Cinema: i registi dalla carriera più longeva #1 – L’Italia di oggi
Una settimana fa usciva in una manciata di sale del Nord Italia “vedete, sono uno di voi”, ennesimo documentario firmato da una delle anime più quiete e degne di riguardo della nostra cultura cinematografica.

Ermanno Olmi, classe 1931, nei i suoi 64 anni di militanza nel mondo della settima arte alcuni pensano nasconda un segreto, una forza recondita che gli permette di proseguire con qualità costante, scoccati i 17 lustri d’età, la missione della sua vita. È “il segreto del regista vecchio”, per parafrasare un suo noto lavoro realizzato sul finire del millennio scorso: una sorta di antidoto ai disordini che le rivoluzioni dei linguaggi mediali col passare dei decenni portano necessariamente con sé, un mantra che consente di presentare al pubblico, vasto o meno che sia, opere sempre attuali ed autorevoli, in grado di inserirsi con grazia e polso nel flusso impetuoso di un futuristico mainstream senza perdere la bussola, la propria iconica identità.
64 anni da director, un traguardo che davvero in pochi al mondo hanno saputo conquistarsi. Da questa sorprendente constatazione nasce la curiosità di indagare sugli altri colleghi, alcuni dei quali veri compagni di viaggio, che hanno celebrato le nozze d’oro con la propria arte. 50 anni di corti, medio- o lungometraggi possono dire molto, almeno a partire dalla carta. Mezzo secolo di fantasia, di feconda produttività, di fiducia accordata, di perseveranza nello sfruttamento di un medium in costante mutamento di poetica, di risorse tecnologiche, di bacino d’utenza.
In un simile lasso di tempo un uomo, una donna possono agire senza uscire mai dall’ombra, attraversare alternamente periodi di prosperità e fasi di declino, reggere costantemente sulla cresta dell’onda; possono incontrare differentemente il favore dei collaboratori, della critica, del pubblico, affezionarsi ai generi o ai temi che più loro si confanno, mantenere uno stile fortemente distintivo od anche anonimo, modulare una grande varietà di registri.
Vi sono naturalmente artisti che hanno lasciato la propria indelebile impronta agendo in intervalli più contenuti, e su alcuni in particolare è lecito ed intrigante domandarsi cosa sarebbe accaduto se avessero scelto o anche semplicemente avuto l’opportunità di tornare dietro la macchina da presa in seguito al loro ultimo cimento: pensiamo a casi diametralmente opposti come quelli costituiti da Jean Vigo, geniale parigino morto neanche 30enne dopo aver realizzato appena tre corti e un lungo (“L’Atalante”, 1934), e Stanley Kubrick, che se non fosse perito prima di poter realizzare un’altra delle numerose idee rimaste al mero stadio progettuale avrebbe certamente portato il suo “cursus honorum” oltre i 48 anni di durata.

Costituiscono stimolanti modelli pure le vicende dello sceneggiatore due volte Premio Oscar Dalton Trumbo, il quale ha posto la firma unicamente alla regia di “E Johnny prese il fucile” (1971), e ancor più di Takeo Kimura, che ha deciso di provare l’ebbrezza della messa in scena poco prima di compiere 89 anni: ne è nato “Batokin Yasokyoku” (2007). Protagonisti pensionati con un certo anticipo li ritroviamo anche in René Le Hénaff, attivo fra il 1929 e il 1950, morto nel 2005, Leo C. Popkin, fra il 1924 e il 1951, morto nel 2011, ed Anthony Mithradas, autore fra il 1954 e il 1955 esclusivamente (perlomeno così pare) di 3 lunghi del tutto sconosciuti, morto il 20 febbraio scorso alla veneranda età di 103 anni.
Riallacciandoci allo spunto portante, prendiamo ora il nostro Olmi a titolo esemplificativo: egli esordiva nel 1953 con una nutrita serie di cortometraggi, perlopiù documentari, che ritraevano le emergenti realtà industriali italiane del secondo dopoguerra (parlano da soli titoli prodotti dalla Edisonvolta quali “Cantiere d’inverno”, “Costruzioni meccaniche Riva”, “Tre fili fino a Milano”, “Un metro lungo cinque”); il 1959 sanciva il debutto negli estesi formati con “Il tempo si è fermato”, cui son seguiti altri 25 film per il grande schermo, di cui 6 fedeli alla testimonianza del reale, oltre a 9 lunghi nati esplicitamente per la televisione e ad altri svariati corti per entrambi i circuiti, in un avvicendarsi di racconti drammatici e lieti, biografici e storici, biblici e guerreschi.
Una ricerca simile, condotta affidandosi a diverse fonti che elencassero un numero cospicuo di film-maker provenienti da tutto il pianeta, non mira tanto alla completezza (sarebbe decisamente supponente credere di aver anche solo avvicinato un’epitome definitiva), quanto piuttosto all’esaustività: lo sguardo che il sottoscritto ha adottato si volge in ogni direzione geografico-temporale, interessandosi anzitutto alle figure dei registi cinematografici, per le quali comunque restano riconosciute, quindi comprese nei calcoli, le produzioni televisive; al contrario, non vengono prese in considerazione quelle dei registi di seconda unità, né degli aiuto-registi.
Il primo, imprescindibile accertamento riguarda il re, forse indestituibile, delle carriere in cabina di regia: Manoel de Oliveira è morto il 2 aprile 2015 con alle spalle 84 anni di pressoché ininterrotta attività (sensibile unicamente il silenzio incorso fra il 1942 e il 1956), tempio del cinema che affondò le proprie radici ancora nell’estetica dei film muti per assistere poi all’esondazione incontenibile delle innovazioni delle grammatiche e del comparto tecnico cui è andata incontro la fabbrica dei sogni. Fra “Douro, Faina Fluvial” (1931) e “Um Século de Energia” (2015), entrambi corti documentari, il maestro portoghese ha fatto in tempo a vincere il Premio Interfilm per l’intera sua filmografia a Berlino (1981), il Leone d’oro alla carriera a Venezia (2004), la Palma d’oro onoraria a Cannes (2008), mentre non è mai riuscito a strappare una sola nomination agli Academy Awards.

E pensare che il progenitore di ogni cineasta, Louis Lumière (1864-1948), ideatore di 107 corti fra il 1892 e il 1900, così come l’indimenticato Georges Méliès, operativo dal 1896 al 1913, non riuscivano a vedere nel cinematografo un futuro che perdurasse, non solo, che lo sottrasse alla propria comune nomea di divertissement per renderlo, al contrario, “arte”…
Oggigiorno conosciamo individui che incarnano, attraversandolo, un intero secolo di cinema, elevatolo a forma estetica e linguistica d’indubitabile rilevanza ed influenza. Nel panorama contemporaneo, tenendo conto necessariamente dell’età cui approcciarsi per poter sperare di oltrepassare la soglia del cinquantennio di direzioni, mettendosi alla ricerca di un nuovo “secolo di cinema” (per quanto in potenza) si potrebbe scommettere sull’astro già bell’e nato ed affermato chiamato Xavier Dolan, il cui lavoro d’esordio, “J’ai tué ma mère” (2009), è stato partorito da una mente appena 19enne.
Tornando al belpaese, soggetto prediletto del contributo odierno, fra gli artisti viventi spiccano innanzitutto il documentarista Folco Quilici, emerso nel 1952 in concomitanza con “Pinne e arpioni” e riassopitosi nel 2015 dopo aver completato “Animali nella Grande Guerra”, e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, i quali col corto “San Miniato, luglio ‘44” (1954) hanno cominciato la loro traversata dell’oceano filmico un anno dopo l’apparizione di Ermanno Olmi, da allora senza mai assentarsi dal set. Con “Una questione privata”, ancora in stato di post-produzione, si dimostrano intenzionati più che mai a dirigere lunghi fino a che ne avranno le forze. Succedono immediatamente due autori minori, Francesco Maselli e Franco Piavoli, l’uno operante fra il 1949 col corto “Tibet proibito” e il 2011 coll’episodio “Sciacalli” di “Scossa”, l’altro fra il 1954 con “Ambulatorio” e il 2016 con “Festa”, ambo corti.
Segue un altro nobilissimo della tradizione italiana, Franco Zeffirelli, che quest’anno procrastina di non poco la chiusa del proprio curriculum grazie ad un corto animato (!), “Zeffirelli’s Inferno”, a 8 anni di distanza dall’ultimo corto e 15 dall’ultima pellicola per il grande schermo, nonché a 59 dalla prima opera da lui diretta, “Camping”. Gli s’appressa Giorgio Capitani, co-regista esordiente ai tempi della produzione franco-italiana “Delirio” (1954), accomiatatosi nel 2012 dopo aver diretto 8 dei 12 episodi della prima stagione de “Il restauratore”.

Si accoda poi Marco Bellocchio, attivo dal 1961 col corto “La colpa e la pena” all’anno passato col corto “Pagliacci” (naturalmente restiamo in attesa di un nuovo, sorprendente capitolo da collocarsi nei prossimi anni), per ora pari merito con una leggenda dallo stile diametralmente opposto, ossia Bruno Bozzetto, massimo esponente dell’animazione dello Stivale, regista accreditato dal 1958 (“Tapum! La storia delle armi”) al 2013 (“Rapsodeus”), il quale tuttavia non s’è ancora ritirato a vita privata, continuando anzi a supervisionare in prima persona le produzioni dello Studio Bozzetto milanese; finanche con Ugo Gregoretti, che aprì in corrispondenza del documentario “Piazza San Marco” (1956) e ha chiuso col già citato “Scossa” (episodio “Lungo le rive della morte”, 2011), e con la documentarista Cecilia Mangini, già all’opera nel 1958 con “Ignoti alla città”, in azione fino al 2013 grazie al film autobiografico “In viaggio con Cecilia”.
Quindi incontriamo, a quota 53 anni accumulati, Liliana Cavani, suo “La vita delle armi” (1961) come il “Francesco” più recente (2014), or ora alle prese con l’ideazione d’un thriller che suona “Death Is for the Living”; un Ruggero Deodato ormai non più di tanto al centro dei dibattiti, trascorso un solo anno dall’ultimo misconosciuto horror “Ballad in Blood” (certamente dimenticabile se messo a confronto col suo “capolavoro” per antonomasia, “Cannibal Holocaust”) e sempre 53 dal primo ruolo, neppure accreditato, rivestito in “Ursus, il terrore dei kirghisi”; infine Luigi Di Gianni, documentarista che ha principiato nell’alveo della finzione (“Sulle strade di notte”, 1956) per terminare presentando “Carlo Gesualdo da Venosa (1565-1613) Appunti per un film” (2009).
Procedendo, altri tre ex aequo, vale a dire Lina Wertmüller, esordiente nel 1963 con l’ancor oggi noto “I basilischi”, in campo in tempi recenti grazie al corto documentario “Roma, Napoli, Venezia… in un crescendo rossiniano” (2014), Bernardo Bertolucci, lanciato primariamente in Italia nel 1962 attraverso “La commare secca” e congedatosi nel 2013 curando l’episodio “Scarpette rosse” del documentario “Venice 70: Future Reloaded”, e niente meno che un altro conosciutissimo campione delle tematiche sessuali, Tinto Brass, la cui parabola filmografica è cinta da due corti, “Spatiodynamisme” (1958) e “Hotel Courbet” (2009); chiude la rosa Giuliano Montaldo, il quale invece sbottona e abbottona i propri 50 anni di maestranza coi film “Tiro al piccione” (1961) e “L’industriale” (2011).

Si candida per le posizioni mediane Sergio Gobbi, di stanza in Francia a partire dal 1961, con un piede in Francia e l’altro in Italia nel 1998, anno della sua ultima produzione intitolata “Rewind” (recitata in inglese!), ed ora impegnato nel concept di un fantomatico “Immoral”, destinato anzitutto ai mercati della Repubblica Dominicana.
Questo breve viaggio alla scoperta dei virtuosi italiani della settima arte ancor vegeti fra noi lo concludiamo qui: vi diamo appuntamento fra una settimana per proseguire la ricerca rivolgendo lo sguardo al passato, a tutti i fratelli d’Italia che l’Italia hanno fatto grande celebrando i loro 50 anni di militanza da directors. Per adesso, non ci resta che augurare… lunga vita a Ermanno Olmi!
Eccovi, sottostante nelle info, un assaggio accuratamente selezionato delle più produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei cineasti che sin qui abbiamo incontrato.
Written by Raffaele Lazzaroni
Info

Link utili
“Douro, Faina Fluvial” (Manoel de Oliveira, 1931)
“Um Século de Energia” (Manoel de Oliveira, 2015)
“Piccoli calabresi a Suna sul Lago Maggiore” (Ermanno Olmi, 1953)
Estratto da “Vedete, sono uno di voi” (Ermanno Olmi, 2017)
“Tapum! La storia delle armi” (Bruno Bozzetto, 1958)
“Rapsodeus” (Bruno Bozzetto, 2013)
“Ursus, il terrore dei kirghisi” (Ruggero Deodato, 1964)
Trailer di “Ballad in Blood” (Ruggero Deodato, 2016)
“I basilischi” (Lina Wertmüller, 1963)
Trailer di “Roma, Napoli, Venezia… in un crescendo rossiniano” (Lina Wertmüller, 2014)
Intervista su “La commare secca” (Bernardo Bertolucci, 1962)
“Scarpette rosse”, da “Venice 70: Future Reloaded” (Bernardo Bertolucci, 2013)
3 pensieri su “Cinema: i registi dalla carriera più longeva #1 – L’Italia di oggi”