Femminicidio: il compito della famiglia e della scuola nell’educazione sentimentale
Qualcosa di rosso alla finestra, fiaccolate, dibattiti, confronti; a volte costruttivi, molte altre, invece, sterili.

Iniziative tutte lodevoli, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica, uomini e donne indistintamente, a proposito del crescente fenomeno del femminicidio.
Ritengo siano importanti tutte le forme di solidarietà, di manifestazioni di sostegno da esprimere alle vittime della violenza. Anche se sono soltanto dei palliativi per coloro che vengono toccati dal male. Male da estirpare in chi mette in atto un qualsiasi atto di brutalità nei confronti di una donna.
Spesso, si fanno molte disquisizioni sull’argomento, che poi non sono così proficue come si potrebbe credere.
Anzi, talvolta sono tendenziose; per esempio nei casi in cui si osserva se la donna colpita portava i jeans o la minigonna, se aveva bevuto oppure no; il tutto per prestare il fianco a discussioni generate spesso per fare ascolti televisivi.
Ma, digressioni a parte, che fare per arginare il fenomeno del femminicidio, in procinto di diventare, se non lo è già, una vera e propria piaga sociale?
In questi giorni, in cui il nome di Noemi, massacrata a colpi di pietra, si aggiunge alla lunga lista di donne ammazzate senza ragione alcuna, se non quella di appartenere al genere femminile, mi sono trovata a riflettere.
E ne ho concluso, che sono assolutamente d’accordo con coloro che propongono una qualsiasi forma di educazione sentimentale agli uomini abituati a esercitare la prepotenza, come unico mezzo di espressione.
Un’educazione che abbia inizio fin dalla più tenera età. Compito questo che spetta alla famiglia, in primis, seguita poi da tutte le altre forme di aggregazione sociale con cui un giovane entra in contatto.
La scuola innanzitutto.
Un’educazione all’affetto quindi, per imparare ad amare, se mai è possibile insegnare a farlo.
Ma che soprattutto metta in luce le ripercussioni positive che scaturiscono da un atteggiamento empatico che dal singolo si riflette poi su tutta la società.
Ma non sono qui per dare indicazioni agli addetti ai lavori, che sanno come infondere nei giovani, o almeno tentano di farlo, tali sentimenti.
Voci autorevoli, sia in tv sia sulla carta stampata, attribuiscono le responsabilità del malessere, che alberga in alcuni maschi, alla società, colpevole in certi casi di non aver fatto abbastanza per strappare al disagio sociale gli individui violenti che abusano di una donna. Coloro adducono scuse e motivazioni fra le più banali che si possa immaginare.

Un’infanzia difficile vissuta dai colpevoli dei gravi misfatti, le violenze subite da loro fin dalla più tenera età, violenze che li hanno portati da vittime, a farsi persecutori.
Discorsi tutti, a giustificazione della violenza esercitata sul corpo di una donna. Ma a mio avviso il male commesso non viene affatto alleggerito da tali motivazioni.
Anzi! È un’aggravante! Perché chi ha subito violenza, qualsiasi forma di violenza, attraverso un percorso di consapevolezza individuale, aiutato ovviamente da una rete di servizi sociali, dovrebbe alienarsi dall’aggressività che si annida come una serpe velenosa nel suo Io.
Siamo dunque in un momento di vero e proprio allarme sociale, che contempla, oltre al gesto estremo del femminicidio che si conclude con la morte della vittima, anche i numerosi stupri di cui la cronaca ci dà conto. Le statistiche parlano di undici donne, se non di più, abusate ogni giorno. Non c’è infatti la certezza su tali dati, quasi sicuramente incompleti, perché molte delle vittime neppure denunciano la violenza subita, sia per sfiducia verso le istituzioni, sia per paura o peggio ancora per vergogna.
Comunque, per arginare tale fenomeno e sradicare il male alla radice (quello che cova nel profondo di tanti uomini) occorre adottare modalità efficaci, e non soltanto vacue parole. Come rispondere quindi a tale emergenza? Con misure forti e definitive.
Cosa voglio sottolineare con questa mia affermazione? Il fatto che non c’è corrispondenza tra il male commesso e le forme di punizione inflitte a coloro che, per scopi biechi e meschini, si permettono di fare del corpo di una donna un uso improprio: ovvero deturparlo senza ragione alcuna, se non per soddisfare un ego smisurato e malvagio.
Dunque, per esplicitare meglio la mia posizione, in quanto mi piace essere propositiva ed efficace, che fare per frenare la strage di donne uccise?
Inasprire le pene innanzitutto, e non dare la possibilità al reo di usufruire dell’esercizio del rito abbreviato per i reati gravi, quale l’omicidio o le lesioni permanenti.
Inoltre, non offrire alcun sconto di pena, amnistie o indulti, o svuota carceri che siano, a questi individui.
Che, oggi, in molti casi, sono liberi di uscire di prigione dopo aver scontato un brevissimo periodo di detenzione. Perché sono numerosi i benefici che vengono loro in soccorso. Basti pensare che per un anno di detenzione vengono condonati circa tre mesi, se il responsabile di un delitto si comporta sufficientemente bene in carcere. Magari stazionando in branda tutto il giorno, sdraiato a guardarsi la tv.
Sono conscia, che l’unico agente deterrente del crimine sia una pena dura: l’ergastolo per l’omicidio, e via di seguito, in proporzione, e in funzione della gravità del reato.
A mio avviso, questo è l’unico modo per agire contro coloro che si macchiano di reati gravissimi nei confronti di una donna. Ma voglio spingermi anche oltre: il femminicidio andrebbe considerato alla stregua di un qualsiasi altro omicidio, e punito di conseguenza.
Da ciò dipende, infatti, la sicurezza di un intero esercito di donne, molte volte invisibili, se non quando si conosce della loro esistenza attraverso i telegiornali.
Spesso mi si viene a dire che il reo va recuperato, rieducato per essere reinserito nella società civile, ed evitargli la reiterazione del reato commesso.
Trovo giusto che questi personaggi cerchino di riscattare il male compiuto. Giustissimo!
Ma devono farlo in un carcere, lì devono essere rieducati, soprattutto attraverso un duro lavoro fisico, limitando così i costi del loro mantenimento, che vanno a gravare sulla collettività.
Questo, perché la cronaca e i dati, anche in questo caso, raccontano una realtà allarmante.

Le stime, infatti, parlano di una reiterazione maggiore di quella che si può immaginare; basti pensare alla recidiva carceraria che conta un altissimo numero di individui!
È impopolare il mio intento? Senza dubbio.
Ma il legislatore, se davvero avesse a cuore la sorte di coloro che hanno fiducia in lui, dovrebbe intervenire sulle leggi che prevedono benefici ai detenuti, benefici nella maggior parte dei casi immeritati; e che prevedono, dopo qualche tempo di essere lasciati liberi di scorrazzare per le nostre città, accompagnati dallo spettro della reiterazione.
Misure queste, che forse arginerebbero il fenomeno delle donne ammazzate, in quanto il “presunto” assassino (infatti non si può definire l’imputato “assassino” fino al 3° grado di giudizio) ci penserebbe due, se non tre o addirittura quattro o cinque volte prima di uccidere, dar fuoco o sfregiare con l’acido il volto di una bella donna, che non ha colpa alcuna, se non quella di aver creduto di poter cambiare la mente di un uomo marcio nel suo Io più profondo.
E ciò, anche perché il senso di giustizia non vada perduto. Ma soprattutto per il rispetto e la dignità strappata brutalmente a una donna uccisa, togliendole anche l’opportunità di una morte dignitosa, come accade quando il corpo della vittima viene gettato come un mucchio di rifiuti, in luoghi inaccessibili, tanto da impedirne perfino il riconoscimento.
Che dire inoltre di coloro che rimangono, familiari e amici della sventurata che involontariamente ha incrociato i passi del suo carnefice? Per loro il fine pena mai è assicurato.
Written by Carolina Colombi