“Pentirsi di essere madri” di Orna Donath: un saggio su un millenario tabù del femminile

Non meraviglia che il saggio di Orna Donath, intitolato “Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro. Sociologia di un tabù”, edito in italiano da Bollati Boringhieri nel 2017, non abbia lasciato indifferenti, portando molti a interrogarsi su una realtà omessa da millenni e altri a gridare allo scandalo.

Pentirsi di essere madri

Non si tratta di donne con patologie mentali.

Non si tratta di donne che hanno fatto mancare cure ai propri figli, non assolvendo al ruolo di madre.

Non si tratta di donne infanticide.

Non si tratta di donne che vivono la propria condizione con difficoltà, ma riescono a sentirsi ripagate dal “sorriso del proprio bambino”, frase, quest’ultima, che è stereotipo dei vantaggi ineguagliabili della maternità.

Sono donne.

Alcune giovani, altre no. Alcune istruite, altre no. Alcune con un lavoro retribuito fuori dalle mura domestiche, altre no. Alcune sposate, altre divorziate.

Sono donne che hanno accettato di raccontare la propria storia di pentimento affinché da essa prendesse avvio un saggio colmo più di domande che di risposte, come si addice ad un buon testo critico.

Urge, in primis, definire il pentimento di cui si disserta.

Le donne oggetto di studio sono consapevoli di non voler essere madri, di non essere felici e appagate della propria condizione e di essere sicure che, potendo tornare indietro nel tempo, non compierebbero la medesima scelta. Eppure, esse vogliono bene ai propri figli, perché “ormai essi esistono” e hanno diritto ad essere felici, amati e educati.

L’autrice, Orna Donath, ci porta ad interrogarci su una parola che ho volutamente inserito in precedenza, con naturalezza:  scelta.

Ma tale scelta è stata libera da condizionamenti sociali e antropologici per cui il desiderio di maternità è ritenuto insito nella femminilità e in nome di esso, anche qualora i figli si concepiscano senza progettualità, è impossibile rimpiangere il passato?

No, non lo è stata.

“Fai figli o te ne te pentirai, un domani”: queste parole le donne che non manifestano una volontà procreatrice se le sono sentite dire chiaramente o ne hanno udito il bisbiglio a mezz’aria.

Tuttavia, se l’odierna società ormai accetta la posizione delle non madri, ossia delle donne che liberamente, andando contro un comportamento quasi uniforme nei paesi pronatalisti, hanno deciso di non concepire e crescere figli, diversa è la situazione per le madri pentite.

Il pentimento di una madre, infatti, è tabù e questo muro di silenzio e di condanna relega le donne che vivono questa condizione ai margini del femminile: resta loro l’opzione di essere considerate pazze, cattive o, più semplicemente, quella di fingere di essere come tutte le altre paiono essere. Felici di essere madri.

Orna Donath

Le intervistate raccontano del parto come di una nascita che impone la propria morte come donne e augurano ai propri figli, maschi e femmine, di non optare per la medesima non-scelta, in modo da poter vivere senza la lacerante dicotomia fra l’amore e il desiderio della non presenza.

Sì, lo desiderano. Desiderano che i propri bambini non esistano, che svaniscano nel nulla o che loro stesse possano andarsene senza lasciare conseguenze. Ma non fanno del male fisico alle proprie creature, né desiderano farlo, anzi sentono moltissimo la responsabilità, per loro soffocante come un cappio, di essere madri buone. “Sono una madre fantastica”, affermano, autodefinendosi.

I figli così cresciuti soffriranno comunque di tale pentimento imprigionato nell’anima? Le madri intervistate se lo domandano: alcune scelgono di tacere, altre, invece, instaurano un rapporto di scambio con i propri figli adulti, raccontandosi nella propria verità di esseri umani imperfetti.

Cosa può fare la società? Sicuramente una attenzione alle madri che si manifesti in un impegno concreto nell’aiuto alla gestione familiare e alle esigenze della donna, sia in ambito familiare che professionale, migliorerebbe la situazione.

Eppure non è questo il nocciolo del saggio.

Queste donne non si sono trovate davanti ad un bivio fra la maternità e la carriera e, scegliendo la prima, rimpiangono la seconda.

No: non avrebbero semplicemente voluto essere madri, non si sentivano adatte, non ne avevano il desiderio, non volevano cambiare la propria vita o volevano farlo in percorsi che escludevano la maternità o, meglio, il loro modo di intenderla.

Ed è questo l’unico modo per eliminare il tabù: accettare la pluralità del femminile, che in sé contempla universi di autoaffermazione, senza condurre stendardi di guerra contro le donne, siano esse madri felici, aspiranti madri, madri negate, non madri e madri pentite.

Solo la comprensione del diverso può portare a migliorare la vita di tutte e tutti, nel rispetto e nella promozione di ogni scelta consapevole e spontanea.

 

Written by Emma Fenu

 

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