“Medusa”, album della band Il Giardino: l’amore che fa male, la dipendenza che distrugge
Non giriamoci intorno, già al primo ascolto ti accorgi che “Medusa” è un album suonato, e anche bene. La musica è l’elemento che arriva per prima, sui testi forse devi ragionarci un po’ di più ma non importa, appena concluso l’ultimo brano il secondo ascolto è immediatamente assicurato.
Chi come me si era perso questa giovane band emergente non può che essere contento di questa nuova scoperta. Il Giardino, quintetto sardo capitanato da Alberto Atzori (voce e chitarra), si è impegnato a fondo e il risultato è un album potente, gradevole e onesto.
Non mancano le schitarrate, neanche le urlate, il ritmo è deciso e si avverte chiaramente la qualità della band.
Basta entrare nel giusto mood per dimenticarti che si tratta un gruppo emergente, anzi ti viene come la sensazione di ascoltare Il Giardino da sempre.
“Medusa” è deliberatamente un album rock, e di questo ringraziamo perché ce n’è sempre un gran bisogno; sì lo so, “rock” è una definizione ormai inflazionata, un vestito che indossano, o almeno dicono di indossare, più o meno tutti.
Eppure è così, non c’è una traccia che non richiami quel tipo di sonorità, ma il vero tocco di classe sono i frammenti di elettronica aggiunti qua e là.
La contaminazione risulta evidente, forse è un richiamo alle origini della band quando ancora si chiamavano Garden State; ad ogni modo, pizzichi di synth sparsi un po’ ovunque nelle varie tracce fanno bene alle nostre orecchie.
Sin dalla prima canzone, la stessa che dà il nome all’album, è chiaro l’indirizzo scelto: si apre un riff che fa ben sperare, la batteria fa la sua parte e il resto lo fa la voce di Alberto, una canzone che ricorda gli Skunk Anansie degli anni migliori.
La seconda traccia si chiama “Bel rumore” e niente, nomen omen direbbero i latini, forse il pezzo più radiofonico dell’intero album; a seguire troviamo “Nessun rancore“, in cui ascoltiamo con piacere sfumature più pop.
Invece con “Bambole di carta “abbiamo il brano più politico, a mio avviso il testo più riuscito, perché suvvia, i testi polemici e critici verso la società, le scelte politiche e le mode ci piacciono sempre e comunque: in fondo tutti “Siamo bambole di carta vestite da opinioni “; la quinta traccia è “Vaniglia“, una canzone più intima ma, seppur velatamente, ancora più rabbiosa delle altre.
L’album continua con “Non fare il punk!“(e quanti non avrebbero voluto gridarlo in qualche concerto a qualche finta band?) che si inserisce sulla scia tracciata da “Bambole di carta”, però questa volta si tratta di una critica alle abitudini e le tendenze del momento, con l’invito a ridere di tutti coloro che mancano completamente di personalità e che si lasciano trasportare dalla corrente.
“Cicatrici” è apprezzabile per il suono curato delle chitarre, un richiamo ad un rock più classicheggiante. Infine, l’album si chiude con “Anemone“, l’unica ballata dell’album che ha il pregio di essere intensa, e per nulla melensa.
Insomma, nel complesso un gran bel disco, che ti fa venire voglia di prendere la macchina e guidare, non si sa bene dove purché cantando a squarciagola. O meglio, una direzione ci sarebbe, quella data dalla curiosità che ti spinge a sentire questo album ad un loro concerto live.
Written by Giuseppe Roccia
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