“Elle” il nuovo film di Paul Verhoeven: una questione di ghénos

“Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,/ il riflesso del vostro volto,/ i vani palpiti di vane ali…/ fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.// Ecco perché amate così cúpidi/ me, nel mio peccato e nel mio male,/ perché affidaste a me ciecamente/ il migliore dei vostri figli;/ perché nemmeno chiedeste di lui,/ mai, e la mia casa vuota per sempre/ velaste di fumose lodi./ E dicono: non ci si può fondere più strettamente,/ non si può amare più perdutamente…// Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo,/ come vuole la carne separarsi dall’anima,/ così io adesso voglio essere scordata” – A molti, da Anno Domini, Anna Andreevna Achmatova

Elle - Paul Verhoeven

Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo e la carne staccarsi dal proprio tempo, così Elle, di Paul Verhoeven – ne firma la regia e adatta il romanzo Oh… del 2012 di Philippe Djian – è un film che vuole separarsi dalla contemporaneità restituendone la voce, il riflesso, i vani palpiti, fino alla fine con estrema, impietosa lucidità.

E questa contemporaneità contraddittoria e dilaniata dalla sua borghese morbosità erotica e quotidiana emerge come viscerale prodotto di una virtualità spaventosamente incontrollabile che ha ormai sostituito da una parte l’intimità, dall’altra la condivisione della propria vita.

Elle, lei, la donna è un corpo, una maschera che affronta questo tempo di cui è vittima e dalla quale deve difendersi con violenza, violentandosi e violentando e che sia una donna la protagonista di questa storia non è un semplice giocare sulla questione sesso debole o femminismo, due questioni che peraltro ci stanno sfuggendo di mano.

La trama del film è piuttosto lineare: una donna in carriera apparentemente cinica, fredda, determinata, plastica, viene stuprata nella propria casa, una casa tutta finestre, e pochi giorni dopo l’accaduto avvia una ricerca spietata e senza tregua del violentatore della cui circoncisione la protagonista inspiegabilmente conserva una precisa e vivida immagine (molto convincente l’interpretazione di Laurent Lafitte, il vicino di casa Patrick che in un momento del film si svela con uno sguardo profondo ed un sorriso che si interrompe macabro sulle labbra tese).

Sono abili i rimandi ad Hitchcock, sono ottimi i movimenti rapidi di macchina e le stasi dense, la fotografia impenetrabile e scura (Stéphane Fontaine), le azioni repentine e inaspettate cui il regista sottopone i suoi attori, è eccellente il montaggio che alterna flashback e sequenze in cui la protagonista rielabora il momento dello stupro modificandone gli esiti, immaginando alternative, come immersa in una sorta di gioco perverso di alterazione della realtà, ottimo anche il ritmo incalzante e l’introduzione di sequenze tratte dal videogioco che rendono ancora più straniante la vicenda così come la colonna sonora (Anne Dudley) mai invadente; ma ciò che più risulta efficace al di là di tutta la rete rischiosa di immagini morbose che il regista getta negli occhi dello spettatore senza abusare della forma è la forte, quasi rabbiosa materia concettuale che si trova al di sotto di tutti questi elementi.

Si potrebbe addirittura dire, se questa parola non fosse effettivamente difficile da usare perché altamente equivocabile, che Verhoeven abbia costruito un film che denuncia i propri personaggi.

Non sarebbe azzardato dire che Verhoven è una sorta di Euripide contemporaneo.

Elle - Paul Verhoeven

La protagonista, Michèle Leblanc, dirige una compagnia di videogiochi, viene dal mondo dell’editoria e lo spettatore si cala lentamente nella sua vita fatta di non detto, rancore e dolore faticosamente tenuti nel profondo. Questa donna non è tormentata, non si contorce le mani, ironica, sprezzante, impietosa, non perde occasione per dimostrare con fastidio agli amici, all’ex-marito, al figlio e alla madre quanto siano grotteschi.

“Quanto sei grottesca” dice infatti ad un certo punto con tono algido di rimprovero all’anziana madre, Irène (una magnifica Judith Magre che dona una pesante frivolezza al personaggio) tutta botulino che vuole sposare il giovane amante a pagamento, sempre con questa fredda ferocia Michèle penserà a lei come ad una attrice che sta solo simulando un ictus. Ancora una volta la virtualità le prende l’anima.
Sono però gli uomini i veri nemici della protagonista: il figlio scapestrato che teme non l’ami abbastanza per una questione di imprinting, l’ex marito (ottimo Charles Berling) – uno scrittore che ha successo solo quando le sue nuove amanti lo confondono con il collega omonimo – e il padre che ha compiuto una strage nel quartiere gettandola in pasto alla stampa che ha fatto di lei una bambina coperta di cenere con lo sguardo vuoto.

Una questione di sangue e carne. Una questione di ghénos e sarà proprio Michèle con ironia tragica a mettere in chiaro le cose: “Non sono una specie di folle Medea gelosadirà preparando la cena di Natale dove ha invitato anche i vicini di casa e la nuova compagna del suo ex-marito. E così la festività diventa un elemento per introdurre – senza esasperarne il peso – l’altra donna, la vicina di casa (Virginie Efira) cattolica rigidamente osservante che però giustificherà con una misericordia altrettanto patologica la violenza del marito.

E Isabelle Huppert che nel film è di una misura sconvolgente e di una bravura a tratti spaventosa nell’interpretare questa maschera distaccata ed allo stesso tempo interamente coinvolta nell’azione, che studia e declina giustizia e vendetta secondo una propria etica insondabile ed una moralità indecifrabile dall’ottica borghese perbenista, è stata una Medea sospesa tra un passato di visioni ed un presente di periferia, è stata una Medea che rinunciava a sacrificare i figli cresciuti con amore per la politica dei macellai in Médée Miracle di Tonino De Bernardi (2007): questa autocitazione vagamente maliziosa può essere una delle chiavi date allo spettatore per penetrare l’universo tremebondo di Elle. Perché Michèle è davvero una evoluzione contemporanea di Medea.

Una Medea che si è adeguata al male di Giasone (e Giasone è un po’ in tutti gli altri personaggi) e del suo mondo dove i valori e i principi sono irrimediabilmente cambiati, una Medea che ha imparato ad usare nella virtualità le proprie magie e i propri incantesimi per non farsi stregare e per proteggersi dalle maledizioni.

Elle - Paul Verhoeven

Basta pensare a come Michèle riesce a torturare fino all’apoteosi il suo torturatore godendo della tortura stessa. Così tra abiezione e desiderio di essere donna senza doversi piegare alla società dell’apparenza molto simile a quella struttura costituita dai vicini di quartiere che decidono chi sei e quali sono le tue colpe, si consuma la hybris di questo personaggio, una hybris che, nonostante la volontà finale di smettere di mentire, può essere redenta solo dalla nuova generazione, forse più adatta ad amare incondizionatamente al di là del sangue e della carne, forse più adatta a coltivare pietà.

Ecco che i figli di Medea (qui ne basta uno solo) vengono a salvarla anche da se stessa.

Sono io che vi uccido venendovi a cercare, venendovi a dare quello che cercate, sembra ripetere a tutti Michèle con un alzata di sopracciglio o accennando le labbra arricciate. Questa forte oscillare tra essere vittima e punitrice, sadica e masochista non lascia spazio ad equivoci: in una contemporaneità che accetta le donne solo quando queste si maschilizzano o si svendono, Michèle riesce straordinariamente ad appartenere solo a se stessa e questo riesce al personaggio solo perché appunto rimane un personaggio, consapevole e metacinematografico.

Il giocatore si deve eccitare” spiega la protagonista ai giovani collaboratori che lavorano al videogioco, ma se a giocatore sostituiamo spettatore è subito metacinema.

La questione eccitazione ritorna come una maledizione per tutto il film.
Il violentatore si eccita picchiandola, suo padre era eccitato quando ha compiuto la strage in quartiere, lei stessa era eccitata mentre lo aiutava a bruciare la loro casa, i giovani si eccitano giocando e manipolando i videogiochi. Eccitazione e violenza, ecco il paradigma della contemporaneità: un uccellino che vola e incresciosamente sbatte contro il vetro della finestra e cade e viene dilaniato da un gatto.

Un’ altro aspetto piuttosto interessante è la forte presenza degli animali: c’è appunto un gatto nero, indifferente, a tratti selvatico ma decisamente addomesticato, un uccellino moribondo e un cervo. Tutti animali piuttosto simbolici che rimandano a istintualità, rinascita, sospensione. Così alla fine del film, sospesa e leggera come la cenere, come se volesse dimenticare ed essere dimenticata ancora una volta, Michèle cammina allontanandosi con l’amica Anna (una efficace Anne Consigny) alter ego discreta ma non meno impietosa in una luce che sancisce una tregua dal sangue ma che non significa né perdono né riconciliazione.

 

Written by Irene Gianeselli

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *