FEFF 2017: Sezione Creative Visions – “Made in Hong Kong” di Fruit Chan

Mercoledì sera, mentre su Udine piove a dirotto, gli applausi scrosciano calorosi accogliendo l’atteso ritorno di Fruit Chan, stimato maestro cinese riportato all’attenzione del pubblico grazie al primo, importantissimo restauro promosso dal Far East Film Festival.

Made in Hong Kong di Fruit Chan

Un titolo fortunato come Made in Hong Kong”, affidato alle cure del laboratorio asiatico de L’immagine Ritrovata, non poteva che ricevere una standing ovation alla sua conclusione presso il Teatro Nuovo, dove Oubliette Magazine in qualità di web media partner è ormai habitué; vincitrice agli Hong Kong Film Awards nelle categorie dedicate al film, alla regia e all’attore esordiente, quindi precocemente cancellata dal panorama mediatico e preclusole ogni supporto di visione, la pellicola resuscita in formula digitale dal proprio pensionamento coatto e torna in campo a 20 anni dall’esordio in tutto il suo iconico fascino, si spera prossima infine ad un progetto di mercato che la ponga finalmente in circolazione.

Non a caso sorprende ancor oggi la forza con cui un cineasta tutt’altro che affermato, anzi al suo primo lungo di rilievo, scritto e condotto in solitaria con un budget ridottissimo nel 1997, anno per l’isola del passaggio dall’epoca del colonialismo britannico a quella dell’amministrazione speciale operata dalla Cina, abbia messo in scena una storia bellissima, un racconto di sogni e ribellioni ambientato nei reali quartieri malfamati dove scorrazzano dei “ragazzi di vita” di pasoliniana memoria, solo un quarantennio dopo in un altro continente.

Gente povera che non va a scuola, addestrata a compiere piccoli furti, a spacciare, a minacciare, massacrare di botte o uccidere al soldo del primo affidabile offerente, mentre la polizia pare non esistere, lasciando che le rivalità, le vendette a sangue freddo si consumino fra le “triadi” delle borgate.

Un giorno una ragazzina si getta da un palazzone, accanto al suo corpo esanime una lettera insanguinata. Raccoglie il messaggio Sylvester il ritardato (Wenders Li), protetto del nostro protagonista To Autumn Moon (lo scattante Sam Lee, al suo primo ruolo da adulto dopo una breve parentesi infantile), il quale una volta lettone il contenuto comincia a sognare la defunta Susan e a… bagnarsi per lei.

Le provocazioni aumentano quando, eseguendo la propria attività di recupero crediti, arriva alla casa di una signora gravemente indebitata la cui figlia Ah Ping (Neiky Yim) lascia un segno indelebile nel cuore del gagliardo esattore.

Made in Hong Kong di Fruit Chan

Se Sylvester, di volta in volta che la ragazza esce coi due, dimostra la sua eccitazione soffrendo d’incontrollabile epistassi, Moon se ne innamora sinceramente, comincia a sentirsi cambiato nel profondo, arrivando a scoprire un’innata gentilezza rimasta muta per anni, sentimento che si rispecchia nel rispetto nutrito verso il corpo di lei, un vero onore vista la politica sessuale imperante fra i coetanei, e ancor più nella volontà di donarle il proprio rene per salvarla da un cancro incurabile.

L’originalità dell’approccio emozionale e stilistico al soggetto permette a Chan di muoversi con agilità e grande prestanza immaginifica nella costituzione progressiva della vicenda in sé come nella costruzione vera e propria delle sequenze: da un lato infatti è resa incredibilmente tangibile l’energia prorompente degli adolescenti e giovani adulti, la loro impertinenza e volgarità, ma anche la genuinità che sperimentano nel sognare un futuro diverso (ed è qui che il ragazzo sicuro e baldanzoso, presentatosi a più riprese autonomamente agli spettatori durante l’intera durata dell’opera, viene illuminato nel suo lato vulnerabile, quello cosciente di non avere uno spazio autentico nel mondo, specie dal momento in cui persino la madre lo abbandona), oltre alla naturale grazia che emerge d’istinto nelle manifestazioni d’attrazione erotica.

D’altro canto, la messinscena e l’intreccio che ci vengono proposti non lasciano certo indifferenti per la loro autoriale spigliatezza, cui è sotteso l’entusiasmo dilagante promosso dalla sceneggiatura mai piana e dalle performance in tutto vicine al sentire comune (basti pensare, fra tutte, al piccolo gioiello poetico che si dimostra essere la scena al cimitero), nonché l’impronta decisa applicata dal regista nella creazione degli spazi scenici (il dinamismo delle macchine da presa), dei tempi narrativi (l’ampio ricorso al ralenti), nella combinazione di entrambe le componenti (la sovrapposizione di dialoghi e inquadrature aliene).

Made in Hong Kong di Fruit Chan

È ancora lo stesso Chan a svicolare, con lo pseudonimo di Sam-Fat Tin, fra i tagli di un montaggio ardito e personalissimo che contribuisce a mantenere vivissima l’attenzione sullo schermo, illuminato da una fotografia pastosa posta a evocare il calore del luogo, la focosità del sangue che scorre, e pure indirettamente, assieme alla scarsa qualità del sonoro, lo status che contraddistingue “Made in Hong Kong” quale prezioso prodotto d’artigianato, reliquia oggi condotta al suo fascino originario.

Dimostrando di non dimenticare affatto l’ineluttabile tragicità del reale, che finisce per impossessarsi di tutto e tutti, l’autore conquista in pieno diritto la platea, alla maniera in cui possono esserci riusciti occupandosi d’altri generi, con altri mezzi e cast di opposta natura un Quentin Tarantino o uno Xavier Dolan.

 

Voto al film

 

 

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

Info

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