Artemisia Gentileschi, una donna che va oltre il suo tempo

Di Artemisia Gentileschi, pittrice vissuta nella prima metà del XVII secolo, si potrebbe dire molto.

Prima di ogni altra cosa, che fu donna di grande personalità e di raro talento.

Artemisia Gentileschi – autoritratto – allegoria della pittura

Ma la cosa che più di altre si evince è di essere stata una femminista ante litteram.

Per afferrarne però le sue qualità, e apprezzarne la sua arte, occorre seguire il filo cronologico che dipana la sua esistenza. Facendo un passo indietro, lì dove tutto ha avuto inizio. Per l’esattezza a Roma, nel 1593, anno in cui Artemisia Gentileschi vede la luce.

Primogenita di Orazio Gentileschi, fin da piccola denota un talento superiore a quello dei suoi fratelli maschi. Ed è grazie alla frequentazione della bottega di suo padre, il quale dà ampio spazio alla creatività della figlia, che la ragazzina fa esercizio di disegno, oltre che dell’impasto dei colori, i quali daranno lucentezza ai suoi dipinti.

Altrimenti, in quanto femmina, le sarebbe stata preclusa l’opportunità di affermarsi in qualità di pittrice. Perché pittrice la giovane lo è completamente, nella più totale accezione che questo termine contempla.

È fatto noto che all’epoca la donna non occupava alcun ruolo sociale, tantomeno mansioni lavorative, e se svolgeva un qualsiasi incarico professionale lo faceva in clandestinità.

Artemisia invece, è aiutata a sviluppare il proprio estro artistico grazie all’ambiente in cui è inserita, e alla frequentazione di pittori, amici e colleghi del padre, attraverso cui incrementa la sua vena artistica.

E raggiungendo la parte più recondita di sé si cimenta in opere di maturità pittorica di notevole valenza.

“Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir da dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”.

Così afferma Orazio Gentileschi in una missiva destinata alla Granduchessa di Toscana nel 1612. Evidenziando, che in soli tre anni, la figlia ha raggiunto una competenza superiore a quella di pittori già affermati.

Importante per Artemisia è la conoscenza della pittura del Caravaggio, forse filtrata dal padre o appresa entrando direttamente in contatto con Michelangelo Merisi.

A questo punto la giovane dà vita a una delle sue opere più significative, che sancisce il suo ingresso nel mondo dell’arte: Susanna e i vecchioni, del 1610.

Susanna e i vecchioni – Artemisia Gentileschi

Opera prima della diciasettenne, è dipinto in cui emerge sia il realismo del Caravaggio sia l’influenza della scuola bolognese che prende le mosse da Annibale Carracci.

La datazione dell’opera è alquanto controversa; pare infatti che il quadro sia retrodatato al 1610, anche se dipinto nel 1611. E controversa è anche la speculazione che nasce attorno al dipinto; si dice infatti che il padre l’abbia aiutata a realizzare il capolavoro. Ma poco o nulla è dato sapere in proposito, anche a causa della scarsa documentazione esistente.

Il dipinto custodisce in sé riferimenti ben precisi della Gentileschi: è da considerarsi perciò opera autobiografica.

La rappresentazione pittorica dà corpo a una scena impressionante; il nucleo pittorico infatti mostra   un’esplicita forma di violenza, nella quale è raffigurata una donna costretta a sottostare al volere di due uomini. Di cui uno è presentato con la barba, come era d’uso portare all’epoca, e l’altro ha le sembianze di Orazio Gentileschi. Entrambe le figure possiedono molto pathos, se paragonate al quadro del Caravaggio dall’identica tematica.

Volendo offrire una lettura psicologica della composizione, si può affermare senza dubbio che Susanna e i vecchioni è specchio di un desiderio di compensazione per un sopruso subito, oltre che tramite per lanciare un’accusa nei confronti del suo stupratore, da parte della donna lì raffigurata.

La giovane rappresentata ricorda chiaramente Artemisia, violentata in giovane età da Agostino Tassi, pittore squattrinato e dalla più che dubbia moralità.

Fu il padre, ingenuamente, ad affidargli la figlia affinché le insegnasse la prospettiva. Non immaginando certo che approfittasse dell’innocenza della ragazzina.

La drammatica vicenda, che segna Artemisia nel profondo, ha un seguito processuale, in quanto Orazio Gentileschi querela il Tassi presso lo Stato Pontificio.

In quel tempo lontano era d’uso, che nei processi per stupro, le donne venissero torturate; al fine di verificare la loro attendibilità e “purificate” dal disonore subito. Sorte che è anche di Artemisia, la quale subisce lo schiacciamento delle falangi: suo strumento di lavoro per eccellenza.

Ma, con estremo coraggio, la ragazza non vuole ritrattare la propria deposizione contro colui che ha abusato del suo corpo. Solitamente, a sanare il torto subito, interveniva un matrimonio riparatore che metteva fine alla controversia”.  Ma ciò non fu possibile, in quanto il Tassi era già sposato. Si decide quindi per una lieve condanna che viene stimata in denaro.

Per Artemisia però, il cammino per essere risarcita dal male subito è lungo e difficile. Anche se ha dalla sua parte la passione per la pittura, la quale le offre notevoli gratificazioni.

Dopo poco si unisce in matrimonio con un pittore mediocre e si trasferisce a Firenze; ma per firmare le proprie opere sceglie di assumere il cognome materno: Lomi. Forse per emanciparsi dalla figura paterna.

A Firenze si afferma come pittrice di raro talento, ottiene un promettente successo e diviene anche la prima donna a godere del privilegio di essere membro dell’Accademia fiorentina delle arti e del disegno.

Nel frattempo intreccia un’amicizia sincera con Michelangelo Buonarroti giovane, nipote del più celebre Michelangelo, e stabilisce un rapporto epistolare con Galileo Galilei.

Col padre, invece, cessa ogni tipo di rapporto, nonostante i suoi insegnamenti.

Giuditta con la sua ancella – Artemisia Gentileschi

Da Orazio infatti prende un’evidente disciplina della rappresentazione grafica, implementata da una forte venatura drammatica. Sarà questa una caratteristica che contribuisce alla diffusione del caravaggismo a Napoli, città in cui Artemisia Gentileschi si trasferirà.

Ma prima di raggiungere Napoli, per un certo periodo torna a Roma, suo luogo di nascita.

Naufragato nel frattempo il suo matrimonio e raggiunta una certa indipendenza, cerca di indirizzare alla pittura le figliolette: purtroppo senza alcun successo.

La Roma di quegli anni è pregna della presenza dei pittori caravaggeschi, ma il suo soggiorno, in cui molto aveva sperato, non è così ricco, professionalmente, come avrebbe desiderato.

Omaggiata anche da celebri letterati, pur rimanendo una delle pittrici più importanti, sia per la sua abilità nel rappresentare dettagliatamente le fragilità umane e i sentimenti, le sono precluse opere quali le pale d’altare e i cicli degli affreschi.

Un esempio del suo talento è Giuditta con la sua ancella, opera la quale riflette la sua capacità di ricreare effetti chiaroscurali, plasmati attraverso il lume di candela.

Dalle sue opere traspaiono rabbia e dolore insieme, oltre che protesta contro la violenza: grido di sofferenza e ribellione che Artemisia non smetterà mai di lanciare.

Ancora alla ricerca di conferme, Artemisia si reca a Napoli, dove trascorrerà il resto della sua vita.

La città è un crogiuolo di fermento artistico, dovuto alla presenza del Caravaggio, Annibale Carracci e e altri nomi illustri della pittura del ‘600.

Qui, per Artemisia c’è un nuovo esordio artistico, rappresentato da L’annunciazione.

A interrompere il suo soggiorno partenopeo si interpone un breve periodo in Inghilterra, durante la quale raggiunge incontra il padre, impiegato presso la corte di Carlo I, appassionato collezionista.

Padre e figlia si ritrovano legati da una cooperazione professionale, e anche Artemisia sarà chiamata a corte per manifestare la sua bravura pittorica. Fino al 1639, quando Orazio Gentileschi viene a mancare.

Nel 1642, la pittrice, in sentore di guerra civile, lascia l’Inghilterra per fare ritorno a Napoli.

Già in contatto con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia, riprende un’attività piena e ricca, fino a quando, all’età di sessant’anni, nel 1653, per lei sopraggiunge la morte.

Sono alcune dissertazioni, a carattere femminista, che negli anni ‘70 pongono l’attenzione sulla figura di Artemisia Gentileschi, eleggendola a icona del femminismo internazionale.

Diventa così simbolo di riscatto e protesta contro la violenza subita dal genere femminile, spesso oggetto di soprusi da parte degli uomini.

Artemisia Gentileschi – autoritratto

A dare valenza alla figura di Artemisia Gentileschi è il ritratto che emerge dalla sua vita. Ovvero di una donna impegnata a rincorrere sia la propria indipendenza materiale sia l’affermazione artistica, dibattendosi fra le numerose difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua travagliata esistenza.

Ma, elemento più rivelante, che fa della pittrice una paladina delle donne, è il coraggio e la fermezza assunta durante il processo per stupro. Aiutata dalla sua forte personalità, lotta con determinazione contro i pregiudizi dell’epoca, e nella fattispecie delle donne pittrici.

Perché dedicarsi alla pittura nel XVII secolo era una scelta atipica, e contemplava un percorso irto di ostacoli da affrontare. Ed Artemisia fa fronte a tale complessa situazione con il solo strumento da lei posseduto: il suo raro talento artistico; inserendosi con la sua produzione, vasta e interessante, nella cerchia dei pittori più apprezzati del suo tempo.

Ancora, a proposito del suo linguaggio pittorico, un’importante sottolineatura da fare è quella offerta dalla forza espressiva svelata dalle sue opere. Prendendo il via da Susanna e i vecchioni, dipinto il quale testimonia la violenza subita, passando poi per i soggetti rappresentati in altre sue opere: nelle eroine bibliche raffigurate si può leggere tutta la ribellione e la condizione in cui sono condannate a causa del loro sesso.

Dunque, per dare un’onesta interpretazione dell’opera di Artemisia, è corretto ribadire l’alto profilo artistico che la storia ha consegnato alla Gentileschi.

Così, come si è pronunciato lo studioso Roberto Longhi in un saggio del 1916.

“L’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura colore e impasto e simili essenzialità…”

Sarà ancora il Longhi a offrire un’interessante lettura del dipinto di “Giuditta che decapita Oloferne”, in cui i colori emergono squillanti, mentre le luminescenze seriche degli abiti, fra cui l’inconfondibile giallo, danno l’idea di un perfetto realismo impresso.

Oltre al Longhi ci furono anche gli studi di sua moglie, Anna Banti, che dalla figura di Artemisia ne trasse un romanzo; la cui prima stesura del 1944 andò perduta a causa delle vicende belliche.

Tre anni dopo la Banti editò il lavoro in una forma diversa, quella di un diario aperto, nel quale cercò di spiegare a se stessa il fascino che Artemisia ha sempre esercitato su di lei. Fascino che va oltre alla valutazione artistica che si può dare della Gentileschi.

 

Written by Carolina Colombi

 

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