FEFF 2017: Sezione Documentari – “Mifune – The Last Samurai” di Steven Okazaki
Udine. Fra i tre documentari presentati al 19esimo Far East Film Festival nella sezione dedicata, anch’essa assaggiata da Oubliette Magazine web media partner, senza dubbio spicca il settimo lungo per il grande schermo (in versione director’s cut) firmato da Steven Okazaki, nominato in passato quattro volte all’Oscar e risultato vincitore nel 1991, candidato al Festival di Venezia del 2015 per il premio al miglior documentario sul cinema proprio grazie a “Mifune – The Last Samurai”.

È il ritratto onesto e comprensivo di uno dei volti più iconici dell’età aurea del cinema giapponese, Toshirō Mifune, dall’esordio nel 1947 ai grandi successi ottenuti con la Toho (quella di “Godzilla”) e in particolare coll’adorato mentore Akira Kurosawa (coppia fortunata dal 1948 al 1965), dalla delocalizzazione oltreoceano avvenuta sull’onda degli apprezzamenti stranieri alle crisi affettive e al conseguente annebbiamento della conquistata popolarità in patria, fino all’ultima apparizione nel 1995.
“L’angelo ubriaco”, “Cane randagio”, “Rashômon”, “Scandalo”, “L’idiota”, “I sette samurai”, “Il trono di sangue”, “Bassifondi”, “La fortezza nascosta”, “I cattivi dormono in pace”, “La sfida del samurai”, “Sanjuro”, “Anatomia di un rapimento”, “Barbarossa”: sono i titoli che meglio si ricordano quando ci si riferisce a quest’artista unico ed inimitabile, diamante grezzo “partorito direttamente dalla Terra”, energico come pochi davanti le cineprese, intrepido ogni qual volta si presentasse l’occasione di mettere in scena una lotta pericolosa.
Specialità predilette i combattimenti con la spada (chanbara), genere che affonda le proprie radici, come puntualmente indicato in testa all’opera, nella preistoria del cinema nipponico, inizialmente simile a una danza giocosa, successivamente, ai tempi dei grandi successi del nostro, più crudo e realistico, persino rivoluzionario in certi felici contesti.
Al di là delle indubbie doti fisiche, che non hanno tardato ad imporlo al centro dell’attenzione mediale, rendendolo un’autentica celebrità in grado di allargare la propria influenza anche oltreconfine (senza la sua prestanza scenica “Per un pugno di dollari” piuttosto che “Star Wars” non li avremmo conosciuti così come ci si presentano), una volta tornato più salvo che sano dal fronte Mifune ha sviluppato un’invidiabile vena umoristica, tagliente e composta, ulteriore elemento distintivo dentro e fuori dal set.

Sorprende, attraverso le ricche testimonianze dei familiari, dei collaboratori, anche di critici e guest star del calibro di Steven Spielberg e Martin Scorsese, entrambi entusiasti fin da giovani approcciandosi alle pellicole dove figurava il divo, scoprire che questo in principio non fosse affatto interessato alla recitazione, quanto piuttosto ad assicurarsi un’occupazione nel deserto del secondo dopoguerra, incarico divenuto di lì a qualche anno a dir poco oberante da un lato, dall’altro credenziale d’accesso all’accattivante mondo delle automobili, cui facevano da contraltare fiumi di sakè.
Senza mai perdere in lucidità, spigliato nei toni anche grazie alla narrazione affidata a una voce d’eccezione come quella di Keanu Reeves (da poco, lo ricordiamo, resuscitato grazie alle scoppiettanti disavventure di John Wick, più che di “47 Ronin”), il lavoro di Okazaki fluisce piacevolmente riposizionando i riflettori sull’unico professionista cui Kurosawa permettesse di improvvisare, fonte di ispirazione per quanti ci lavorassero a stretto contatto (maestro perfezionista compreso, sorta di Fellini dipendente dal suo Rota-musa ispiratrice) e ancor oggi affettuosamente ricordato come una delle leggende ribelli della settima arte.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni
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