“I gemelli” poemetto di Giovanni Pascoli: il Narciso tramandato da Pausania
“Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore/ della sera, quando le campane/ suonano a morto.” – Pier Paolo Pasolini
Ne “I gemelli” troviamo Narciso, uno dei personaggi più affascinanti della mitologia greca, ripreso durante i millenni da poeti, scrittori, pittori, musicisti e psicoanalisti, di cui ora non potremo trattare per la vastità dell’argomento.
In epoca moderna il “narcisismo” è legato alla figura di Sigmund Freud ma il termine fu impiegato, per la prima volta, da Paul Nacke nel 1889.
Esistono due versioni principali del mito: nella più fortunata, Narciso si innamora del proprio riflesso sull’acqua ma, incapace di comprendere la differenza tra realtà ed immaginazione, cerca di incontrare con un bacio l’illusione di quell’amore, così facendo provoca la sua morte per annegamento nell’intento di baciare lo stesso riflesso.
Al posto del suo corpo le Naiadi e le Driadi trovarono l’omonimo fiore Narciso, e si narra che da quel momento gli uomini conobbero questo bellissimo fiore, ma teniamo a mente che il poeta epico Pamphos, molti anni prima, raccontava di quando Persefone fu rapita da Ade proprio mentre raccoglieva narcisi.
Nella versione latina narrata da Ovidio, Narciso fu oggetto d’amore della ninfa Eco, che a causa della maledizione di Giunone del poter proferire solo le ultime parole rivolte od udite, cercò di confessare i suoi sentimenti al bel fanciullo, che ovviamente non capendo la ninfa decise di fuggire lontano da lei.
La pazzia portò dunque Eco a viaggiare per tutto il Mondo alla ricerca del suo amato Narciso, senza però aver successo, e lasciandosi morire di fame gli Dei ebbero benevolenza di lei trasformandola in punto di morte in una roccia.
Nella seconda variante meno celebre del mito Pausania racconta un Narciso legato ad una misteriosa sorella gemella. Segretamente innamorato di questa, quando ella morì per un incidente di caccia, lui dalla disperazione pensò di vederla riflessa su una fonte e da lì la pazzia lo portò alla morte.
Il poeta italiano Giovanni Pascoli nei “Poemi Conviviali” dedica il poemetto “I Gemelli” a Narciso, traendo ispirazione dalla variante riportata da Pausania.
E nella stessa nota di Giovanni Pascoli presente nella seconda edizione dei “Poemi Conviviali” scrive:
“(…) L’unico poema nuovo di questa edizione, “I gemelli,” nasce da un racconto di Pausania (D.G. IX, 31, 8) che dice: “C’è un’altra novella su lui [Narcisso]…: che Narcisso aveva una sorella gemella, come nel rimanente al tutto somigliante di aspetto, così con capellatura uguale, e vestivano vesti simili, e andavano a caccia l’uno con l’altra. E Narciso amò la sorella, e come la fanciulla morì, esso andava alla fonte e capiva bensì che era la propria ombra che vedeva, ma pure così sapendo, aveva un certo sollievo dell’amor suo, come se non credesse di veder l’ombra sua, ma l’immagine della sorella.”. – Questi due gemelli, non giovani ma fanciulli, io ho cambiati tutti due nel “leucoion vernum'”e nel “galanthus nivalis” che si somigliano in verità, ma come un maschietto e una bambina che si somiglino. Sono due fiori del principio di primavera, e della famiglia delle Amarillidee, della quale è pure Narciso.”
“I gemelli”
Che sente il fiore cui la molle forza
di vita svolge i petali del boccio?
Quel che sentiva allora la fanciulla,
che si svolgea dal calice più bianca
e più sottile, il collo così lasso,
che lo piegava l’occhio di sua madre.
La neve già struggeva, ma non tutta:
se ne vedeva qua e là sui monti.
Spuntava l’erba, verdicava il salcio,
e ravvenate ora mescean le polle.
Era sui monti, era a bacìo la neve
ancora: ella si fece anche più bianca
e più sottile: un pianto nella casa
sonò: poi, la fanciulla era sparita.
E il suo gemello la richiese al padre
meditabondo. Egli accennò lontano.
E la richiese alla soletta madre,
che gli sorrise, e lacrimò più tanto.
“Sappi: è nel prato asfòdelo… C’è bello…
Lieta, sebbene senza il suo gemello…
No, non è sola, ma tra un fitto sciame…
Un fiore hanno alla sete ed alla fame…
Sì: tu ci andrai… Sì: la vedrai… tra giorni…
Resta con me! s’ora ci vai, non torni!”
Ma il giovinetto andò per prati e boschi,
sempre cercando. Un giorno seguì l’api
a un prato, le ronzanti api ad un fonte.
Nel fonte ritrovò la sua sorella.
Il giovinetto si chinò sul fonte,
e la fanciulla apparve su dal fonte.
Egli era mesto, ed era, anch’ella, mesta.
Ma le sorrise, ed ella gli sorrise.
Aprì la bocca per chiamarla a nome;
subito anch’ella aprì la bocca a un nome.
Ed egli chiese, chi l’avea rapita,
se lieta le era la solinga vita;
ed ella presto rispondea, ma troppo,
ch’ella parlava mentre egli parlava.
Ed egli tacque, ed ella tacque: allora
egli riprese, ma riprese anch’ella.
E il giovinetto non intese, e pianse.
E la fanciulla si confuse, e pianse.
Ora una voce chiamò lui: la voce
della sua madre che l’avea smarrito.
“Ci chiama. Vieni con il tuo gemello
dalla tua madre. C’è, con lei, più bello!”
Ella rispose; ma fondea nell’ansia
le sue parole con le sue parole.
“Qui non c’è fiori per il tuo digiuno!
Tu sei nel prato ove non c’è nessuno!”
La madre ancora lo chiamò. Le labbra
chinò… che freddo in quelle dolci labbra!
Le diede un bacio sussurrando, Addio!
ed un gorgoglio udì nell’acqua: Addio!
E il giovinetto s’alzò su dal fonte,
e la fanciulla sparve giù nel fonte.
“O madre! O madre! È dove tu m’hai detto!
Ma ella è sola, nel fonte soletto.
Non ho veduto altro che il suo, di capi.
Non ho sentito altro ronzio, che d’api.
Non ha vicine altre compagne care!
Non ha quei fiori per il suo mangiare!
Vieni tu, madre; ella ritornerà!”
“O figlio! O figlio! T’ha deluso un Dio!
Il fior che dissi è il fiore dell’oblio.
E tu non vieni dal fiorito prato
ch’è più lontano del cielo stellato!
A chi ci va, gli è presso, come l’orto;
ma chi ne torna, anche se arriva smorto
a dove dormì, è tuttavia di là!”
Ma il giovinetto le afferrò la mano,
e disse: “O Vieni, se non è lontano!”
E, giunti al prato, si chinò sul fonte,
e la sorella venne su dal fonte.
Ah! ma nel fonte presso il suo sorriso
c’era la madre col suo mesto viso!
“O madre! O madre! Ecco che lei s’attrista
dacché nel grave tuo dolor t’ha vista!”
“O figlio! O figlio! Io sono lì pur quella!
Non hai due madri! E non hai più sorella!”
E turbò l’acqua. E madre e figlia sparve
oscuramente, qua e là, nel gorgo;
fin che, ondeggiando, tremuli, a fior d’acqua
vennero ancora figlio e madre in pianto.
Ed egli allora oh! sì, capì. Ma venne
per molti giorni al tralucente lago,
a rivedere in sé la sua sorella
che in lui viveva; ed esso in lei moriva.
Ed era il tempo che il nostro dolore
cadea qual seme, e ne nasceva un fiore:
un fior dal sangue delle nostre vene,
un fior dal pianto delle nostre pene.
Ed egli fu il leucoio, ella il galantho,
il fior campanellino e il bucaneve.
E questo avea tre petali soltanto;
e quello, sei, coi sommoli un po’ verdi.
Candidi entrambi, a capo chino entrambi.
Spuntava il croco, il morto per amore
bel giovinetto. E non fu lor compagno.
E non l’AI AI videro del giacinto
dal vento ucciso. Non fioriva ancora.
Erano soli soli; ché la neve
era sui monti, era a bacìo, tuttora.
E qualche alato, ch’ebbe vita umana
già, come loro, già piangea, ma seco,
sommessamente: o dentro sé pensava
quel pianto amaro ch’è poi dolce canto.
I due puri gemelli esili fiori,
fu breve la lor vita anche di fiori.
Amor fu quello prima dell’amore.
Non, forse, amore, ma dolor, sì, era.
Sparvero prima della primavera.
Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta e accademico italiano, figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento. Pascoli, nonostante la sua formazione eminentemente positivistica, è insieme a Gabriele D’Annunzio il maggior poeta decadente italiano.
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