Neon Ghènesis Sandàlion: l’intervista all’archeologo Alfonso Stiglitz
“I miti e le leggende più che fornirci dati storici, ci forniscono una grande quantità di informazioni utili per capire la mentalità, le credenze e i modi d’essere di chi in quei racconti si identificava.” – Alfonso Stiglitz

Seconda intervista della nuova rubrica made in Oubliette “Neon Ghènesis Sandàlion” che punta a metter luce sulle origini della Sardegna e sul disagio della fantarcheologia che ha notevolmente intralciato l’investigazione e la divulgazione archeologica. Lo scorso sabato abbiamo potuto leggere le succulente risposte dell’archeologo Rubens D’Oriano ed oggi si prosegue con l’archeologo Alfonso Stiglitz.
“Neon Ghènesis Sandàlion” da tradursi con “La Sardegna della nuova nascita” è un progetto che si estenderà a numerosi archeologi che hanno studiato e studiano la Sardegna nuragica per donarci nuovi pezzettini dell’intricato puzzle della storia di quest’isola. Per coloro che non ne fossero a conoscenza, i Greci denominavano la Sardegna sia Sandàlion (per la forma di “sandalo” e qui si potrebbe aprire anche un’interessante riflessione sulle conoscenze di questo popolo) sia Ichnussa. E sì, non si nasconde che la denominazione della rubrica è anche un richiamo all’anime Neon Genesis Evangelion.
Alfonso Stiglitz si è laureato in Lettere con indirizzo classico ed orientamento archeologico presso l’Università degli Studi di Cagliari e si è specializzato in Archeologia con indirizzo classico.
È Direttore del Museo Civico e Responsabile della Biblioteca comunicale nel Comune di San Vero Milis ed Ispettore onorario per la conservazione dei Monumenti ed oggetti di antichità e d’arte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Recentemente si è occupato degli scavi di s’Urachi di San Vero Milis e ha in corso un cantiere sulla Sella del Diavolo di Cagliari.
Ed ora mettiamoci comodi per accogliere ciò che Alfonso Stiglitz ha da raccontarci sui suoi studi sulla Sardegna!
A.M.: Quanto la leggenda e l’astrazione hanno mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia?
Alfonso Stiglitz: Intanto bisogna intendersi sul significato del termine storia. La disciplina storica come la intendiamo noi nasce intorno alla metà del primo millennio a.C. con i primi veri e propri storici (Erodoto, Tucidide). Prima di allora abbiamo forme di narrazione storica come gli annali dei vari re o delle città, che riportano le imprese più importanti e funzionali alla gloria di chi governava e alla sua legittimazione. Fino ad allora, il ruolo che da noi svolge la storia era prerogativa del racconto poetico epico (Omero ad esempio) o dei miti. L’uomo, dal momento in cui si muove sulla terra, ha bisogno di affrontare la realtà e di trovare spiegazioni ai fenomeni. In questo la leggenda e l’astrazione hanno un ruolo fondamentale; soprattutto quando l’organizzazione in società sempre più complesse ha portato alla necessità di assicurare i propri diritti, il proprio destino e la propria identità rispetto agli altri, in particolare i vicini; da qui la necessità di racconti che garantissero il proprio spazio nel mondo. In questo senso non c’è differenza tra realtà e fantasia, come la intendiamo noi in termini scientifici: per loro quei racconti erano veri, erano avvenuti in tempi e spazi differenti da quelli concreti ma ad essi strettamente connessi. È il racconto stesso che li rende veri. Un fenomeno che ha dato origine ai miti e che giunge sino ai nostri giorni, parallelo alla storia ‘scientifica’; questo rapporto spesso viene banalizzato con la frase “in ogni mito c’è una base di storia vera”. In realtà non è proprio così: il mito è storia vera per chi vive in e per esso, ma si muove in un “universo parallelo”. I miti e le leggende più che fornirci dati storici, ci forniscono una grande quantità di informazioni utili per capire la mentalità, le credenze e i modi d’essere di chi in quei racconti si identificava.
A.M.: I nuraghi. Questi nostri sconosciuti. Quale altre culture presenti nel nostro mondo mostrano le stesse caratteristiche delle nostre costruzioni?

Alfonso Stiglitz: Non credo che si possano definire i nuraghi “questi nostri sconosciuti”; ormai abbiamo una grande quantità di indagini scientifiche che ci permettono di dare risposte alle domande che ci poniamo davanti a essi; c’è, ovviamente, ancora molto da indagare e le risposte che riusciamo a dare ci portano nuove domande, ma definirli sconosciuti mi sembra eccessivo. È molto alla moda, sa di fascino e lascia volare la fantasia ma è poco realistico. Quanto alla domanda vera e propria, costruzioni a torre realizzate con la tecnica a secco sono presenti in tutto il mondo, in epoche e contesti differenti. È un tipo di costruzione “naturale” per le realizzazioni a secco. Ciò non significa che tutte le torri a secco sparse nel mondo siano nuraghi; anzi possiamo affermare che i nuraghi esistono solo in Sardegna: sono una costruzione originale della nostra isola. Nell’età del Bronzo sono presenti almeno altre due costruzioni per le quali in campo scientifico si parla di collegamenti con i nuraghi, le Torri della Corsica e i Talaiots delle Baleari. Non si tratta di nuraghi ma di costruzioni originali di quelle isole che, però, hanno dei collegamenti, probabilmente delle influenze, con alcune forme dell’architettura nuragica. Invece, l’ipotesi di influenze architettoniche nuragiche su un insediamento “egiziano” in Israele, el-Ahwat, non ha retto all’analisi dei dati di scavo e dei materiali pervenuti; si tratta di un sito cananeo, senza particolari influenze esterne, che ha restituito solo 6 oggetti di importazione (scarabei egiziani) che non permettono di identificarlo né come avamposto egiziano, né come sede degli “Shardana”/nuragici. Al di fuori del Mediterraneo, altre costruzioni delle quali si è spesso parlato (non in ambito scientifico) come una sorta di nuraghi, ad esempio i ‘Brochs’ della Scozia o il ‘Grande Zimbabwe’ dello Stato dello Zimbabwe appartengono a epoche (III-II sec. a.C. i primi, XI-XV sec. d. C. l’altro) e a culture completamente diverse che niente hanno a che fare con la Sardegna e con i nuragici.
A.M.: Quale potrebbe essere la risposta più accreditata per questi ritrovamenti? Che queste culture siano dipendenti da una cosiddetta madre, che la prima rispetto alla seconda sia stata presa come superiore, oppure una risposta che sia piuttosto di convergenza così che culture diverse e distanti fra loro abbiano avuto lo stesso bisogno ed abbiano aderito alla stessa soluzione?
Alfonso Stiglitz: Va detto che in quell’epoca nel Mediterraneo l’arte della costruzione a secco con grandi blocchi di pietra era molto diffusa, si tratta di un tipo di architettura che unifica e definisce, per certi versi, l’età del Bronzo; è anche un momento in cui sono attestati contatti relativamente intensi tra le varie parti di questo mare, con persone, spesso specializzate in una qualche arte, che si muovono sia dalla Sardegna verso l’esterno sia dall’esterno verso la Sardegna. Ciò significa che in siamo in presenza di un humus culturale che, al di là delle importanti e significative differenze e distanze, condivide certe risposte ai medesimi problemi. Oggi si sta sempre più abbandonando, per fortuna, la vecchia impostazione diffusionista, cara all’archeologia otto-novecentesca figlia della mentalità positivista e colonialista, che vedeva la civilizzazione come un percorso unidirezionale dalle società più civili (Civiltà) a quelle più arretrate (culture). I contatti reciproci (pacifici o violenti) tra i vari gruppi sociali permettono di condividere soluzioni, di acquisire conoscenze e di trasmetterle; per cui possiamo parlare di modelli e forme che circolano, perlomeno a certi livelli, senza che necessariamente si abbia un effettivo trasferimento stabile di gruppi di persone, anche se non si esclude che in certi casi questo possa essere avvenuto, ad esempio, attraverso la mobilità degli artigiani (vedi il caso della metallurgia). Solo nel caso trovassimo un insediamento nuragico extra isolano potremmo avere gli elementi utili per uno studio sull’effettivo “trasferimento” architettonico di tipo diffusionistico.
A.M.: Addentrandoci nell’etimologia, e leggendo molte opinioni, si è concordi che la radice nuraghe sia “nur” ma non si è concordi con il significato di questa radice. Due sono le ipotesi madre: una che provenga dai fenici e che vede “nur” con il significato di “luce/fuoco” (e precedentemente dai sumeri “ur/uruk”), un’altra invece di sostrato mediterraneo vede la definizione “cumulo di pietre/cavità”. Per quale scuola di pensiero patteggi o hai una strada alternativa da mostrarci?

Alfonso Stiglitz: Il termine nuraghe è un termine antico, attestato finora almeno da età romana con la forma nurac. Allo stato attuale sono due le attestazioni del termine: una, la più famosa, è quella iscritta sull’architrave del nuraghe Aidu Entos di Bortigali che ci fornisce, forse, il nome specifico dell’edificio: nurac sessar (sempre che quest’ultimo non sia il nome di chi lo possedeva). La seconda attestazione proviene da un diploma militare trovato nell’area di Posada che riporta nur(ac) Alb (-) (oggi diremo Nuraghe Albu). Questi due dati provano l’antichità del termine e l’estraneità alla lingua latina (il nome, infatti, non viene declinato); inoltre, la trascrizione romana ci fornisce anche qualcosa di simile alla effettiva vocalizzazione (sulla pronuncia ovviamente non possiamo sapere). Quanto all’origine la risposta è molto difficile, sia perché non sono un linguista, sia perché abbiamo ancora scarsissime conoscenze della lingua (o delle lingue) nuragica, in assenza di testi e in presenza quasi esclusiva di parole legate ai nomi dei luoghi (toponimi). La vecchia ipotesi di un’origine fenicia, oggi abbandonata in ambito scientifico, risale all’ottocento e fa parte di quelle etimologie, fantasiose, che all’epoca si proponevano in assenza di conoscenze e di strumenti di analisi. Ancora si sapeva poco o niente dei nuraghi e l’archeologia scientifica muoveva i primi stentati passi. L’ipotesi sumera è altrettanto priva di basi, non abbiamo infatti alcun riscontro scientifico di contatti tra il mondo sumero e quello sardo. Rimane, per ora, in campo l’ipotesi di un’origine nuragica, come parte di un sostrato mediterraneo; il problema è che questo sostrato, così come la lingua nuragica sono ancora molto lontani dall’essere definiti nei particolari (vocabolario, grammatica, varianti ecc.).
A.M.: Considerando che il problema maggiore che porta alle diverse vie di interpretazione è la mancanza di dati certi ed il cannibalismo di edifici, come possiamo prospettare la ricostruzione della storia se non con il ritrovamento di nuovi dati? Dunque, quanto è importante ricevere finanziamenti per continuare la ricerca?
Alfonso Stiglitz: In realtà dati certi ne abbiamo; tutto ciò che emerge dagli scavi archeologici è un dato scientificamente certo, quello che possono cambiare sono le interpretazioni, visto che l’archeologia è una scienza storica che si occupa di società, di gruppi sociali, più che di muri o di cocci. Il ‘cannibalismo’ degli edifici è un dato di per sé; peraltro non dobbiamo vedere gli edifici, ad esempio i nuraghi, come qualcosa di statico, di realizzati una volta per tutte e che rimangono mummificati nell’epoca di costruzione. Sono, in generale, edifici “dinamici” con i quali gli abitanti interagiscono di continuo, utilizzandoli, modificandoli, trasformandoli. Quindi, non cannibalismo ma interazione. Il ritrovamento di nuovi dati è fondamentale, non esiste una disciplina scientifica che non si cibi di nuovi dati. L’importante è che i nuovi dati siano inseriti nei loro contesti e analizzati nella loro evoluzione sia temporale sia spaziale. L’elemento tragico in Sardegna e in Italia (visto che siamo ancora parte dello Stato italiano) è lo scarso impegno finanziario rispetto alla ricerca scientifica e archeologica in particolare (La Regione è in questo esemplare, in termini negativi) e rispetto alla tutela. Servirebbero stanziamenti legati a progetti di ricerca e di conservazione scientifici, slegati da propensioni propagandistiche e finalizzati, da una parte, alla conoscenza dell’intera storia dei siti e, dall’altra, alla loro conservazione e fruizione. Progetti che abbiano continuità nel tempo.
A.M.: Nella stele di Nora ritroviamo in “fenicio” il nome della nostra isola. È il più antico ritrovamento in cui si parla di Sardegna oppure ci sono iscrizioni più antiche? E soprattutto se i paleosardi (o sardi nuragici o come preferisci) si identificavano con questa denominazione?
Alfonso Stiglitz: La stele fenicia di Nora, la cui datazione è credibilmente riportabile tra fine IX-VIII sec. a.C. (datazione paleografica), riporta nella terza riga la sequenza di consonanti BShRDN, che può essere divisa in B (complemento di luogo; a/da/in) e ShRDN (toponimo). Si tratta della più antica testimonianza di questo toponimo, la cui vocalizzazione è ignota ma che, in mancanza d’altro riscontro, possiamo legare alla più antica vocalizzazione nota del nome della nostra isola: Sardinia. Il problema è capire se in questo caso venga indicato il nome dell’intera isola o solo del golfo di Cagliari (come ho ipotizzato). Ovviamente, allo stato attuale della documentazione non sappiamo neanche se questo nome era riconosciuto dai nuragici (i Sardi di età nuragica, che non erano paleo, ma assolutamente contemporanei e vivi e vegeti) o meno; non abbiamo evidenza di una entità centralizzata nell’isola e, anzi, al di là del comune sostrato nuragico è possibile notare differenze tra le varie parti della Sardegna. Non sappiamo nemmeno con quale nome (o nomi) identificassero sé stessi.
A.M.: La scrittura nuragica. Che il popolo sardo vivesse il presente e non sentisse la necessità di scrivere la sua storia come invece han fatto gli altri popoli?

Alfonso Stiglitz: In realtà all’epoca dei nuraghi non ci sono popoli che scrivono la loro storia, al massimo alcune case regnanti che scrivono i loro annali per giustificare il proprio potere e la propria legittimità a ricoprire quel ruolo. Il resto sono testi amministrativi, religiosi o pedagogici, sempre legati alle strutture di potere; i popoli tendenzialmente sono muti. Per quanto riguarda il problema della scrittura nuragica dobbiamo intanto specificare se pensiamo a una forma composta da segni inventati dai nuragici o se intendiamo una scrittura altra (ad esempio cuneiforme, fenicia, greca ecc.) riutilizzata, magari con modifiche, per trascrivere la lingua (o le lingue) nuragiche. Allo stato attuale della documentazione e degli studi non abbiamo testi che riportino una scrittura “inventata” dai nuragici o mutuata da altre, per l’Età del Bronzo. Questo è un fenomeno che contraddistingue l’intero Mediterraneo occidentale. Il comparire di scritture “originali” in occidente è fenomeno del I millennio, della cosiddetta Età del Ferro, come ad esempio quella etrusca derivata dal greco e quella iberica di derivazione fenicia. Prima abbiamo solo dei segni, generalmente presenti su ceramiche, in varie parti del Mediterraneo occidentale compresa la Sardegna, ma sono troppo poco e troppo pochi per poterla definire scrittura. Il caso più interessante, perché proveniente da un contesto di scavo e quindi scientificamente sicuro, è quello di uno spillone in bronzo, databile all’Età del Ferro, rinvenuto nella necropoli nuragica presso il tempio di Antas; su di esso sono graffiti cinque segni che apparentemente sembrano riportare alla scrittura cipriota. Cinque segni sono, però, troppo pochi per poter determinare se si tratti di scrittura e lingua cipriota o scrittura cipriota e lingua nuragica o chissà cos’altro. Aspettiamo di avere dei testi che vadano al di là di pochi segni per poter ragionare in termini scientifici. La ricerca si fa con le evidenze scientificamente validate e confermate.
A.M.: Chi sono gli Shardana?
Alfonso Stiglitz: Gli ShRDN (le vocalizzazioni Shardana o Sherden sono invenzioni moderne) compaiono a Ugarit come abitanti della città che svolgono un lavoro, probabilmente di tipo militare, al servizio del palazzo reale: il nome – di cui conosciamo anche la vocalizzazione corretta grazie a uno scriba ugaritico, Sheridanu – secondo i linguisti indicherebbe proprio questa funzione (potremmo tradurlo con il temine “il militare” o “il mercenario”). Nelle stesse fasi storiche a Gubla (la città fenicia che i Greci chiamavano Biblos) compaiono degli ShRDN al servizio del re, mentre in Egitto per alcuni secoli sono presenti sia come nemici, che vengono sconfitti, sia come appartenenti all’esercito egiziano (talvolta svolgono contemporaneamente entrambe i ruoli). Non abbiamo ancora la prova che gli Sheridanu di Ugarit siano la stessa cosa degli ShRDN egiziani. Non sappiamo neanche se possano essere considerati sin dall’inizio un ‘popolo’. La documentazione di Ugarit, infatti, sembra indicare più una funzione che non un etnico. Diversa è la situazione dei gruppi di ShRDN che svolgono servizio presso i faraoni e ai quali vengono attribuite proprietà nel Medio Egitto e che svolgono tutte la attività e la vita degli egiziani in modo totalmente indistinguibile da essi. È probabile che questo gruppo abbia assunto le qualità di un gruppo etnico (‘popolo’) a partire dal momento in cui viene stabilizzato in questa regione. Purtroppo allo stato attuale della documentazione non è stato ancora individuato un solo insediamento ShRDN che ci permetta di poter avere un quadro sociale, culturale, politico, economico di queste figure. È molto discussa l’identificazione o meno degli Shardana con i nuragici, purtroppo soprattutto qui in Sardegna analizzata esclusivamente da un punto di vista ideologico, anche in campo scientifico, più come una rivendicazione di superiorità che non come fatto storico. Le ricerche in corso da alcuni decenni nel Vicino oriente, con scavi archeologici, metodi e modelli scientifici, che finalmente hanno fatto piazza pulita della vecchia Archeologia Biblica, ci stanno fornendo un quadro radicalmente diverso dalle vecchie narrazioni egittologiche sorte tra ottocento e novecento. I dati provenienti dagli scavi realizzati in siti indicati dalle fonti come sedi dei cd Popoli del mare (altra denominazione inventata in epoca moderna), a tell Dor e a tell Akko in Israele, stanno rivoluzionando non solo la consapevolezza della realtà di questi gruppi ma anche le modalità della loro presenza sulle sponde del Mediterraneo orientale. Questi studi ci dicono che, aldilà delle grandi ricostruzioni generali basate su letture parziali e ideologiche delle fonti, esiste una realtà concreta che va analizzata luogo per luogo, strato per strato, reperto per reperto. Lavoro lungo e noioso, magari sconcertante per chi è abituato alle vecchie storie consolatorie, ma che sta finalmente facendo uscire dalle brume della fantasia le donne e gli uomini che furono protagonisti della storia / delle storie di quell’epoca. Di cui furono certamente attori anche i nuragici ma non necessariamente travestiti da fantasiosi Popoli del Mare.
A.M.: Il problema della divulgazione e la fantarcheologia. Come fermare questo fenomeno e come entrare nelle case di sardi per sfatare queste “pseudo teorie”? E quali sono le logiche di mercato che portano a ridicolizzare la Sardegna come Atlantide. Perché non si guarda soprattutto a ciò che abbiamo e cioè l’unica isola che presenta un numero così elevato di costruzioni chiamati nuraghi?

Alfonso Stiglitz: Può sembrare incredibile ma la fantarcheologia è andata crescendo esponenzialmente con diffondersi massiccio della divulgazione (l’ho definito ‘fenomeno sanguisuga’); la possibilità di ampliare l’informazione attraverso gli strumenti informatici e la messa a disposizione gratuita dei testi scientifici (mai di quelli fantarcheologici) che chiunque oggi può leggere dal suo computer, senza fare la minima fatica intellettiva di frequentare una biblioteca, crea una sorta di pseudo-egualitarismo, per cui basta possedere (non necessariamente leggere o capire) questi testi per autodefinirsi ricercatore indipendente e proporre senza il minimo filtro scientifico (neanche grammaticale) qualsiasi teoria. In questo la divulgazione parte svantaggiata. Il ricercatore o il divulgatore scientifico deve attenersi alle regole della disciplina nella quale opera, deve rendere conto delle singole affermazioni e delle sue fonti; deve operare in un campo che non ha tutte le risposte. La scienza non ha risposte a tutto, pone soprattutto domande (a differenza della fede); il fantarcheologo non ha questi vincoli, può prescindere dai dati e dal rendere conto delle sue affermazioni e, soprattutto, ha risposta a ogni domanda, anzi è l’unico che può fare questo. Ed è l’unico che può fare strabilianti scoperte che possono “cambiare la storia del mondo”; quasi una all’anno (anche se il mondo non se ne accorge). La divulgazione parte svantaggiata per altri fattori. Primo la sostanziale, salvo rare eccezioni, assenza di un giornalismo scientifico; basta aprire i nostri giornali per renderci conto della pochezza, se basta una indecente mostra all’aeroporto di Cagliari per avere paginate di giornali ossequianti senza che, anche in presenza di giornalisti che ne avrebbero anche la competenza, si osi fare anche semplici domande problematiche. C’è, in altre parole, una totale sottomissione al verbo (presente, peraltro, anche in autorevoli studiosi pronti a svenarsi per il ‘fanta’ di turno, soprattutto se dotato di un certo potere mediatico). Il secondo fattore è l’assenza, anche qui salvo lodevoli eccezioni, della scuola, incapace di fornire informazione scientifica sulla storia della Sardegna. Non c’è niente che impedisca agli insegnanti di svolgere questo ruolo, salvo forse l’inadeguatezza didattica. Potrei aggiungere un terzo fattore indiretto, la grave crisi economica della Sardegna che porta con sé l’insicurezza sociale e culturale e, direi, psicologica. Questa situazione comporta una profonda sensazione di inadeguatezza, un autentico complesso di inferiorità che la fantarcheologia colma, sfruttandolo ampiamente per i propri interessi privati. Non basta l’eccezionalità della Sardegna nuragica (o delle altre Sardegne), la consideriamo inadeguata, per cui per sollevarci da questa inferiorità dobbiamo essere Atlantide, l’Omphalos del mondo, Shardana o chissà che altro, non basta essere Sardi. Che fare? Continuare a fare ricerca scientifica e contemporaneamente comunicazione, affiancandogli una intensa opera educativa nelle scuole sulla nostra storia e cultura, dalla più antica continuità sino ai giorni nostri. A questo dovrebbe affiancarsi anche il discorso politico, liberarlo dalle pastoie dell’identitarismo fittizio (siamo tutti pronti a proclamarlo in ogni dove, magari a urla, ma non a realizzarlo) e ragionare sulla capacità (da trovare) di autodeterminare il nostro proprio destino. In questo i partiti italiani sono totalmente afoni e quelli indipendentisti pieni di urla a chi è più indipendente dell’altro, l’un contro l’altro armati: tutti pochissimo attenti alla nostra storia e ancor meno consci della sua originalità e articolazione. Lo spaesamento culturale è l’altra faccia della confusione politica. In questo la nostra cultura, le nostre tradizioni i nostri beni identitari sono visti come mera merce turistica, un bene da (s)vendere in funzione del profitto economico: il nuraghe da valorizzare perché porta turisti, il carnevale da trasferire nelle spiagge estive, il ballo come omaggio al “bianco” superiore di turno (ieri i colonialisti oggi i turisti), molto folklorizzato per renderlo più digeribile.
A.M.: Salutaci con una citazione
Alfonso Stiglitz: “Quella frustrante fatica di Sisifo che è la pratica della ricerca, gioco infinito del costruire certezze generatrici di ambiguità”- Paola Sereno, geografa
A.M.: Alfonso ti ringrazio per il tempo che ci hai dedicato e ti saluto con le parole di Socrate: “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.”
Written by Alessia Mocci
Info
Rubrica Neon Ghènesis Sandàlion
Cosa ne pensa A.Stiglitz della barchetta di Teti, confermata essere autentica nel 2013, con segni incisi prima della cottura avvenuta tra l’IX e l’VIII secolo a.c?
Quel reperto mi sembra interessante almeno quanto lo spillone di Antas visto che i segni sembrano esembrano essere grafici.
Bisognerebbe porsi la domanda sul perché gli archeologi considerino irrilevante il reperto malgrado siano state fate le dovute analisi sull’autenticità. Nel frammento ceramico che presenta incisioni a crudo, qualcuno è convinto che appaia un pugnaletto a elsa gammata. Potrebbe essere un grafema dilatato durante la cottura, non capisco perché continuare a insistere su manufatti rinvenuti fuori contesto stratigrafico (vicino al sito di Abini) e non associati a altri materiali peculiari dello stesso periodo. Poi la traduzione quale sarebbe?NuR Hē ’AK Hē ’ABa Hē? Abbiamo già discusso all’infinito che non esiste alcuna scrittura nuragica e fino a prova contraria i reperti proposti finora con traduzioni al limite del ridicolo come il nome di Gavino nello spillone di Antas. I sardi avevano una lingua a noi sconosciuta che non aveva nulla a che fare col semitico, queste forzature sono inutili e controproducenti per la ricerca.
Gentile Pygmalion, considero la barchetta come lo spillone, anche se a un gradino più basso perché di contesto ignoto. Pochi segni, di cui non è possibile capire se si tratta di scrittura. Ma al di là di questo siamo comunque con una manciata di segni, peraltro radicalmente diversi come concezione tra i due reperti, per poter fare credibilmente, in termini scientifici, qualsiasi ragionamento sulla scrittura.
Grazie della risposta.
Anche per la presunte iscrizione dell’askos di Nuraxinieddu immagino si possa fare lo stesso discorso.
Esistono anche altri reperti oltre questi tre?
Ugas ne indica 60, a quali si riferisce?
Buongiorno, prima di tutto non sono della combricola di Gigi Sanna, Aba Losi etc, anche se mi è capitato di leggere i loro blog in passato.
Le teorie di Gigi Sanna non mi convincono per niente e anzi molte sue affermazioni sembrano essere al limite dell’assurdo.
Non è che chiunque si interessi al problema della scrittura nella Sardegna proto storica sia Gigi Sanna, Fabio Garuti o qualche altro fantarcheologo di turno, non voglio pubblicare libri di fantarcheologia, volevo solo il parere di un esperto
Chiarito questo, la barchetta di Teti è autentica, su questo non penso ci sia dubbio ormai, quindi non comprendo l’enfasi sul fatto che non sia stata trovata in un contestos tratigrafico.
Detto ciò, io non ho parlato di scrittura “Nuragica”, anche perchè convenzionalmente i Nuraghi non furono più costruiti dal 1100 a.c.
Lo spillone di Antas, la barchetta di Teti, l’iscrizione incisa nell’anfora di tipolgia Sant’Imbenia ritrovata in Iberia, sono tutti indizi che alcuni Sardi scrivessero già nel primo ferro, dopo tutto, dato che convivevano con i Fenici a Sulky, e poco più tardi a Monte Sirai, dato che Sant’Imbenia era un insidiamento portuale che ospitava Levantini, mi sembra ragionevole che qualche Sardo possa aver iniziato a fare uso della scrittura in quel periodo.
Ora capisco che la maggior parte delle persone non riesca ad avere una posizione equilibrata: O Shardana Atlantidei civilizzatori del mondo, o deficenti retrogradi, io non la vedo in nessuno dei due modi, so che sono stati creati innumerevoli gruppi Facebook, blogs, e litri di sangue sono stati versati durante questa grande guerra, sono lieto di non averne mai fatto parte, ma sembra che purtroppo non si possa non essere di parte neanche su fatti evvenuti 3mila anni fa, pazienza.
Per aiutarci a sgombrare la testa dalle idiozie dei fantarcheologi