Festival del Cinema Spagnolo 2017: “La mano invisible” di David Macián
Un solo titolo al Festival del Cinema Spagnolo trevigiano s’è vista assegnata una proiezione singola: in compenso, godeva della presenza in carne e ossa del proprio regista, David Macián.

“La mano invisible” è l’opera prima di un 36enne dalle idee davvero ben chiare, maturate in seguito alla realizzazione di alcuni corti e poste sotto l’egida di un indirizzo stilistico e produttivo sperimentale.
In queste settimane il film sta vivendo una distribuzione underground in patria, nell’attesa di approdare niente meno che al Parlamento Europeo, similmente a quanto accaduto al nostro splendido “Fuocoammare” poco più di un anno fa.
Tratto dal romanzo omonimo di Isaac Rosa (2012), se ne discosta dall’impianto, in origine schiettamente saggistico, per abbracciare una linea drammatica più narrativa.
Apre i battenti uno show televisivo che ha per protagonisti un’addetta al montaggio, un cameriere, una donna delle pulizie, un informatico, un macellaio, un magazziniere, un meccanico, un muratore, un’operatrice di call center, una sarta, a trasmissione avanzata persino una prostituta convertita a servizi socialmente utili.
Posti in uno studio dalle pareti oscure e indefinite, unica location che ci è concesso conoscere, viene loro chiesto di eseguire le loro specialità per intere giornate sempre nella stessa maniera, ricorrendo ai medesimi gesti e con la medesima precisione.
L’attività assume però un andamento improduttivo: particolarmente, il macellaio getta la carne preparata direttamente nella spazzatura, il muratore erge pareti che più volte al dì è tenuto ad abbattere.
Sfruttando la valenza dei paragrafi in cui il contratto firmato da ognuno non appare illuminante, accade che la misteriosa “compagnia” metta a dura prova le prestazioni aumentando la mole di incombenze e minacciando detrazioni dallo stipendio.

Il disaccordo fra i protagonisti del reality su come reagire alle provocazioni non può che acuire la tensione generale.
“Bienvenido al espectáculo del trabajo” recita la locandina, motto che probabilmente renderebbe fieri gli autori di “Black Mirror”.
Definita da alcuni il “Tempi moderni” degli anni 2000, la fatica di Macián mette in campo con sorprendente tenacia metodologica uno dei temi più scottanti della nostra attualità.
La “galassia lavoro” viene proposta e riproposta in tutta la sua emblematica spinosità, evidenziando nell’osservanza di un infallibile andamento modulare il contrasto furioso tra dignità del salariato e abuso di potere da parte del padrone, tra vacuità della sovrapproduzione e malessere tangibile di chi vi spende la propria salute: dicotomia riassumibile in breve nel principio “tutta azione e niente ragione”.
I volti del cast, volutamente sconosciuti in rappresentanza di una comunità anonima eppure straordinariamente indovinati nelle loro risorse espressive, se sul set obbediscono naturalmente alle indicazioni registiche ma anche in larga parte a una serie di precise scelte drammaturgiche condivise fra tutti i membri della troupe (per questo si tiene a marcare lo status di “película cooperativa”), nelle trame del racconto finiscono irretiti in un sistema di subordinazione assoluta architettato in ogni dettaglio e variazione.
Non è un caso ad esempio che la centralinista compili sondaggi sulla sfera occupazionale o che i casting cui è sottoposto ciascuno dei partecipanti si soffermino sui sentimenti di serenità o disagio sollecitati da una sorveglianza certa e purtuttavia inafferrabile.

A corroborazione della perversa efficienza del programma sta l’immanenza dei supporti di ripresa e di un irrequieto pubblico vigilante entrambi fuori da qualsiasi portata del gruppo, che come un pugno di gladiatori in un’arena può in poche battute conquistarsi o giocarsi il favore di chi gode nell’abbassarlo a strapazzato oggetto di intrattenimento.
Quid aggiuntivo di capitale rilevanza è l’ineccepibile pulizia formale attuata dal giovane cineasta a capo della squadra, non in sé frutto di una qualche dichiarabile ispirazione di carattere estetico bensì limpida, spontanea inclinazione, a differenza di quanto registrato a livello contenutistico, dove invece è esplicito il riferimento alle maratone di ballo su cui ruota “Non si uccidono così anche i cavalli?” (1969) di Sidney Pollack.
Il ferreo e non per questo anempatico controllo strutturale giova grandemente perciò a riflessioni ragguardevoli come quelle inerenti lo sfruttamento sul fronte umano e professionale e il polivalente parametro dello sguardo, recuperando la celebre teoria economica di Adam Smith per aggiornarla alle moderne critiche sull’esilità di una coscienza di classe che ancor oggi manca a milioni di schiavi a loro volta invisibili in un panorama globalizzato e iper-manipolato, senza mancare infine d’incidere, e in profondità, sul piano emozionale dei veri fortunati spettatori.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni