Oscar 2017: Tutti i vincitori, le riflessioni, le statistiche e le curiosità – #5

Non v’è dubbio che l’89a Notte degli Oscar, così come l’intera 89a edizione, si sia ritagliata il proprio spazio nella storia dell’intrattenimento mediatico, così come in quella della celebrazione (singolare) delle eccellenze della settima arte.

Oscar 2017

“Singolare” è chiaramente un eufemismo chiamato ad ammortizzare la risolutezza con cui molti, fra cui il sottoscritto, si son schierati assistendo ad una cerimonia che mai potrà essere considerata “dei migliori” nel suo complesso, a differenza diciamolo subito di quanto accaduto l’anno passato, quando si ha avuto il lussuoso piacere di assistere ad uno degli esiti globalmente forse più soddisfacenti e onesti di sempre.

Muovendoci dall’universale al particolare, è imprescindibile affermare l’immanenza di due fenomeni di tendenza che hanno sotteso gli scrutini delle settimane scorse: lo spettro delle polemiche #Oscarsowhite, le quali 12 mesi or sono avevano il preciso compito di martellare sulla “compromessa” coscienza degli elettori, e poi ovviamente la “sismica” presidenza Trump, con i suoi eccessi che dividono.

Se al negativo influire del primo si può opporre con fermezza l’effettiva presenza (prima nelle sale e solo in seguito in casa Academy) di titoli d’incontestabile rilievo come “Barriere” e “Moonlight”, che si son portati a casa un totale di 4 pesanti vittorie, all’ascendente della seconda si possono in parte addurre alcune preferenze di carattere eminentemente politico.

Si avrà a brevissimo modo di osservare, categoria per categoria, la sussistenza di tali accuse, non numerose ma collocate in corrispondenza di riconoscimenti nevralgici, che aderendo ad uno spirito limpidamente meritocratico si appellano al diritto di constatare le falle di un sistema troppo spesso ossequioso verso un eticamente sensibile, riverente processo di attribuzione di convenienza. La ruggine risparmiata nell’edizione precedente è stata insomma abbondantemente riversata nella serata del 26 febbraio, seguita da un numero di spettatori pure inferiore (32,9 milioni) rispetto alla già deludente trasmissione del 28 febbraio 2016 (34,2 milioni), nonostante lo show abbia riscontrato gradimenti diffusi; superfluo constatare come, in caso contrario, l’acredine sarebbe emersa presso i detrattori di coloro che diffusamente sono stati da sempre considerati i trionfatori ideali.

Senza temporeggiare oltre, osserviamo la panoramica dei vincitori in ordine decrescente di statuette ottenute:

  • 6/14 – “La La Land”;
  • 3/8 – “Moonlight”;
  • 2/6 – “La battaglia di Hacksaw Ridge” e “Manchester by the Sea”;
  • 1/8 – “Arrival”;
  • 1/4 – “Barriere”;
  • 1/2 – “Animali fantastici e dove trovarli”;
  • 1/1 – “Il cliente”, “Il libro della giungla”, “Suicide Squad” e “Zootropolis”.

Le produzioni di maggior rilievo che sono invece rimaste a bocca asciutta sono:

  • 0/6 – “Lion – La strada verso casa”;
  • 0/4 – “Hell or High Water”;
  • 0/3 – “Il diritto di contare” e “Jackie”;
  • 0/2 – “Deepwater – Inferno sull’Oceano”, “Florence”, “Kubo e la spada magica”, “En man som heter Ove”, “Oceania”, “Passengers” e “Rogue One: A Star Wars Story”.
Lionsgate

La Lionsgate emerge quale Studio che ha fatto maggior incetta di premi attraverso la distribuzione (8 per “La La Land” e “La battaglia di Hacksaw Ridge”), seguito a grande distanza dalla A24 (3 per “Moonlight”); in coda si collocano pari merito gli Amazon Studios (2 per “Manchester by the Sea”), la Disney (2 per “Il libro della giungla” e “Zootropolis”), la Paramount (2 per “Arrival” e “Barriere”), la Warner Bros. (2 per “Animali fantastici e dove trovarli” e “Suicide Squad”).

Riesce più funzionale (e anche più appetitoso) optare adesso non per un percorso lineare di natura gerarchica (dalla “più” alla “meno importante” fra le sezioni), quanto piuttosto suddividere fra conferimenti leciti, opinabili ed (uno solo, fortunatamente) apertamente fallace, prendendo in prestito l’efficace gergo usato nel bowling. Si tratta di una lettura personale, condivisibile come no, che naturalmente mantiene in debita considerazione riflessioni da tempo depositate al di fuori dell’alveo ingannevole del mero gusto personale.

Strikes

Miglior regiaDamien Chazelle ha battuto Norman Taurog e i suoi 32 anni e 260 giorni vissuti prima di vincere la statuetta come miglior regista (nel 1931, per “Skippy”). Il padre illuminato di “La La Land” a 32 anni e 38 giorni è il più giovane di sempre, infrangendo un record cristallizzatosi per ben 86 anni, schiettamente caratteristico se si constata poi che fra i primi 6 più verdi directors (dai 32 ai 35 anni) ve ne sono 4 riuniti fra le edizioni del 1929 e, appunto, del 1931. Fanno eccezione insomma soltanto Chazelle e il Mendes di “American Beauty” (1999).

Avversari di primordine, il “neorealista” Barry Jenkins (“Moonlight”), il nebbioso ed ironico Kenneth Lonergan (“Manchester by the Sea”), il sempre più audace Denis Villeneuve (“Arrival”) e il resuscitato Mel Gibson sempre d’un pezzo (e sul pezzo, “La battaglia di Hacksaw Ridge”), la vittoria spettava di diritto all’autore più capace di proporre una poetica seducente e affilatissima pur nella sua apparentemente imberbe freschezza. L’impronta di “La La Land” costituirà per lungo tempo un esempio di brillantezza ispirata, di coraggio ed intelligenza nel plasmare, con disinvoltura nella gestione dello spazio scenico e degli attori che vi operano, nonché con ammirevole dovizia di rimandi alla storia del cinema di genere (il musical in questo caso, quello degli anni ’30 come del primo decennio del nuovo secolo), una love story risaputa, limpida, elementare e perlopiù regolare nei suoi sviluppi, applicandole una torsione di bravura che la conduca all’Olimpo dei capolavori con incantevole delicatezza e senza malcelate ruffianerie (mi riferisco a tutte quelle operazioni stilistiche di maniera che magari possono conquistare le sensibilità americanocentrica e deludere quelle d’oltreoceano, di tutt’altra genesi).

Alejandro González Iñárritu

Interessante notare come quest’anno si abbia il ritorno (secondo alcuni umoristi dettato dall’erezione del muro trumpese) di un regista statunitense, dopo 3 anni in cui sono stati (legittimamente) eletti i messicani Alejandro González Iñárritu (per “Revenant – Redivivo” e “Birdman”) e Alfonso Cuarón (per “Gravity”), preceduti dal taiwanese Ang Lee (per “Vita di Pi”), dal francese Michel Hazanavicius (per “The Artist”) e dal britannico Tom Hooper (per “Il discorso del re”). Per raggiungere gli ultimi vincitori maschi americani bisogna retrocedere ancora, oltre la californiana Kathryn Bigelow di “The Hurt Locker” e il mancuniano Danny Boyle di “The Millionaire”, fino ad arrivare ai fratelli Ethan e Joel Coen, che nel 2008 incassavano 3 statuette in colpo solo grazie al lavoro condotto su “Non è un paese per vecchi”.

Miglior attore protagonistaCasey Affleck è il perfetto amabile inetto in “Manchester by the Sea”, impeccabilmente navigato nel lavoro di sottrazione necessario alla resa ipersensibile di un personaggio per il quale non ha dovuto imbruttirsi, dimagrire o ingrassare, né simulare una grave malattia o sottostare a ore ed ore di trucco e parrucco. È il trionfo di una recitazione eccezionale nel suo apparire tangibilmente quotidiana, artigianale, lungi da forti contrasti, parossismi, interpretazioni estreme: in questo senso, si avverte lo stacco (anche a livello di risonanza fra i diversi pubblici) con le edizioni che recentemente hanno incoronato Leonardo DiCaprio (per “Revenant – Redivivo”), Eddie Redmayne (per “La teoria del tutto”) e Matthew McConaughey (per “Dallas Buyers Club”).

Gemma scintillante in una cinquina tutta di pietre preziose, completata dall’angelico e tenacissimo 33enne Andrew Garfield (“La battaglia di Hacksaw Ridge”), dal beffardo neo-pianista 37enne Ryan Gosling (“La La Land”), dal quasi michelangiolesco (perché ignudo) 58enne Viggo Mortensen (“Captain Fantastic”) e dal 62enne ancora in gran forze Denzel Washington (“Barriere”), Casey si allontana così una volta di più dall’ombra del più noto fratello Ben, già due volte premiato in qualità di sceneggiatore e di produttore (ma, si noti, mai nominato come attore).

Miglior attrice protagonista – Attendendo di misurarci con la regalità della 63enne neocandidata Isabelle Huppert (“Elle”, dal 23 marzo) e con l’ancora emergente 35enne Ruth Negga (“Loving”, dal 16 marzo), ci possiamo beare della vittoria della bellissima 28enne Emma Stone, preferita anche alle vivissime figure impersonate dalla 35enne Natalie Portman (la ad un tempo laconica, addolorata e risoluta first lady kennediana in “Jackie”) e dalla 67enne Meryl Streep (regina stonata eppure sublime in “Florence”).

Emma è un astro in piena ascesa, di quelli che sanno sfruttare con garbo e prorompenza la propria prestanza scenica di fronte l’invadenza della macchina da presa, peraltro così esigente nel caleidoscopicoLa La Land”: incarna la grazia della sfortuna, la leggiadria dell’essere umano comune che sogna la felicità, ancor prima che la realizzazione, l’eleganza della donna innamorata, e lo fa con tale efficacia da rendere il pubblico suo commosso amante mediale. Ci ricorda l’energia della prima Jennifer Lawrence, quella de “Il lato positivo”, non a caso trionfatrice nel 2013, ritratta però in un’aurea seduttiva più matura, sia dal punto di vista puramente anagrafico che da quello drammaturgico, di soggetto.

Mahershala Ali

Miglior attore non protagonista – Come poteva non vincere il 43enne californiano dal nome assurto a icona durante la Notte dal presentatore Jimmy Kimmel? Mahershala Ali ha sbaragliato la concorrenza, dal giovanissimo Lucas Hedges (20 anni, problematico eppure posato in “Manchester by the Sea”) al neo-anziano Jeff Bridges (67 anni, “Hell or High Water”, che chissà mai se vedremo nelle sale, oltre che online), passando per Dev Patel (26 anni, ai fatti empatico primattore in “Lion – La strada verso casa”) e Michael Shannon (42 anni, decadente, monolitico uomo della legge dallo sguardo trivellatore in “Animali notturni”).

La bontà “dal doppio fondo” che emana in “Moonlight”, riflesso anticipatore di quel che sarà il futuro del protagonista, ha irretito pubblico e critica, sgomenti di fronte la morbidezza con cui si muoveva quella massa muscolare, resa possibile dall’acume nella costruzione di un carattere di fondamentale importanza nell’economia del narrato. Nulla di esaltante, all’apparenza: ma è proprio nella plausibilità più serena che si colloca quel potere evocativo ed ammaliante di tanto in tanto capace di stupire e unire molti e diversi.

Miglior attrice non protagonista – Premio impossibile da negare anche per la 51enne Viola Davis, personalità di rilievo tale da bilanciare autonomamente un film, “Barriere”, altrimenti affidato con diritto pressoché esclusivo all’attrazione calamitica operata da Denzel Washington: il suo personaggio è responsabile dell’unica crisi in grado di minacciare l’orgoglio egocentrico dello spazzino che ha sconfitto la morte. È una performance, la sua, che viene dal teatro (la pièce di August Wilson si è posta al centro di un revival nel 2010 proprio ad opera della coppia protagonista, già premiata con 2 Tony Awards): come tale è primariamente studiata, sudata (meglio, lacrimata) sull’intensità dell’espressività del volto e della voce più che sul dinamismo del corpo.

Naturalmente rispettabili le concorrenti rimaste a bocca asciutta, ossia la 40enne Naomie Harris (spaventosamente odiosa in “Moonlight”), la 49enne Nicole Kidman (forse leggermente sopravvalutata in “Lion – La strada verso casa”), la 46enne (per alcuni bizzarramente 44enne!) Octavia Spencer (che attendiamo ne “Il diritto di contare”, nelle nostre sale dall’8 marzo) e la 36enne Michelle Williams (prima al confine con l’anaffettività, poi grottescamente dolente in “Manchester by the Sea”), due delle quali (la Kidman e la Spencer) hanno già conquistato l’ambita statuetta in passato.

Kenneth Lonergan

Miglior sceneggiatura originale – Kenneth Lonergan è riuscito a costruire uno di quei drammi “della moderazione” che procedono per variazioni minimali portando lontano dalle dichiarazioni di partenza; rassicurato dal tono ironico e benevolo adottato dall’autore in quest’opera di ferrea fattura, lo spettatore scruta (e gli tocca digerire) l’evolversi con ritmo invernale, giorno dopo giorno, di un indesiderato cambio di prospettiva cui il protagonista e la sua giovane spalla sono costretti ad adattarsi, senza grandi scandali o scariche di pathos: è la vita in scena, né più né meno, e in questo caso la si può salutare come un grande piccolo miracolo.

Variegato il panorama dei contendenti, che vanno dall’ammiccante spavalderia del poliedrico Damien Chazelle (“La La Land”) ai toni paradossali dei greci Yorgos Lanthimos e Efthymis Filippou (“The Lobster”, autentico successo internazionale di critica, fin oltre le aspettative), dalla per moltissimi incognita chiamata Mike Mills (“20th Century Women”, non ancora approdato in Italia) alla… per molti ugualmente incognita Taylor Sheridan (“Hell or High Water”, che, lo ricordiamo, è apparso su Netflix lo scorso novembre).

Miglior film d’animazioneZootropolis” regna, in quanto lungometraggio più completo, illuminante e adatto ad ogni fascia di pubblico. I compagni di avventura erano non di meno quasi tutti d’alto lignaggio: Kubo e la spada magica”, ossia il prodotto di nicchia che sceglie con successo la dimensione dell’epos, La mia vita da zucchina”, disarmante capolavoro (o in odore di) capace di unire la quintessenza della delicatezza infantile ad un’encomiabile capacità di sintesi e di elevazione poetica, La tartaruga rossa, al quale auguriamo sale gremite dal 27 al 29 marzo, e infine “Oceania”, chiaramente il più tradizionalista fra tutti i candidati e il più sopravvalutato (ad esempio, a sfavore di “.your name”, “Il piccolo principe” e “Sing”).

Che si tratti di un messaggio più o meno forte da indirizzare alla politica razzista di Trump, ciò non oscura il sacrosanto lume con cui i membri Academy hanno designato il miglior cartoon della stagione (non sempre è stato così: si vedano i casi di “Ribelle – The Brave” e “Big Hero 6”). Un microcosmo zoologico così sofisticato nelle relazioni inter-animali e nella costruzione drammaturgica probabilmente non aveva precedenti; ancora, “l’impronta applicata [… ,] quella dell’indagine, precipuamente poliziesca, raramente [è stata] raccontata con tale dovizia di dettagli in un prodotto animato [se eccettuiamo i film e le serie dichiaratamente aderenti al filone giallo, come può essere il franchise di “Detective Conan”]”. Così scrivevamo lo scorso marzo all’uscita del 55esimo classico Disney.

O.J.: Made in America

Miglior documentario – E qui è record: “O.J.: Made in America”, il primo film per il cinema del regista bostoniano, è divenuto non solo il documentario più lungo ad essere nominato e a vincere un Oscar, bensì il più esteso in assoluto fra tutti i prodotti mediali protagonisti in casa Academy. La complessa vicenda che portò l’ex campione di football dal campo di gioco al set, quindi alla prigione, ricostruita in uno degli edifici più imponenti della settima arte (che esuli dal carattere sperimentale, tipico di opere quali “Empire”, “Imitation of Christ” o “****”, tutte firmate da Andy Warhol), ad oggi diffuso solo in 3 Paesi al mondo, USA, Spagna e Olanda, in futuro da noi e altrove probabilmente direct-to-video, superato solo da una dozzina di titoli (fra cui i documentari “Shoah”, di Claude Lanzmann, 1985, “Come Yukong mosse le montagne”, di Joris e Marceline Loridan Ivens, 1976, e “Resan”, di Peter Watkins, 1987), non sarebbe mai sottostata ai seppur temibili “13th”, “I Am Not Your Negro” e “Life Animated”, e neppure al nostro amatissimo “Fuocoammare”. Le ragioni ci saranno chiare, speriamo al più presto; per ora siamo fieri che l’Italia abbia saputo spingersi così al largo.

Miglior colonna sonora – Colonna sonora non è (solo) l’insieme delle canzoni (nel caso di un musical), ed al di là dei pezzi cantati (non più di 7), Justin Hurwitz ha posto la firma a numerosi altri interventi musicali per “La La Land, riverberanti luminosità nel colore delle melodie e finezza nell’orchestrazione, vivacità nei ritmi e fosforo nella concatenazione delle numerose cellule tematiche e del loro incrementare scena dopo scena. Essi non tolgono nulla, ovviamente, alle splendide partiture scritte innanzitutto dalla novella Mica Levi per “Jackie” (nello stile “da camera” affine al “Turner” di Gary Yershon) e dal pertinace Thomas Newman per “Passengers”, non ancora presentatasi l’occasione d’oro per giungere alla vittoria, quindi da Dustin O’Halloran e Hauschka per “Lion – La strada verso casa” e Nicholas Britell per “Moonlight”.

Miglior canzone – L’ha di nuovo spuntata “City of Stars”, testo di Benj Pasek e Justin Paul musicato dal fortunato Justin Hurwitz, confermato dopo il Golden Globe e il Satellite Award, mentre il non meno incantevole cugino “Audition (The Fools Who Dream)” si è per l’ennesima volta fermato alla nomination; va detto che i votanti si devono essere trovati di fronte una scelta non facile, da un lato e dall’altro armonie spigliate che veicolavano parole pregne di significato. La preferenza di chi scrive sarebbe comunque andata alla seconda canzone; sicuramente non a “The Empty Chair” (da “Jim: The James Foley Story”) o alle popolarissime “Can’t Stop the Feeling!” (da “Trolls”) e “How Far I’ll Go” (da “Oceania”).

Alessandro Bertolazzi – Giorgio Gregorini – Christopher Nelson

Migliori trucco e acconciatura – L’orgoglio italiano si riversa in massima parte non solo per “Fuocoammare”, ma anche per la vittoria da parte dei truccatori Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini (accanto a Christopher Allen Nelson) di “Suicide Squad”, il quale alla luce delle feroci valutazioni da parte di critica e appassionati ha vinto più Oscar di “Silence” e “Sully” messi assieme (giusto per citare due grandi esclusi di quest’edizione degli Academy Awards). Le cascate di mascara sul volto di Harley Quinn, trasudante sex appeal da ogni poro, hanno conquistato gli esperti, arrivando a porsi sulla scia tracciata in passato dai nostri Manlio Rocchetti (fino al 25 febbraio l’unico riuscito a vincere sui colleghi autoctoni), Fabrizio Sforza, Aldo Signoretti, Maurizio Silvi e Vittorio Sodano, nonché bruciando sul traguardo “En man som heter Ove” (aka “A Man Called Ove”, seconda opera svedese a risultare candidata nella medesima categoria nel giro di due anni) e “Star Trek Beyond”.

Cogliamo in tal sede l’occasione per riportare l’assegnazione, avvenuta in data 11 febbraio 2017, di uno di quei premi che giovano di copertura mediatica pari a zero, ossia dell’Oscar al merito tecnico-scientifico (Scientific and Engeneering Award) al pisano Luca Fascione (accanto a J.P. Lewis e Iain Matthews) per lo sviluppo del sistema FACETS di performance capture presso la Weta Digital neozelandese, la stessa che ha reso incredibilmente realistici le creature mitiche de “Il Signore degli Anelli” e “Lo Hobbit”. Prima di lui erano stati insigniti dello stesso riconoscimento i connazionali Salvatore e Sante Zelli, Guido Cartoni, Mario Celso e Francesco Callari.

Altri premi tecnici – Celermente segnaliamo in questa sezione il duplice successo di “La La Land” nelle categorie iridee della miglior fotografia (Linus Sandgren) su “Arrival”, “Lion – La strada verso casa”, “Moonlight” e “Silence”, e della miglior scenografia (David Wasco e Sandy Reynolds-Wasco) su “Animali fantastici e dove trovarli”, “Arrival”, “Ave, Cesare!” e “Passengers”, esito tramutatosi in débâcle per quanto riguarda il montaggio (su cui ci soffermeremo fra poco) e i costumi, che hanno portato Colleen Atwood alla quarta vittoria grazie ad “Animali fantastici e dove trovarli” su “Allied – Un’ombra nascosta”, “Florence”, “Jackie” (dato per favorito) e “La La Land”, circostanza singolare vista la preponderanza fra le pellicole elette nell’intera storia degli Oscar di produzioni “in costume”, film storici, musicali o più in generale drammi, sicuramente non appartenenti alla famiglia del fantasy: in tal senso costituiscono un’eccezione solo “Alice in Wonderland” (2010, per cui troviamo nuovamente la Atwood), “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re” (2003) e “Dracula di Bram Stoker” (1992). Buffo notare come il franchise nato dalla penna della Rowling in 11 anni non sia riuscito a incassare neanche una statuetta dorata e abbia invece così dovuto aspettare il primo capitolo in cui il beniamino con la cicatrice non fosse presente.

Il libro della giungla

Come da copione (non che la sfida fosse una passeggiata!), gli effetti speciali più all’avanguardia sono stati riconosciuti in quelli de Il libro della giungla” (Robert Legato, Dan Lemmon, Andrew R. Jones e Adam Valdez), distintisi da quelli di “Deepwater – Inferno sull’Oceano”, “Doctor Strange”, “Kubo e la spada magica” e “Rogue One: A Star Wars Story”. Sul piano uditivo hanno eccelso per quanto riguarda il mixing “La battaglia di Hacksaw Ridge” (Kevin O’Connell, dopo 20 nomination a vuoto, Peter Grace, Robert Mackenzie ed Andy Wright), scavalcando “13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi” (il cui Greg P. Russell, lo ricordiamo, quando ha preso in mano la cornetta del telefono per profondersi in alcune conversazioni ricolme di speranza evidentemente non ha riflettuto sull’esempio offerto dal compositore Bruce Broughton, che nel 2014 s’era fatto squalificare per aver inviato agli elettori alcuni memo via email), “Arrival”, “La La Land” e “Rogue One: A Star Wars Story”; per quanto concerne l’editing invece, ce l’ha fatta “Arrival” (Sylvain Bellemare), sbaragliando “La battaglia di Hacksaw Ridge”, “Deepwater – Inferno sull’Oceano”, “La La Land” e “Sully”.

Migliori cortometraggi – Abbiamo per il live action “Mindenki” (aka “Sing”, Kristóf Deák e Anna Udvardy), davanti a “Ennemis Intériueurs”, “La Femme et le TGV”, “Silent Nights” e “Timecode”; per l’animazione il delizioso gioiello targato Pixar “Piper” (Alan Barillaro e Marc Sondheimer), quarto trionfo per lo Studio di Emeryville a 15 anni da “Pennuti spennati” (2001), 19 da “Il gioco di Geri” (1997), 28 da “Tin Toy” (1988), davanti a “Blind Vaysha”, “Borrowed Time”, “Pear Cider and Cigarettes” e “Pearl”; per la documentaria “The White Helmets” (Orlando von Einsiedel e Joanna Natasegara), davanti a “4.1 Miles”, “Extremis”, “Joe’s Violin” e “Watani: My Homeland”.

Split

Miglior sceneggiatura non originale – La prima di queste trovate spiazzanti è l’aver decretato la sceneggiatura adattata di “Moonlight” migliore fra quelle sulla piazza. Qual è il titolo che avrebbe dovuto vincere? “Arrival”, incoronato ai WAFCA e, soprattutto, ai WGA (gli Writers Guild of America Awards), ossia la riflessione sull’essenza del linguaggio e della comunicazione fra esseri viventi più stupefacente dell’anno, tanto più se considerato il genere di ascendenza, ossia lo sci-fi, stavolta intenzionato a rinunciare al comparto di effettistica pirotecnica per concentrarsi anzi sulla forte simbolicità del soggetto.

Moonlight

Ma Eric Heisserer è rimasto a mani vuote, vedendosi preferire il copione assai meno innovativo di Barry Jenkins e Tarell McCraney, risultato superiore anche a “Barriere” (ed ecco vaporizzarsi l’unica chance nutrita dal defunto August Wilson), “Il diritto di contare” e “Lion – La strada verso casa”. La questione non è ridurre a disamina la valenza o meno dei dialoghi del dramma di Jenkins, quanto piuttosto svelarne la collocazione anzitutto favorita attraverso la “metamorfosi” da originali ad adattati (ad opera del regista sulla base di una pièce di McCraney mai ufficialmente prodotta), mutazione riprodotta in un’altra dozzina di circostanze minori, ma purtuttavia nella maggior parte dei casi contraddetta, sin dai WGA; quindi accoglierne l’effettiva sudditanza estetica nei confronti delle sperimentazioni rinvenibili in “Arrival”, per le ragioni già espresse.

Miglior film stranieroAsghar Farhadi vince per la seconda volta, o meglio, lo fa un suo film (i registi e/o produttori dei lunghi in lingua straniera non sono mai gli intestatari della statuetta), dopo la performance di “Una separazione (2011), a sua volta secondo film iraniano ad essere nominato, preceduto da “I bambini del cielo” di Majid Majidi (1997). Era dal 1984, anno in cui Ingmar Bergman uscì in pompa magna dallo scenario del grande schermo presentando la versione “tascabile” di “Fanny e Alexander”, che un regista non assisteva all’elezione nella categoria di una propria opera per la seconda, terza o quarta volta (gli altri fortunati erano stati René Clément, Vittorio De Sica, Federico Fellini e Akira Kurosawa): dal 1985 in avanti, ogni anno ha ospitato un neo-vincitore… fino ad oggi.

In Italia è già da tempo approdato “Land of Mine – Sotto la sabbia” (Danimarca); a breve (dal 2 marzo) sarà il turno di “Vi presento Toni Edmann” (Germania), ovvero di quel pareva da lungi il favorito, nonostante la sconfitta ai Golden causata da “Elle” (Francia), assente invece nella cinquina (e prima ancora nella shortlist) stilata dall’Academy. Più avanti, si auspica, arriveranno anche “En man som heter Ove” (Svezia) e “Tanna” (Australia). Ora, senza voler nulla togliere al rilievo intrinseco de “Il cliente”, e attendendo specialmente di confrontarci con l’esuberanza della proposta tedesca, resta la sensazione che non sia stato scelto un lungo così maiuscolo come dovrebbe risultare “il migliore del mondo” fra le decine e decine presentati.

Fuocoammare

Già uno dei titoli infine scartati dalla shortlist (lo sbalorditivo “È solo la fine del mondo” di Xavier Dolan, Canada), ma anche il nostro stesso “Fuocoammare, apparivano artisticamente superiori, perlomeno alla sensibilità di chi scrive. Si apre perciò un bivio: o la settima fatica di Farhadi nasconde un potenziale che è sfuggito all’ispezione (e potrebbe anche essere, visti i numerosi casi di miopia su cui si è fatto retroattivamente luce), o si è deciso di applicare alla decisione una patina politica in risposta all’anacronistica ed insensata limitazione imposta da Trump ai flussi d’immigrati. Credendo a quest’ultima versione dei fatti, è triste constatare la più che probabile momentanea sospensione dei codici meritocratici vigenti.

Miglior montaggio – Terza deliberazione che olezza di svista è “La battaglia di Hacksaw Ridge” film meglio montato dell’anno grazie all’operato di John Gilbert. Quello di Gibson è un war movie magistralmente diretto e puntualmente dosato nella ricostruzione delle scene di combattimento; tuttavia resta un certo scoramento nel vedere come non sia stato debitamente riconosciuto il virtuosismo di “La La Land”, che non si compone semplicemente d’un susseguirsi di abili piani sequenza e longtakes, quanto invece d’un ingegnosissimo accostamento progressivo di panorami emozionali, collimanti o contrastanti a seconda del piano in cui sono collocati lungo l’asse della vicenda.

Tom Cross non s’è clonato a partire dall’entusiasmante lavoro compiuto su “Whiplash (2014), reinterpretando con accortezza le intenzioni registiche ed adattando la propria tecnica di cesura alle esigenze di una love story sì briosa, ma non certo ingaggiata in una sfida senza esclusioni di colpi. Sicuramente s’è collocato un gradino sopra i risultati raggiunti in “Arrival”, “Hell or High Water” e “Moonlight”.

Foul

Miglior film – L’Academy l’ha fatta fuori dal vaso, ha agito di pancia, s’è confusa, e forse il fato ha voluto farsene beffe, architettando una delle gaffe più eclatanti di sempre (la seconda davvero grave della serata, dopo l’errata attribuzione del volto della produttrice Jan Chapman, viva e vegeta, all’epigrafe della defunta costumista Janet Patterson durante l’atteso momento dell’In Memoriam). Come ormai risaputo, le due leggende di “Gangster Story”, Faye Dunaway e Warren Beatty, ritrovandosi fra le mani la busta sbagliata con dentro il cartoncino sbagliato (un doppione di sicurezza dell’originale affidato a Leonardo DiCaprio, incaricato di annunciare l’Oscar alla miglior attrice), invece di invocare l’intervento dei supervisori acciambellati dietro le quinte hanno preferito tirare a indovinare, gettando senza possibilità di riscatto lo show nel dirupo dello scandalo, di quelli che ti fanno andare a letto dopo un’a lungo anelata notte in bianco col dubbio di essere stato per qualche istante al cospetto della morte, come il Troy Maxson di “Barriere”.

La La Land

In effetti c’era chi profetizzava la morte/condanna di Hollywood, in caso però vincesse “La La Land”, non “Moonlight”. E invece, se comunque suona esagerato parlare di decesso, lo smacco ricevuto dalla pluripremiata realizzazione di Chazelle (e qui c’è da ribadire che il numero di nomination non fa necessariamente la qualità complessiva di un film: “La donna che visse due volte” registrò solo 2 candidature tecniche, “C’era una volta in America” un totale pari a zero) è assimilabile al concetto di castrazione. “La La Land” è Urano, il firmamento dei sognatori, quello in cui aleggiano i protagonisti in visita al planetario, l’Academy è Crono il canuto, vecchio per l’epoca in cui agisce, troppo solenne e radicato nella cultura e nella coscienza di massa da poter essere scalzato.

Ammorba il supposto narcisismo autocelebrativo con cui Hollywood e gli Oscar han spesso accolto produzioni di successo? Non costituisce motivo sufficiente per scartare un film esteticamente e drammaturgicamente eccelso che ha il neo imperdonabile di riferirsi al sogno americano di dominare la fabbrica dei sogni, cliché del cliché. Dichiarare “La La Land” miglior produzione dell’anno non  sarebbe stato un capitolare da habitué, il vezzo di un aficionado, bensì il riconoscimento dell’opera più rappresentativa della stagione, quella più amata dalla critica e dal pubblico, quella più spavalda e autoriale (tra le fila dei lungometraggi aspersi di popolarità, beninteso: non vogliamo certo santificarla come si trovasse circondata da pesti di basso rango, da “Arrival” a “Barriere”, da “La battaglia di Hacksaw Ridge” a “Il diritto di contare”, da “Hell or High Water” a “Lion – La strada verso casa”, da “Manchester by the Sea” allo stesso “Moonlight”), quella che in conclusione verrà ricordata in eterno e che fungerà da metro di paragone per diversissimi autori.

Il prediletto all black movie si pone perciò come “Oliver!” sta a “2001: Odissea nello spazio”, o “Gente comune” a “Toro scatenato”, o ancora “Crash – Contatto fisico” a “I segreti di Brokeback Mountain”. Come l’immaginario dallo storicamente facile attecchimento che ha portato “12 anni schiavo” alla vetta s’è rivelato un rinunciare “della nonna” alla poetica romantica ed innovativa di “Lei”, così la quieta correttezza, la piatta consonanza, la regolare grammatica, la rassicurante esemplarità di “Moonlight” hanno spinto i membri votanti a tradire l’unico dernier cri che sapesse conciliare tradizione e nuove cosmesi senza perdere una propria ben marcata identità. “La La Land” diviene martire senza volerlo, vincitore morale e argomento emblematico a vantaggio delle tesi  di chi intende smitizzare il prestigio dei premi cinematografici a fronte della qualità immortale conseguita dalle opere d’arte, similmente allo stile che si sbarazza della moda, la quale, sopravanzata, s’illude di sopravanzare.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

Info

Oscar 2017: L’aria che tira – Pronostici sulle future nomination #1

Oscar 2017 – L’aria che tira: Previsioni sulle future nomination #2

Oscar 2017: L’aria che tira – Predizioni sulle future nomination #3

Oscar 2017: L’aria che tira – Riflessioni, pronostici, statistiche e curiosità sulle nomination #4

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *