“Il Gabbiano” di Anton Čechov diretto da Marco Sciaccaluga: la precipitazione oltre il nulla, oltre il tutto
“Come è brutta la felicità che desideriamo/ Come è bella l’infelicità che abbiamo”. L’A.H.

Trovare niente nel tutto e tutto nel niente, dire parole che niente raccontano, ascoltare parole che tutto esprimono e cambiare argomento. Čechov ha in sé di straordinariamente tagliente questo, il suo è un teatro borghese che ha in odio la propria matrice sociale e culturale, è un teatro di chiacchiera che ha in odio il proprio straparlare, alludere, ritornare sul già detto senza dare tregua a chi pronuncia e a chi ascolta.
È questo ad essere straordinariamente tagliente: Čechov conosce i limiti umani dei propri personaggi e li fa macerare tensivamente perché allo stesso tempo li costringe ad essere parte di un coro, non concede loro una dimensione di intimo raccoglimento nemmeno nei monologhi e nelle digressioni più vicine al soliloquio. C’è sempre qualcuno che deve ascoltare, il fine per cui ogni verbo viene pronunciato è che sia pronunciato, ogni pensiero espresso è allusivo, ma si tratta sempre di una allusione che si ripiega su chi la introduce.
Čechov condanna i suoi personaggi senza alcuna pietà a continue, pubbliche confessioni. Li costringe a dare spettacolo di sé all’interno di un gruppo ben ristretto, quasi cortigiano e a tratti francese d’Ancien Régime (ed è in questo paradosso scoperto che Čechov dimostra di essere autore immerso nel proprio tempo, nella Storia di una Russia estremamente autocratica che si affaccia al XX secolo ribollendo repressa).
La Bruyère, riferendosi alla corte del Re Sole, scriveva in Caractères de la Cour «La vita di corte è un gioco serio e melanconico che impegna: bisogna saper adottare i propri pezzi e le proprie batterie, avere un disegno e seguirlo, schivare quello dell’avversario, qualche volta azzardare e suonare a orecchio; e dopo tutti i sogni e le precauzioni, a volte subiamo uno scacco, e perfino uno scacco matto».
Ecco che Čechov coglie spesso i suoi personaggi tutti assorbiti dal gioco serio e melanconico del reciproco dissimulare, ma è drammatico in questo atteggiamento l’anacronismo: di fatto è perduto l’oggetto-soggetto da conquistare e di cui si cercava ossessivamente il favore, non c’è un Re Sole da compiacere che possa elargire privilegi, dunque perché ostinarsi in una struttura così rigida e improduttiva?
La risposta può essere relativamente semplice se si fa riferimento proprio a Il Gabbiano che Čechov scrisse nel 1895 e che debuttò a San Pietroburgo l’anno successivo. Fu un clamoroso insuccesso, solo nel 1898 con il nuovo allestimento di Stanislavskij e Dančenko al Teatro d’Arte di Mosca il testo fu consacrato come uno dei maggiori di quello che viene definito teatro moderno. Di fatto ne Il Gabbiano è in scena un coro affaticato che si oppone alla propria deformazione ostinandosi in una rigida chiacchiera di convenienza: non si tratta di un coro dionisiaco pronto a scaricarsi in un mondo apollineo, per dirla con Nietzsche, ma di un coro fatto di singolarità che scelgono di adattarsi al gruppo per rifiutare sia l’apollineo che il dionisiaco interiore. Tutto, pur di essere famosi, ammirati, riconosciuti pieni di talento e di genio o semplicemente amati dagli altri. Non conta la circostanza e il tempo, il luogo e la forma e il perché debba essere così. Così deve essere, è una questione di convinzione.

Questi borghesi in villeggiatura riproducono quello che nella città deve essere il quotidiano rituale collettivo nel tempo sospeso dell’estate e nello spazio di un giardino reso vagamente spettrale e ambiguo dalla presenza di un lago. Per la semplice necessità di affermare la propria esistenza tra quelle di tutti gli altri si dissimula, si recita un ruolo. È vero, non c’è un Re o un Imperatore da compiacere, ma c’è proprio il pubblico, una massa di lettori e spettatori pronti ad applaudire e a denigrare. È per questo pubblico che si è coro e da coro si agisce, è per e con il pubblico che si agisce nella convenzione.
Trovare niente nel tutto e tutto nel niente, dire parole che niente raccontano, ascoltare parole che tutto esprimono e cambiare argomento. Oggi che la dimensione collettiva, corale è veicolata da piattaforme virtuali che fingono di consentire una affermazione individuale è ancora decisivo avere nel Teatro uno spazio fisico in cui sia consentito prendersi un tempo per guardare e poi, se possibile, pensare.
Perché il Teatro è ancora l’unico luogo in cui il tempo interiore non è messo in discussione da quello collettivo, anzi, se mai può addirittura rimanerne separato: i due cori, quello degli attori sulla scena e quello degli spettatori che assistono alla rappresentazione, ancora possono reciprocamente influenzarsi e permettere l’uno all’altro di osservarsi, studiarsi, capirsi, discutere, sono cori di individui autonomi che si trovano separati solo per necessità pratica e non, almeno si spera, per necessità cortigiana.
Al Teatro della Corte di Genova dal 28 febbraio fino al 19 marzo 2017 è in scena Il Gabbiano (una produzione del Teatro Stabile di Genova) per la regia di Marco Sciaccaluga, una regia consapevole e asciutta che gioca proprio sul reciproco incontro di attori e spettatori (sin dalla scena iniziale capita spesso che i personaggi si muovano nella platea buia continuando le proprie discussioni così sospesi prima di raggiungere la luce del palcoscenico) e che insiste con eleganza e misura sul gioco metateatrale.
La scenografia (Catherine Ranckl) e le relative azioni spingono in una direzione orizzontale, più di compenetrazione che di sfondamento prospettico. Solo una passerella sulla destra offre un lieve sbilanciamento verticale, ma è appunto soltanto un accenno ad una elevazione interiore che in nessun personaggio è veramente preponderante e questa scelta di gestione spaziale risulta eccellente per sottolineare le tensioni reciproche di questo coro che non tenta mai veramente di liberarsi e di cercare altre direzioni. Sullo sfondo domina il telo su cui è dipinto il lago.
Il rosso desertico, la sabbia che si contrappone alla luna sanguigna, la polvere e i pesanti rami secchi, le stesse sedie e i tavolini raccontano la scheletrica stasi. Non è questo un giardino rassicurante, un hortus conclusus perché conserva una memoria di morte già passata, di caducità mai rifiorita che sconfessa persino il desiderio della metamorfosi naturale tra estate ed inverno, quasi che nemmeno il gelo sia concesso per dare tregua ai personaggi. Questo vivere è già deserto, lacrime asciutte e polvere di cose che, forse, furono.

Čechov è condanna, non c’è molto spazio per pietismi, la sua è una scrittura che non si risparmia e che insiste sulle miserie morali anche attraverso le nevrosi linguistiche che in questa messinscena per scelta del traduttore Danilo Macrì e del regista sono decisamente più evidenti: sono state ripristinate le varianti del testo altre che per censura (e anche per intenzione dello stesso autore conciliante con il suo pubblico) nelle successive messinscene furono ignorate e questo permette di godere maggiormente dell’insistito oscillare dei protagonisti tra il tragico ed il ridicolo.
Tragici e ridicoli, elastici fino al punto di spezzarsi, questi spiriti si muovono molto, ma senza mai veramente agire, si rincorrono nonostante siano vicini, si allontanano rimanendo gli uni negli altri.
Ecco Arkadina la grande teatrante che non vuole invecchiare, ferocemente egoista, capace di amare e fare amare solo se stessa, Elisabetta Pozzi è elegante, brillante: deve interpretare l’attrice che sta interpretando l’Arkadina che è al tempo stesso attrice e nel contesto sta recitando un ruolo. Un’operazione rischiosa, ma efficacissima.
Ecco suo figlio Treplev, giovane drammaturgo troppo orgoglioso ma anche troppo insicuro che vorrebbe un nuovo Teatro con nuove forme, ma che parla di fatto seguendo l’impostazione del Teatro vecchio che tanto disprezza: Francesco Sferrazza Papa è un Treplev iroso, un selvatico, aggressivo uomo sempre acerbo che nell’insistito di alzare la voce per farsi ascoltare diventa egli stesso il gabbiano che finirà per uccidere.
Ecco Sorin (un sornione Federico Vanni), fratello della Arkadina, che vuole vivere ma si avvelena con tabacco e Vodka e che nonostante si affanni per mantenere saldo il rapporto tra madre e figlio, si limita per sua stessa ammissione a chiudere sempre i propri e gli altrui discorsi.
Ecco Nina che Alice Arcuri rende sempre tesa verso l’alto con il mento e il corpo, la giovane vuole fare l’attrice ma non ha talento, è un’arrivista paradossalmente senza troppe pretese se non una unica volontà, quella di sentire la testa girare, acclamata e portata in trionfo dal suo pubblico.
Le si contrappone la rassegnata e infelice Maṧa (una nervosa Eva Cambiale) (e ciò è evidente anche nella scelta dei costumi sempre della Rankl, Nina inizialmente veste di bianco come una sposa, l’altra come una vedova in nero sino alla fine): è l’altra ragazza di provincia figlia dell’amministratore della tenuta (Roberto Alinghieri) perdutamente innamorata, come da cliché, del giovane drammaturgo che cercherà di dimenticare sposando il petulante maestro di scuola Medvedenko (è Andrea Nicolini a renderlo un tipo) che respira contando rubli e spese.

Non manca un medico che non prescrive farmaci e che cura ogni male con la valeriana: è il donnaiolo Dorn (interpretato con rigore da Giovanni Franzoni), donnaiolo per ruolo suggerito dal coro, ma lo si vede amoreggiare soltanto con la Arkadina ed è invece amante da sempre della Polina Andreevna (una puntuale Mariangeles Torres), moglie dell’amministratore della tenuta e madre di Maṧa.
L’amante della Arkadina è lo scrittore Trigorin che non ama veramente ciò che scrive e che non ha mai avuto una propria volontà, forse l’unico personaggio davvero scritto da Čechov con l’intenzione di inserire nella vicenda un (in)consapevole e ambiguo deus ex machina, autore-attore della propria e altrui infelicità, forse l’unico personaggio che davvero subisce e criticamente studia le conseguenze delle proprie azioni, forse l’unico personaggio di cui davvero è possibile cogliere la trasformazione. In tutti i suoi personaggi l’autore semina se stesso, ma è proprio nello scrittore che inizialmente ammette di essere “sempre come stordito” e di cercare senza successo di “trovare pace da se stesso” che l’autore realizza un personaggio pienamente complesso.
Trigorin è un concerto unico, un movimento di intenzioni che Tommaso Ragno rende con inesauribile, estrema forza senza mai risparmiarsi attraverso un processo di sottrazione che edifica lentamente ed inesorabilmente la materica inconsistenza dello scrittore. Frasi spezzate, ellissi non colmate nelle azioni, esitazioni stranianti, strappi nel pensiero e poi rapido agire, fulminante arrampicarsi e scivolare per poi tornare a scavare nella battuta fino a raggiungerne il midollo.
Una eleganza impareggiabile quella dell’attore ed una inconfondibile capacità di usare la voce fino a toccare tonalità cristalline partendo da profondità abissali e intime che raccontano un inconscio insondabile, tutto per restituire allo spettatore i moti incessantemente ondivaghi dell’animo complesso di questo Trigorin ingenuo e calcolatore, poeta e uomo semplice, perfetto critico della propria condizione di comoda debolezza e al tempo stesso sognatore ancora capace di desiderare per sé un amore puro che però è pronto a tradire dopo averne goduto ben oltre il limite perbenista da cui poi si lascia assorbire.
Questo Trigorin è un Amleto che non sa di essere Amleto ed è infatti questa la maledizione del giovane Treplev che si sente spodestato della parte: Trigorin per il figlio della Arkadina dovrebbe interpretare il ruolo di Claudio, del fratricida amante della regina Gertrude e invece si corrompe facendo di Ofelia un mezzo per conoscere una purezza che non è conoscibile una volta perduta.
Questo antieroe sfonda il cielo di carta, rimane in una tensione utopica e nichilista, rimane proiettato in una redenzione colpevole e quindi irrealizzata che nell’ultima scena (quella in cui in un a parte immerso nel chiasso di una tombola autunnale, il medico Dorn riferisce allo scrittore del suicidio del giovane Treplev) Tommaso Ragno condensa in un passo da Charlot novecentesco e di colpo si tace e oscilla con un sorriso tagliente che si va via via spegnendo come le luci calde di Marco D’Andrea sul gelo della scena avvolta dalla musica di Andrea Nicolini che in crescendo s’è fatta insistente, forzosamente allusiva di una allegria che tenta di nascondere la memoria di morte.

Se un attore sapesse essere la sensazione del nulla o proprio il nulla sarebbe un attore di quelli non ancora nati, ma che dire di un attore che sa essere ossimoro, feroce e dolce interprete di un personaggio sospeso tra il cinismo e la disperazione, ben oltre il nulla e ben oltre il tutto?
Se si trattasse di una reazione chimica diremmo che questo testo è una precipitazione: ci sono dei soluti (i personaggi) che in soluzione (il loro rapporto in villeggiatura e fuori dal gioco melanconico) raggiungono e superano il limite di solubilità (più cercano di essere felici più sono infelici) e il risultato finale, questo precipitato è ciò che i personaggi sono costretti a diventare ed è proprio la materia su cui Čechov lavora.
Trovare niente nel tutto e tutto nel niente, dire parole che niente raccontano, ascoltare parole che tutto esprimono e cambiare argomento.
Written by Irene Gianeselli
Photo by Giuseppe Maritati
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