanto meno appropriato.

Ma i temi trattati dall’autrice in questo interessantissimo saggio sono molteplici e riguardano tutti gli aspetti della vita di una donna, ivi comprese le fasi della maternità e della crescita dei figli. Purtroppo la Eltahawy non può fare a meno di sottolineare come sia compito delle donne acquisire in primis la consapevolezza di vivere in un contesto culturale e sociale contraddistinto dalla misoginia, dall’odio per il sesso femminile.

Fino a quando le donne non prenderanno coscienza di ciò e combatteranno la loro battaglia dall’interno dei contesti sociali, non ci sarà emancipazione e non ci sarà libertà.

Le religioni e le culture a dominio maschile, che assecondano la sessualità maschile ricordandosi a malapena dei desideri femminili, farebbero fatica a resistere se non fossero suffragate da molte donne. Io lo so dove nasce quel consenso; conosco bene il bisogno di conformismo. Quel bisogno interiorizza la misoginia e la sottomissione al punto che le madri negano alle figlie lo stesso piacere, lo stesso desiderio che è stato negato a loro, e le chiamano «puttane» se cercano di soddisfarlo. Per sopravvivere, le donne controllano il corpo delle figlie e il proprio, oscurando quel desiderio in nome dell’ «onore» e del buon nome della famiglia.”

 

Written by Beatrice Tauro

 

 

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