Neon Ghènesis Sandàlion: l’intervista all’archeologo Roberto Sirigu
“Percepisco chiaramente oggi – in Sardegna forse con particolare evidenza, ma non certo in maniera esclusiva – l’esigenza di dare alla ‘storia’ un valore esemplare, che le conferisca la funzione riparatrice di una ‘leggenda’ a cui potersi aggrappare per sostenersi tra le difficoltà del presente. Non si tratta di nulla di nuovo. È questo che da sempre si chiede al passato quando lo si concepisce come mito.” – Roberto Sirigu
Sesta intervista della rubrica made in Oubliette “Neon Ghènesis Sandàlion”, una breve inchiesta su alcuni argomenti che animano gli appassionati di archeologia. Si è scelto di dar voce agli archeologi che, da svariati anni, continuano a ricevere ingiustificabili accuse sul loro eccelso e gravoso operato quale il riportare alla luce un passato non scritto ma da scrivere ed, in taluni casi, da riscrivere.
La nota “fantarcheologia” ha prodotto il disagio di intralciare la divulgazione archeologica “teorizzando” con il sensazionalismo, figlio di quest’epoca di neoliberalismo, veri e propri libri di fantasia senza alcun riscontro con le fonti, con la realtà e con l’investigazione della metodologia scientifica. E se è pur vero che, talune volte, un testo di fantascienza è stato precursore di conoscenze future, in questo caso ci troviamo di fronte a “tesi” che si librano nei territori dell’immaginazione con ambizione di storica realtà; tali e quali a quell’Icaro che, con ali di cera, tentò di avvicinarsi al Sole ed in un primo momento sentì la gloria della sua impresa.
“Neon Ghènesis Sandàlion“, da tradursi con “La Sardegna della nuova nascita”, è quell’attimo che viene dopo la caduta di Icaro, è quel padre, il grande architetto Dedalo, che soccorre il figlio dal mare in cui è sprofondato, cura le ferite e perdona ogni suo azzardo.
Perché il peccato è un nostro dovere di figli, ma ancor più il riconoscerlo per un miglioramento personale e sociale. Citando Jean Jacques Rousseau: “Si deve arrossire per il peccato commesso e non per la sua riparazione.”
Lo scorso sabato abbiamo potuto leggere le argomentazioni (fotografie di questo presente che denotano l’umiltà con la quale uno studioso si approccia all’infinita ricerca di costruzione di “verità”) dell’archeologo Alessandro Usai, ha preceduto l’archeologo Carlo Tronchetti, l’archeologa subacquea Anna Ardu, l’archeologo Alfonso Stiglitz, e l’archeologo Rubens D’Oriano.
Oggi conversiamo con l’archeologo Roberto Sirigu che da trent’anni si occupa di ricerca sul campo in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per la Sardegna e con varie Università italiane.
Roberto Sirigu così si descrive.
“È archeologo: sente di esserlo da molto prima di aver cominciato ad indagare il senso di questo termine e a praticare – ormai da trent’anni – la professione che vi si associa. Il suo lavoro consiste nello scavare le parole – prima della terra – che compongono il golem che chiamiamo mondo, generato dal tempo, per tentare di tradurlo in un discorso dotato di senso, per noi, oggi.
Lo fa in città, in campagna, nei musei, nelle scuole.
Non cerca. Trova.”
A.M.: Quanto la leggenda e l’astrazione hanno mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia?
Roberto Sirigu: Grazie, innanzi tutto, per avermi coinvolto in questo progetto. Per rispondere a questa, come a tutte le altre domande di questa intervista, assumerò come approccio quello di mia specifica pertinenza professionale, ma soprattutto individuale: risponderò cioè cercando di osservare da archeologo la realtà di cui queste domande sono espressione. Non è una precisazione banale né scontata. “Neon Ghènesis Sandàlion” si presenta come un “Progetto di Archeologia in Sardegna”. E io vengo intervistato in quanto archeologo. Quindi, occorre fare chiarezza in merito a ciò a cui facciamo riferimento, quando parliamo di ‘archeologia’. Innanzi tutto, va detto che parlare di ‘archeologia’ significa – etimologicamente – far riferimento ad un ‘logos’: un ‘discorso’; intorno a ciò che percepiamo come ‘archaīos’: cioè ‘antico’, ‘vecchio’, ‘primitivo’; e che perciò ci appare essere ‘arché’: ‘origine’, ‘inizio’, ‘principio’. È, questo, un modo di entrare in relazione col mondo che rimanda ad un’esigenza antropologica primigenia: il bisogno di radicare la realtà che ci circonda in qualcosa che preceda il nostro agire e che dia fondamento alle nostre scelte, nella speranza che ciò possa alleggerire il carico etico che sentiamo gravare sulle nostre azioni. La nascita dell’archeologia – intesa come disciplina scientifica e come pratica professionale – è piuttosto recente nella storia dell’umanità. È infatti a partire dal ‘700, con l’avvio degli scavi di Ercolano e Pompei, che possiamo parlare di pratica archeologica in questo senso. Ciò non solo non contrasta con la mia precedente affermazione, ma ne rappresenta semmai la conferma. Proprio il fatto che l’approccio archeologico come strumento di analisi del reale sia un atteggiamento antropologico radicalmente presente nello sguardo umano ne ha ritardato il manifestarsi come pratica cognitiva e professionale autonoma. E c’è da chiedersi che cosa ne abbia determinato la manifestazione proprio in quell’epoca. E c’è anche da chiedersi cosa rispondeva alle istanze cognitive che l’archeologia aspirerà ad occupare, prima della sua metamorfosi in pratica disciplinare scientifica. È ovvio che non posso qui intraprendere un’analisi approfondita su questo tema, che pongo comunque come premessa al mio discorso. Mi limito a ricordare che chiunque volga il proprio sguardo su una specifica porzione di realtà per cercare di cogliere – in essa e/o nella realtà a cui ci pare appartenere – le tracce del passato che ha generato quella data realtà, fa archeologia. Ora, dal momento che anche le domande che mi vengono qui rivolte, sono parte, espressione, di una realtà, mi chiedo, archeologicamente: quale visione del mondo lasciano trapelare queste domande, cominciando proprio dalla prima: “Quanto la leggenda e l’astrazione ha mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia?” Colgo subito un’evidenza: questa prima domanda e il titolo progettuale che la precede sono un invito ad attraversare una soglia concettuale in cui ‘archeologia’, ‘Sardegna’, ‘leggenda’ e ‘astrazione’ vengono poste, seppure in forma dubitativa, in esplicita connessione logica con l’esigenza degli ‘esseri umani’ di ‘definire e creare la storia’. Ora, detto ciò, sembrerebbe scontato che io mi interroghi innanzi tutto sulla fondatezza e sulla legittimità di tale ipotesi di connessione. Ma, scientificamente, sarebbe scorretto un simile avvio. Ciò che io devo fare prima di ogni altra cosa è prendere atto della realtà e interrogarmi sulle ragioni della sua specifica conformazione. Devo dunque chiedermi: di cosa è espressione questa domanda? Quale realtà ne è – archeologicamente – presupposto e origine? Per rispondere è d’obbligo volgere lo sguardo al panorama sardo. Si usa dire che in Sardegna è in corso un dibattito su questi temi. Credo invece che più propriamente dovremmo parlare di un ‘dibattersi’ sempre più frenetico e disordinato. Mi pare un dato di fatto che, ormai da anni, parlare di ‘archeologia’ in Sardegna, significhi introdursi in un agitato, spesso virulento, vorticare di parole come ‘mito’, ‘leggenda’, ‘storia’, ‘identità’, ‘cultura’. Termini che vengono impiegati con molta – troppa – disinvoltura, e in un clima discorsivo in cui risulta sempre più difficoltoso argomentare. Eppure, sarebbe sbagliato liquidare sbrigativamente la faccenda. Questo ‘disordine’ del discorso che ruota intorno all’archeologia – in realtà, non solo in Sardegna – credo sia il segno di qualcosa che si agita nell’animo di tutti coloro che si immergono in questo ‘dibattersi’: professionisti e non professionisti. Credo che esprima il desiderio e l’esigenza di trovare nel passato ragioni e giustificazioni ad un presente sempre più difficoltoso, drammatico, insoddisfacente; e magari, in quel passato, anche le vie d’uscita dalla palude del presente. Per tornare dunque alla domanda, posso dire che non mi interrogo tanto in merito a quanto la leggenda e l’astrazione abbiano mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia. Di certo, percepisco chiaramente oggi – in Sardegna forse con particolare evidenza, ma non certo in maniera esclusiva – l’esigenza di dare alla ‘storia’ un valore esemplare, che le conferisca la funzione riparatrice di una ‘leggenda’ a cui potersi aggrappare per sostenersi tra le difficoltà del presente. Non si tratta di nulla di nuovo. È questo che da sempre si chiede al passato quando lo si concepisce come mito. Perché l’essere umano ha sempre sentito il bisogno – uso le parole del filosofo Martin Heidegger – di ‘sondare il fondo’ della realtà in cui vive per ‘fondarla’, ossia per ‘dare fondamento’ alla propria esistenza. Secondo la studiosa Aleida Assmann nel mito confluiscono ricordi che appartengono alla ‘memoria vivente’ o ‘funzionale’, le cui caratteristiche sono: “l’essere inerente al gruppo, la selettività, l’eticità e l’orientamento verso il futuro”. La storia assume invece la funzione di ‘memoria-archivio’, ossia “una sorta di memoria delle memorie, che include tutto quanto abbia già perduto una relazione vitale con il presente”. Nella misura in cui l’archeologia si configura, così come ho ricordato, come discorso (logos) sull’antico (archaĩos) inteso come origine (arché) del presente, è chiaro che anche le memorie archeologiche contribuiscono – devono contribuire – attivamente alla costruzione della ‘memoria vivente’ e/o della ‘memoria-archivio’ a seconda della valenza funzionale e quindi culturale che noi vorremo e sapremo loro attribuire. Tutto ciò converge nella edificazione della ‘memoria culturale’ ovvero – cito Aleida e Jan Assmann – la “trasmissione del senso del passato”, ossia il “patrimonio di sapere fondativo dell’identità di un gruppo, che viene oggettivato in dispositivi di memoria o in forme o pratiche simboliche”. Tra queste pratiche, particolarmente importanti e delicate sono sempre state quelle riguardanti la creazione e la gestione dei confini. E sappiamo bene che in tutte le culture ai confini è sempre stata attribuita una intrinseca valenza sacra. Ora, se esiste un limen, un confine estremo e sacro che riassuma in sé simbolicamente tutti quelli possibili, certamente è il confine tra la vita e la morte. È questo il pomerium sacrale per eccellenza. Attraversare tale limite non è cosa concessa a tutti. E non lascia indenni coloro che lo varcano. È un compito, questo che un tempo veniva svolto da figure come gli sciamani, i sacerdoti, i bardi, i griot, i mandarini: quelle figure cioè che la collettività caricava dell’onere di conservare e trasmettere le memorie degli avi. In questo senso, ciascuna di queste figure svolgeva la preziosa funzione di medium: il loro incarico era quello di attraversare il confine sacro che separa i vivi dai morti. La nascita dell’archeologia come disciplina scientifica coincide significativamente con quel fenomeno storico e culturale che chiamiamo Illuminismo. In quel momento razionalità e scienza vengono caricate dell’onere di assolvere gli stessi compiti che prima venivano svolti seguendo percorsi – non solo, ma anche – irrazionali e magici. È stata una scelta che la collettività ha pagato e sta ancora pagando a caro prezzo. Perché razionalità e scienza spiegano – quando ci riescono – la realtà senza preoccuparsi, troppo spesso, di prendersi cura delle esigenze affettive di coloro a cui i discorsi razionali e scientifici sono destinati. Agli archeologi viene affidato dalla collettività l’onere professionale di varcarlo, tale limite. Profanando il pomerium che circoscrive lo spazio dei morti, gli archeologi rendono possibile il dialogo necessario tra i vivi, e i loro ‘antenati’. Certo, non dobbiamo illuderci che si tratti di un dialogo semplice e pacifico. I vivi anzi lo instaurano proprio per placare preventivamente quella che lo psicoanalista Elvio Fachinelli ha chiamato la ‘ferocia degli antenati’ nel reclamare il loro ‘diritto’ a non scomparire dall’orizzonte di senso che connota il vivere di chi è loro sopravvissuto. Se così è, come credo sia, allora ogni archeologo deve sapere che la sua funzione professionale è quella di medium sacerdotale, autorizzato a profanare lo spazio sacrale dei morti per consentire un dialogo con essi. L’archeologia assume così, a mio avviso, i connotati di una pratica funeraria. Per quanto possa sembrare esagerato il tenore di questa mia affermazione, ne ribadisco la necessità. Questo è, per me, fare archeologia. Questo è il mio modo di concepire e praticare il mio lavoro.
A.M.: I nuraghi. Questi nostri sconosciuti. Quali altre culture presenti nel mondo mostrano le stesse caratteristiche delle nostre antiche costruzioni?
Roberto Sirigu: Anche stavolta rispondo attraversando le parole che compongono la domanda. In particolare mi colpisce la comparsa – per ben due volte – dell’aggettivo “nostro”: “I nuraghi. Questi nostri sconosciuti”; e “nostre antiche costruzioni”. Mi pare degno di nota che la tipologia monumentale che designiamo col termine ‘nuraghe’ venga classificata come ‘nostra’. Ma, mi chiedo: ‘nostra’ di chi? Chi è il soggetto collettivo a cui si riferisce quel ‘noi’? Si dirà: ma che domande fai? Tu, Roberto Sirigu, sei sardo, prima che archeologo; e anche la tua intervistatrice, Alessia Mocci, è sarda; e non è azzardato immaginare che anche una buona fetta dei lettori della rubrica che accoglie questa intervista sia composta da sardi. Quindi ecco chiarito da chi è composto quel ‘noi’. Ebbene, anche stavolta la questione non può essere risolta così facilmente. Innanzi tutto, anche ammesso – ma tutt’altro che concesso – che sia del tutto chiaro cosa si debba intendere con l’espressione ‘essere sardo’ se riferita alla nostra contemporaneità, dobbiamo essere consapevoli di un fatto: ciò che il ‘noi’ che fa capolino nella domanda sottintende è un soggetto collettivo che comprende in un unico insieme i ‘sardi’ di oggi e i ‘sardi’ che hanno realizzato quello specifico genere di edificio che chiamiamo – ‘noi’, oggi, non dimentichiamolo – ‘nuraghe’. Ma è legittimo concepire l’esistenza di un simile ‘noi’? La ‘sardità’ può essere legittimamente intesa come ‘categoria dello spirito’ così carica di connotati identitari da attraversare indenne i millenni? È questa, occorre ricordarlo, la tesi formulata con forza da Giovanni Lilliu. È questa la convinzione su cui egli edifica il concetto di ‘costante resistenziale sarda’: la – presunta – capacità dei sardi di resistere a qualunque tentativo di ‘contaminazione’ identitaria, a partire proprio dal momento storico-culturale battezzato dallo stesso Lilliu con l’espressione ‘civiltà nuragica’. Se parlo di questo aspetto della questione non è per eludere il merito della domanda. Ritengo anzi che sia l’unico modo possibile, a mio avviso, per comprendere che se non si affronta preliminarmente questa questione terminologica e concettuale, non si può proprio rispondere, alla domanda. Come possiamo, infatti, prendere posizione rispetto alla domanda: “Quali altre culture presenti nel mondo mostrano le stesse caratteristiche delle nostre antiche costruzioni” se non abbiamo preliminarmente definito quale sia la cultura di cui stiamo parlando e il ‘noi’ che quell’aggettivo ‘nostre’ presuppone? Proviamo a lasciare la parola a Lilliu, per vedere se la sua definizione di ‘civiltà nuragica’ può trarci d’impaccio:
“La lunga tappa della civiltà protosarda, che si svolse durante le età del Bronzo e del Ferro dell’Occidente europeo e mediterraneo, è chiamata, comunemente e tradizionalmente, nuragica. Col nome non si identifica un preciso soggetto etnico né una grande corrente ideale. Fa da supporto, invece, al termine nuragico, il vistoso e singolare fenomeno architettonico del megalitismo a torre, definito, in lingua locale di antico sustrato mediterraneo, «nuraghe» (anche nurake, nuraki, nuraci, nuraxi, nuragi, naracu, ecc.). È una denominazione ovviamente limitativa, ma non riduttiva, perché dietro l’aspetto esteriore e formale del monumento stanno capacità tecnica, impegno economico e forte organizzazione e aggregazione sociale. […] Il fatto architettonico e ingegneristico del nuraghe è, per così dire, la visualizzazione e la cristallizzazione d’uno stato generale di civiltà, ricca di contenuti spirituali e materiali, identificabile in un soggetto nazionale uscito da un amalgama di tribù e popoli, che si è venuto costituendo nell’isola a cominciare dal Bronzo antico, per continuare e definirsi, con progetti e comportamenti di vita sempre più autonomamente elaborati, sino ai tempi pienamente storici del primo imperialismo. Per tutto ciò, a parte l’uso ormai invalso nella letteratura archeologica, il termine di civiltà nuragica resta valido e caratterizzante. Il nuraghe, infatti, tra i tanti altri aspetti che la compongono e la articolano nel susseguirsi dei secoli, rimane di tale civiltà la costante specifica ed essenziale «significante», l’unico termine esplicito e fisso, per la continuità, di riferimento e definizione. Il «segno» del nuraghe, con la civiltà organicamente connessa, è quello che, al pari di noi moderni, ha colpito, in particolare, la storiografia antica.” (Giovanni Lilliu, La civiltà nuragica, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1982, p. 9)
Si tratta dell’incipit del libro intitolato “La civiltà nuragica”, pubblicato nel 1982. Sono parole particolarmente potenti, che sintetizzano l’intero pensiero di Lilliu in merito a ciò che lui pensa – e ritiene si debba pensare – della ‘civiltà nuragica’. Ma oggi, a distanza di 35 anni da quando sono state scritte, la possibilità di riconoscersi nel modello interpretativo – nel paradigma – a cui queste parole rimandano risulta, per me, problematica. Cosa dobbiamo intendere con un’espressione come “stato generale di civiltà”? Come possiamo gestire scientificamente l’attribuzione ad una realtà culturale collocata tra l’età del Bronzo e la prima età del Ferro della valenza di “soggetto nazionale uscito da un amalgama di tribù e popoli”? Quali implicazioni interpretative porta con sé l’accettazione di una lettura del monumento/nuraghe inteso come “costante specifica ed essenziale «significante», l’unico termine esplicito e fisso, per la continuità, di riferimento e definizione” e poco dopo come “«segno»”? Mi si può – legittimamente – obiettare che il problema è solo mio, nel senso che le ricerche che sono state condotte nell’arco di tempo che ci separa dalla pubblicazione di queste parole di Lilliu hanno invece innescato un processo virtuoso che vede gli studiosi impegnati nell’elaborazione di un nuovo modello interpretativo. In parte ciò è vero. Mi permetto però di esprimere una perplessità in merito. Al di là degli innegabili e importanti passi avanti fatti dalla ricerca in questi anni, non vedo emergere dal dibattito scientifico una effettiva ed esplicita volontà di elaborare un nuovo modello che possa dirsi alternativo a quello proposto da Lilliu. Perché si inneschi davvero il processo di elaborazione critica di un nuovo modello interpretativo, credo debba prima accadere qualcosa. E questo qualcosa è un confronto serrato con la figura scientifica e intellettuale di Giovanni Lilliu. Ma c’è una difficoltà. Nel 2007 la Regione Sardegna istituisce il titolo onorifico di ‘Sardus Pater’, che viene assegnata per la prima volta proprio a Giovanni Lilliu. Su Wikipedia così viene definito il ‘Sardus Pater’: “il dio eponimo dei Sardi nuragici”. Ora, l’attribuzione ad uno studioso di una simile onorificenza – una forma di divinizzazione – mostra esplicitamente in quale effettivo rapporto dialogico si sentano in tanti nel momento in cui si accinge a confrontarsi con le sue tesi. E rende anche esplicita la funzione che Lilliu ha saputo svolgere per la collettività dei sardi. Col suo discorso scientifico, Lilliu ha creato una narrazione mitica, ossia ha infuso nella memoria-archivio fatta di dati scientifici la forza vitale che ne ha determinato la metamorfosi in memoria vivente, in mito. Discutere con un interlocutore che ci appare – o ci viene presentato come – dotato di attributi divini non solo non è semplice: non è proprio possibile. Allora, essere consapevoli di tutto ciò ritengo sia la condizione necessaria per riattivare un vero processo di revisione critica della narrazione elaborata da Lilliu. È giunto il momento di avviare una stagione di confronto serio e serrato con Lilliu. E ciò non per arrivare ad una ‘rimozione’ della sua figura. Il suo prezioso apporto alla storia degli studi e, più in generale, della cultura sarda è una realtà che nessuna revisione critica potrà mai, a mio avviso, modificare in termini di valenza storica. Credo però che solo la restituzione di Lilliu all’orizzonte dell’‘umano’ possa creare i presupposti per l’avvio di un confronto critico con le sue tesi che attende di essere pienamente messo in atto. Sono certo che solo un tale confronto potrà condurre ad una più ampia comprensione della complessità della sua impresa intellettuale. Una cosa però non dobbiamo dimenticare. Giovanni Lilliu ci ha offerto una testimonianza preziosa, un’eredità etica che non possiamo eludere: seguendo il suo esempio, e lavorando nel solco della matrice antropologica che ha portato alla nascita della disciplina archeologica, dobbiamo mostrarci capaci di scrivere nuove narrazioni, scientificamente fondate ma miticamente vitali.
A.M.: Quale potrebbe essere la risposta più accreditata per questi ritrovamenti? Che queste culture siano dipendenti da una cosiddetta madre, che la prima rispetto alla seconda sia stata presa come superiore, oppure una risposta che sia piuttosto di convergenza così che culture diverse e distanti fra loro abbiamo avuto lo stesso bisogno ed abbiamo aderito alla stessa soluzione?
Roberto Sirigu: La domanda sembra esprimere un’esigenza sottintesa, ricorrente tra gli appassionati di archeologia, ma non estranea anche alla letteratura scientifica: l’individuazione di una spiegazione univoca e generale per fenomeni eterogenei sia per il loro inquadramento cronologico che geografico. È una possibilità esplicativa che non può essere né accettata né esclusa a priori. Ma come i monumenti sono dotati di identità individuali, anche le risposte devono essere differenziate caso per caso. Devono cioè seguire, non precedere, i dati. Partiamo allora da un’evidenza. Il Mediterraneo dell’epoca in cui vennero edificati e utilizzati i nuraghi – età del Bronzo – vede nascere tipologie monumentali che a noi paiono manifestazioni di una sorta di ‘koiné’: un codice architettonico comune a tutte le culture coeve di cui anche i nuraghi sono espressione, declinato poi in peculiari forme nelle varie aree geografiche interessate dal fenomeno. A cosa dobbiamo ricondurre il carattere di similarità che attribuiamo a questi monumenti? E da cosa dipendono, invece, le differenze? Lasciamo riecheggiare queste domande. L’atteggiamento scientifico si caratterizza proprio per la costruzione di una prassi comportamentale disciplinata, che forma gli studiosi ad acquisire la capacità di sostare su di esse, portando avanti la ricerca finché non si giunge a risposte scientifiche degne di questo nome, ovvero basate su ipotesi capaci di spiegare il maggior numero possibile di fenomeni, e di farlo nel modo più economico dal punto di vista logico.
A.M.: Addentrandoci nell’etimologia, e leggendo molte opinioni, si è concordi che la radice di nuraghe sia “nur” ma non si è concordi con il significato di questa radice. Due sono le ipotesi madre: una che provenga dai fenici e che vede “nur” con il significato di “luce/fuoco” (e precedentemente dai sumeri “ur/uruk), un’altra invece di sostrato mediterraneo vede la definizione “cumulo di pietre/cavità”. Per quale scuola di pensiero patteggi o hai una strada alternativa da mostrarci?
Roberto Sirigu: La prima questione sollevata dalla domanda mi pare essere questa: è corretto – e se sì, sino a che punto – porre questa domanda ad un archeologo? Certo, è vero che anche la ricerca etimologica si alimenta di un interesse archeologico per le origini del presente. Ma l’analisi etimologica di una parola richiede competenze linguistiche ben precise, che esulano in linea di principio da quelle padroneggiate dalla figura dell’archeologo. È altrettanto vero che ogni archeologo che si rispetti deve preoccuparsi di dialogare con le figure che occupano campi disciplinari più o meno contigui al suo. Ma appunto di dialogo si tratta. La figura che deve esprimere pareri competenti in merito a questioni etimologiche è quella del linguista o del glottologo. Ciò detto, posso però esprimere, da archeologo, che impressione ricavo dalla ricezione delle due ‘etimologie’ da te citate. Tu dici che “si è concordi che la radice di nuraghe sia ‘nur’ ma non si è concordi con il significato di questa radice”. E, poco dopo, ricordi le due “ipotesi madre”: “luce/fuoco”, proveniente “dai fenici”; e “cumulo di pietre/cavità”, proveniente da un “sostrato mediterraneo”. Ora, mi chiedo: che parere posso esprimere da archeologo in merito a queste due “ipotesi madre”? Rilevo innanzi tutto che non mi è possibile né ‘essere concorde’ né dissentire con nessuna di esse. So che entrambe le posizioni cercano di cogliere l’origine della parola – quello che tecnicamente si definisce ‘etimo’ – volgendo lo sguardo alle matrici culturali pre-latine attestate in Sardegna: il mondo culturale – e quindi anche linguistico – fenicio, e quello definito ‘sostrato mediterraneo’, a cui si tende a ricondurre il mondo culturale nuragico. Entrambe cioè danno per assodato che il termine non possa trarre origine dall’universo linguistico latino. È fondata questa lettura? Archeologicamente, posso dire che, oggi, la parola ‘nuraghe’ compare così pervasivamente in Sardegna per designare, spesso e volentieri, siti che attestano la presenza quella specifica tipologia di monumento che gli studiosi si sono visti quasi costretti a designare a loro volta con questo termine. Questo dato non dice però granché in merito alla sua origine. L’ipotesi ‘fenicia’ sembra rifugiarsi – non so con quanto fondamento scientifico – nella fase culturale immediatamente precedente a quella romana (dal punto di vista linguistico e culturale, la fase punica è assimilabile a quella fenicia). Ma anche in questo caso, non posso esprimere alcun parere che vada oltre le impressioni personali. L’ipotesi ‘mediterranea’, data per certa da Lilliu – come si evince anche dal passo che ho citato – mostra d’altronde, a mio avviso, una scarsa forza esplicativa. In fondo, a ben vedere, questa ipotesi non fa che tradurre in chiave etimologica la forma architettonica del monumento: che cos’è, infatti, un nuraghe se non un ‘cumulo di pietre cavo’? E quale valenza dobbiamo attribuire all’espressione ‘sostrato mediterraneo’ se non quella di parafrasi di ‘nuragico’? E qui mi fermo.
A.M.: Considerando che il problema maggiore che porta alle diverse vie di interpretazione è la mancanza di dati certi ed il cannibalismo di edifici, come possiamo prospettare la ricostruzione della storia se non con il ritrovamento di nuovi dati? Dunque, quanto è importante ricevere finanziamenti per continuare la ricerca?
Roberto Sirigu: Nuove letture interpretative non sempre e non necessariamente sono da subordinare al rilevamento di nuovi dati. Col passare del tempo, tutti cambiamo. E cambia quindi il nostro modo di osservare il mondo. E questo può essere già sufficiente a consentire nuove letture di dati acquisiti in passato, anche in assenza di nuove acquisizioni documentarie. E se la necessità di sempre nuovi finanziamenti per la ricerca mi pare più che evidente, nel senso che la ricerca esiste nella misura in cui può contare su finanziamenti costanti e strutturalmente commisurati alle proprie esigenze specifiche e concrete, va però detto che le nuove risorse economiche andrebbero destinate non solo all’acquisizione di nuovi dati, ma anche – prioritariamente – all’approfondimento analitico dei dati già acquisiti che spesso restano a lungo in attesa di una più adeguata attenzione proprio a causa dell’esiguità di risorse disponibili, e alla tutela e valorizzazione attenta e rispettosa di ciò che la ricerca ha riportato in luce.
A.M.: Nella stele di Nora ritroviamo in “fenicio” il nome della nostra isola. È il più antico ritrovamento in cui si parla di Sardegna oppure ci sono altre iscrizioni più antiche? E soprattutto sappiamo se i paleosardi (o sardi nuragici o come preferisci) si identificavano con questa denominazione?
Roberto Sirigu: Siamo proprio certi che si parli di ‘Sardegna’, ossia ‘della nostra isola’, nella stele di Nora? Cosa sappiamo in merito alle modalità di autorappresentazione delle comunità che occupavano la Sardegna nella prima età del Ferro (IX secolo a.C.: è questa la datazione della stele)? Siamo portati ad immaginare una modalità di rappresentazione di sé nel mondo antico simile a quella che caratterizza noi oggi. Ma le cose non stavano così. Coloro che noi chiamiamo ‘greci’ si sentivano ‘ateniesi’, ‘spartani’, ‘tebani’. E analogo discorso vale per gli ‘egizi’ e, più in generale, per tutte le comunità del mondo antico. Superata la dimensione urbana, l’identità collettiva vacillava. Chiediamoci dunque: cosa designa realmente quella serie di consonanti – ŠRDN – presenti nell’iscrizione della stele di Nora? Lascio aperta la domanda.
A.M.: La scrittura nuragica. Che il popolo sardo vivesse il presente e non sentisse la necessità di scrivere la sua storia come invece han fatto altri popoli?
Roberto Sirigu: Jack Goody, grande antropologo della scrittura e dell’oralità, ci ricorda che l’invenzione della scrittura ha determinato la nascita dell’analfabetismo. È questa una grande lezione di metodo. Goody ci ricorda infatti che l’oralità, prima dell’invenzione della scrittura, non è – in nessun senso possibile – da classificare come uno stato deficitario rispetto alle fasi segnate dalla scrittura. È semmai proprio l’oralità la dimensione culturale in cui la scrittura nasce e si sviluppa, almeno in origine. E non dobbiamo dimenticare il fatto che Platone esprima nel Fedro, uno dei suoi Dialoghi, alla fine del V secolo (data abitualmente indicata come attendibile per la stesura di questo suo ‘dialogo’) un giudizio radicalmente negativo nei confronti della scrittura, anche se lo fa impiegando proprio il mezzo contro cui il giudizio è diretto: la scrittura, appunto. Se però è ancora questo l’atteggiamento che accompagna la scrittura, in un momento in cui la storia ha ormai fatto i suoi giochi e questo mezzo di comunicazione ha imboccato la strada che lo porterà ad assumere l’attuale potere mediatico, possiamo e dobbiamo provare ad immaginare quanto fossero aperti i giochi nell’età protostorica, quando la scrittura appariva ancora solo una prospettiva all’orizzonte e non aveva ancora assunto i connotati di un ‘destino’ – come ogni ‘destino’, solo apparentemente – ineluttabile. Prima di esprimerci in merito, dobbiamo dunque primariamente intenderci bene in merito a ciò che doveva significare ‘scrivere’, in un arco di tempo che va per lo meno dalla fine del Bronzo antico fino alla prima età del Ferro.
A.M.: Chi sono gli Shardana?
Roberto Sirigu: È il nome che designa uno dei cosiddetti ‘popoli del mare’. Su tutto il resto, non mi sento di dire nulla che vada oltre i connotati di una pura e semplice opinione personale, scientificamente irrilevante.
A.M.: Il problema della divulgazione e la fantarcheologia. Come fermare questo fenomeno e come entrare nelle case dei sardi per sfatare queste “pseudo teorie”?
Roberto Sirigu: L’archeologia ha il dovere di entrare nelle ‘case dei sardi’ non per sfatare la ‘fantarcheologia’, quanto piuttosto per dare il proprio contributo a soddisfare l’esigenza di narrazioni fondative che si dimostrino capaci di accompagnare la fase di elaborazione del lutto collettivo generata dalla perdita dei propri antenati. Un fenomeno che riguarda i sardi come chiunque altro. Come ho già detto, l’archeologo, nel momento in cui viene investito dalla collettività del compito di farsi mediatore tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, deve assumersi le conseguenti responsabilità. Nella misura in cui noi archeologi sapremo assolvere correttamente e fino in fondo la delega etica che la collettività ci ha attribuito, la ‘fantarcheologia’ semplicemente si dissolverà da sé, nella propria ridicola inconsistenza.
A.M.: Quali sono le logiche di mercato che portano a ridicolizzare la Sardegna come Atlantide, e perché non si guarda soprattutto a ciò che abbiamo e cioè l’unica isola che presenta un numero così elevato di costruzioni chiamate nuraghi?
Roberto Sirigu: Alla luce delle mie risposte alle domande precedenti, reputo assolutamente superfluo dedicare ulteriori energie al tema. Tutti hanno il diritto e la libertà di scegliere cosa leggere, cosa ascoltare, cosa credere. A quella libertà consegue la responsabilità per le scelte fatte. Per parte mia, cerco di dedicarmi a costruire una prassi archeologica degna del compito che ho descritto.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Roberto Sirigu: “7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. – Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1922.
A.M.: Roberto ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato. Apprezzo il tuo modus operandi nell’approccio archeologico ed in questa disciplina una mente come la tua è di vitale importanza. Ti saluto con una frase dello stimato filosofo tedesco Martin Heidegger: “Noi non giungiamo mai a dei pensieri. Sono loro che vengono a noi.”
Written by Alessia Mocci
Info
Rubrica Neon Ghènesis Sandàlion
Video “Fuori Roma” a Carbonia con Roberto Sirigu
RAI Sardegna – Ossidiana – Puntata con Roberto Sirigu, Carlo Tronchetti e Sergio Frau
Immenso Roberto. Grazie per questa intervista, di gran lunga la più leale, illuminata, profonda e ricca fra quelle che ho letto fino ad oggi.
Prendo ancora brevemente la parola per ringraziare pubblicamente la Rivista, e in particolare Alessia Mocci per avermi coinvolto in questo progetto.
Reputo che la sua iniziativa denoti coraggio e senso etico non comuni.
Affrontare il mare profondo e agitato del dibattito pubblico sull’archeologia in Sardegna non è cosa facile.
La mia scelta di accettare di rispondere alle sue domande deriva proprio dall’aver percepito in lei questo coraggio di prendere il largo e l’onestà di non nascondere il proprio pensiero.
Grazie, dunque, Alessia.
E grazie a chi mi ha già letto – a te, Pierluigi – e a chi, eventualmente, mi leggerà.
Roberto, ti ringrazio per le tue parole e disponibilità.
Citando James Hillman: “A questo punto, diventa straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente veri errori. L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere.”
Ho apprezzato molto questa intervista, ho colto concreti segnali di sincerità sopratutto nei confronti del dibattito sulla figura di Lilliu e quello che ha rappresentato nella ricerca archeologica della preistoria sarda. In un certo qual modo rende la figura dell’archeologo ad una certa dimensione più umana, se mi si passa il termine, rispetto ad altri archeologi. Ritengo che questo atteggiamento sia da prendere in forte considerazione. Non sono concorde invece con il metodo in cui diverse domande vengono poste. A mio parere si continua ad alimentare un confronto/scontro tra due fazioni, archeologia Vs fantarcheologia. La divulgazione non è un problema perchè o se viene fatta dalla fantarcheologia, intanto perchè esiste ormai molta più divulgazione rispetto al passato, sono cambiati i media, è molto più facile reperire informazioni e farsi un’idea. Occorre smettere di pensare che ci sia solo divulgazione fatta o dall’archeologia o dalla fantarcheologia, non è più accettabile pensare ad un pubblico che si lascia trasportare da tesi e ipotesi mitiche, leggendarie e dai forti connotati identitari. Esistono molti appassionati, studiosi, ricercatori anche di altre discipiline che per fortuna leggono, si documentano e osservano per tentare di dare una risposta a molti dei quesiti che ancora ne l’archeologia ne la fantarcheologia hanno dato.