“Deliri – Vergine Folle – Lo sposo infernale” di Arthur Rimbaud: niente è come sembra, tutto è come vogliamo
Di seguito si potrà leggere la prima parte del brano intitolato “Deliri” di Arthur Rimbaud in traduzione italiana ed in lingua originale e qualche cenno sugli intenti del poeta francese.
“Deliri” Vergine Folle – Lo sposo infernale

Ascoltiamo la confessione di un compagno d’inferno:
“O divino Sposo, mio Signore, non rifiutate la confessione della più triste fra le vostre serve. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita!
Perdono, divino Signore, perdono! Ah! perdono! Quante lacrime! E quante lacrime ancor più tardi, spero!
Più tardi conoscerò il divino Sposo! Sono nata sottomessa a lui. – L’altro mi picchi adesso!
Per ora, sono in fondo al mondo! O amiche mie!… no, amiche mie no… Mai deliri né torture simili… Che idiozia!
Ah! soffro, grido. Soffro veramente. Eppure tutto mi è permesso, carica del disprezzo dei cuori più spregevoli.
Insomma, facciamo questa confidenza, salvo ripeterla altre venti volte, – altrettanto squallida, altrettanto insignificante!
Sono schiava dello Sposo infernale, quello che ha dannato le vergini folli. È proprio quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che ho perso il senno, io che sono dannata e morta per il mondo, – non mi uccideranno! – Come descriverlo? Non so neanche più parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po’ di refrigerio, Signore, se non vi dispiace, se davvero non vi dispiace!
Sono vedova… – Ero vedova… – ma sì, sono stata davvero seria un tempo, e non sono nata per diventare scheletro!… Lui era quasi un bambino… Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Ho dimenticato tutto il mio dovere umano per seguirlo. Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Io vado dove va lui, è necessario. E spesso s’infuria contro di me! me, la povera anima. Il Demonio! – È un Demonio, sapete, non è un uomo.
Lui dice: “Non amo le donne. L’amore va reinventato, si sa. Loro non possono che aspirare a una posizione sicura. Raggiunta la posizione, cuore e bellezza vengono messi da parte: resta solo un freddo disprezzo, alimento del matrimonio, oggi. Oppure vedo donne con i segni della felicità, delle quali, io, avrei potuto fare buone compagne, divorate subito da bruti sensibili come roghi…”
L’ascolto mentre fa dell’infamia una gloria, della crudeltà un incanto.
“Sono di razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il costato, bevevano il proprio sangue. – Mi farò tagli in tutto il corpo, mi tatuerò, voglio diventare orrendo come un Mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Voglio proprio diventare pazzo di rabbia. Non mostrarmi mai gioielli, striscerei e mi contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei macchiata di sangue dappertutto. Non lavorerò mai…”
Molte notti, quando il suo demone mi avvinghiava, ci rotolavamo, lottavo con lui! – Le notti, spesso, ubriaco, si apposta per le strade o nelle case, per spaventarmi a morte.
“Mi taglieranno il collo davvero; sarà disgustoso”.
Oh! quei giorni in cui vuol camminare con l’aria del delitto!
A volte parla, in una sorta di tenero dialetto, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano intorno bestiame della miseria. Rialzava gli ubriachi nelle strade nere. Aveva la pietà di una madre cattiva per i bambini piccoli. – Andava in giro con la grazia di una fanciullina al catechismo. – Fingeva di essere informato su tutto, commercio, arte, medicina. – Io lo seguivo, dovevo!
Vedevo tutto lo scenario di cui, mentalmente, si circondava; vestiti, stoffe, mobili: gli attribuivo armi, un altro aspetto. Vedevo tutto ciò che lo riguardava, come avrebbe voluto crearlo per sé. Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, lo seguivo, io, in azioni strane e complicate, lontano, buone o cattive: ero sicura di non entrare mai nel suo mondo. Accanto al suo caro corpo addormentato, quante ore della notte ho vegliato, chiedendomi perché volesse tanto evadere dalla realtà. Mai nessun uomo ebbe un simile desiderio. Riconoscevo, – senza temere per lui, – che poteva rappresentare un serio pericolo per la società. – Ha forse qualche segreto per cambiare la vita? No, non fa che cercarne, mi rispondevo. Insomma la sua carità è stregata, e io ne sono prigioniera. Nessun’altra anima avrebbe abbastanza forza, – forza della disperazione! – per sopportarla, – per essere protetta e amata da lui. Del resto, non me lo figuravo con un’altra anima: si vede il proprio Angelo, mai l’Angelo di un altro, – credo. Ero nella sua anima come in un palazzo che è stato svuotato per non vedere una persona poco nobile come te: ecco tutto. Ahimè! dipendevo proprio da lui. Ma che voleva con la mia esistenza squallida e vile? Non mi rendeva mi- migliore, anche se non mi faceva morire!
Tristemente stizzita, qualche volta gli dissi: “Ti capisco”. Lui alzava le spalle.
Così, dato che la mia pena si rinnovava di continuo, e mi trovavo più smarrita ai miei occhi, – come a tutti quegli occhi che avessero voluto fissarmi, se non fossi stata condannata per sempre all’oblio di tutti! – aveva sempre più fame della sua bontà. Con i suoi baci e i suoi amplessi amici, era davvero un cielo, un cielo cupo, quello in cui entravo, e dove avrei voluto essere lasciata, povera, sorda, muta, cieca. Mi ci stavo già abituando. Vedevo noi come due bravi bambini, liberi di vagare nel Paradiso di tristezza. Ci mettevamo d’accordo. Molto commossi, la- lavoravamo insieme.
Ma dopo una carezza penetrante mi diceva: “Come ti sembrerà strano, quando io non ci sarò più, quello che hai passato. Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, né il mio cuore per riposarti, né questa bocca sui tuoi occhi. Perché dovrò andarmene molto lontano, un giorno. E poi bisogna che ne aiuti altri: è il mio dovere. Sebbene non sia molto allettante…, cara anima…”
Immediatamente mi prefiguravo, dopo la sua partenza, in preda alla vertigine, precipitato nell’ombra più orrenda: la morte. Gli facevo promettere di non abbandonarmi. L’avrà fatta venti volte, questa promessa d’amante. Era frivolo quanto me quando gli dicevo: “Ti capisco”.
Ah! non sono mai stata gelosa di lui. Non mi lascerà, credo. Che farebbe? Non ha conoscenze, non lavorerà mai. Vuole vivere sonnambulo. La sua bontà e la sua carità, da sole, potrebbero dargli diritto al mondo reale? A tratti dimentico la pietà in cui sono caduta: lui mi renderà forte, viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sul selciato di città sconosciute, senza affanni, senza pene. Oppure mi risveglierò, leggi e costumi saranno cambiati, – grazie al suo potere magico, – il mondo, pur rimanendo lo stesso, mi lascerà ai miei desideri, gioie, svogliatezze. Oh! la vita d’avventure che esiste nei libri per bambini, ho sofferto tanto, per ricompensarmi, me la darai? Non può. Ignoro il suo ideale. Mi ha detto di avere rimpianti, speranze: tutte cose che non devono riguardarmi. Parla con Dio? Forse dovrei rivolgermi a Dio. Sono nel più profondo dell’abisso, e non so pregare.
Se mi spiegasse le sue tristezze, le capirei meglio delle sue derisioni? Mi attacca, passa ore a farmi vergognare di tutto ciò che al mondo mi commuove, e se piango s’indigna.
“Vedi quel giovanotto elegante che entra nella bella casa tranquilla: si chiama Duval, Dufour, Armand, Maurice, che so? Una donna si è consacrata all’amore di quel malvagio idiota: è morta, è di certo una santa in cielo, adesso. Tu mi farai morire come lui ha fatto morire quella donna. È la nostra sorte, noi, cuori caritatevoli…”
Ahimè! c’erano giorni in cui ogni uomo che agisse gli parevano zimbelli di deliri grotteschi: rideva spaventosamente, a lungo. – Poi, riprendeva i suoi modi di giovane madre, di amata sorella. Se fosse meno selvaggio, saremmo salvi! Ma anche la sua dolcezza è mortale. Io gli sono sottomessa. – Ah! sono pazza!
Un giorno forse lui sparirà meravigliosamente; ma bisogna che lo sappia, se deve risalire a un cielo, che io veda un po’ l’assunzione del mio amichetto!”
Strana coppia!
***

Jean Nicolas Arthur Rimbaud nasce a Charleville il 20 ottobre del 1854 e muore a Marsiglia il 10 novembre del 1891. È considerato il poeta dell’adolescenza sia perché nelle sue opere emergono con forza tutti i tratti adolescenziali sia perché la sua produzione poetica si è esaurita dai 16 ai 19 anni. Fortemente influenzato dagli studi iniziatici di alchimia, promossi in tenera età da un maestro, Rimbaud avrà la possibilità di iniziare il dialogo con il daimon e di esplicitare nelle sue opere l’angoscia derivata da tale incontro ma anche l’illuminazione. Perché durante il viaggio si percepisce in egual misura gioia e sgomento.
«Il primo studio dell’uomo che voglia diventare poeta è la conoscenza di sé, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’apprende. Dal momento che la conosce, deve coltivarla.» – Arthur Rimbaud
Arrivato all’ignoto, il poeta potrà anche impazzire, ma non importa: altri «cominceranno dagli orizzonti» dove lui è caduto. Le sue visioni saranno espresse nella lingua «dell’anima per l’anima», che riassumerà tutto: «profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia e tira il pensiero». Si aprirà una nuova era: «Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando vivrà per se stessa e grazie a se stessa, l’uomo – finora abominevole – le avrà dato il benservito, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell’ignoto! ».
“Deliri” è suddivisa in due parti, la prima è denominata “Vergine folle” con sottotitolo “Lo sposo infernale”, la seconda “Alchimia del verbo”. “Deliri” è contenuta nel poema in prosa “Una stagione in inferno“.
In Lingua Originale
Ecoutons, la confession d’un compagnon d’enfer: “O divin Epoux, mon Seigneur, ne refusez pas la confession de la plus triste de vos servantes. Je suis perdue. Je suis soûle. Je suis impure. Quelle vie!
“Pardon, divin Seigneur, pardon! Ah! pardon! Que de larmes! Et que de larmes encor plus tard, j’espère!
“Plus tard, je connaîtrai le divin Epou Je suis née soumise à Lui. – L’autre peut me battre maintenant!
“A présent, je suis au fond du monde! O mes amies!… non, pas mes amies… Jamais délires ni tortures semblables… Est-ce bête!
“Ah! je souffre, je crie. Je souffre vraiment. Tout pourtant m’est permis, chargée du mépris des plus méprisables coeurs.
“Enfin, faisons cette confidence, quitte à la répéter vingt autres fois, – aussi morne, aussi insignifiante!
“Je suis esclave de l’Epoux infernal, celui qui a perdu les vierges folles. C’est bien ce démon-là. Ce n’est pas un spectre, ce n’est pas un fantôme. Mais moi qui ai perdu la sagesse, qui suis damnée et morte au monde, – on ne me tuera pas! – Comment vous le décrire! Je ne sais même plus parler. Je suis en deuil, je pleure, j’ai peur. Un peu de fraîcheur, Seigneur, si vous voulez, si vous voulez bien!
“Je suis veuve… – J’étais veuve… – mais oui, j’ai été bien sérieuse jadis, et je ne suis pas née pour devenir squelette!… – Lui était presque un enfant…
Ses délicatesses mystérieuses m’avaient séduite. J’ai oublié tout mon devoir humain pour le suivre. Quelle vie! La vraie vie est absente. Nous ne sommes pas au monde. Je vais où il va, il le faut. Et souvent il s’emporte contre moi, moi, la pauvre âme. Le Démon! – C’est un Démon, vous savez, ce n’est pas un homme.
“Il dit : “Je n’aime pas les femmes. L’amour est à réinventer, on le sait. Elles ne peuvent plus que vouloir un position assurée. La position gagnée, coeur et beauté sont mis de côté : il ne reste que froid dédain, l’aliment du mariage, aujourd’hui. Ou bien je vois des femmes, avec les signes du bonheur, dont, moi, j’aurais
pu faire de bonnes camarades, dévorées tout d’abord par des brutes sensibles comme des bûchers…”
“Je l’écoute faisant de l’infamie une gloire, de la cruauté un charme: “Je suis de race lointaine: mes pères étaient Scandinaves: ils se perçaient les côtes, buvaient leur sang. – Je me ferai des entailles par tout le corps, je me tatouerai, je veux devenir hideux comme un Mongol: tu verras, je hurlerai dans les rues. Je veux devenir bien fou de rage. Ne me montre jamais de
bijoux, je ramperais et me tordrais sur le tapis. Ma richesse, je la voudrais tachée de sang partout. Jamais je ne travaillerai…” Plusieurs nuits, son démon me saisissant, nous roulions, je luttais avec lui! – Les nuits, souvent, ivre, il se poste dans des rues ou dans des maisons, pour m’épouvanter mortellement. –
“On me coupera vraiment le cou ; ce sera dégoûtant.” Oh! ces jours où il veut marcher avec l’air du crime!
“Parfois il parle, en une façon de patois attendri, de la mort qui fait repentir, des malheureux qui existent certainement, des travaux pénibles, des départs qui déchirent les coeurs. Dans les bouges où nous enivrions, il pleurait en considérant ceux qui nous entouraient, bétail de la misère. Il relevait les ivrognes dans les rues noires. Il avait la pitié d’une mère méchante pour les petits enfants. – Il s’en allait avec des gentillesses de petite fille au catéchisme. – Il feignait d’être éclairé sur tout, commerce, art, médecine. – Je le suivais, il le faut

“Je voyais tout le décor dont, en esprit, il s’entourait; vêtements, draps, meubles: je lui prêtais des armes, une autre figure. Je voyais tout ce qui le touchait, comme il aurait voulu le créer pour lui. Quand il me semblait avoir l’esprit inerte, je le suivais, moi, dans des actions étranges et compliquées, loin, bonnes ou mauvaises: j’étais sûre de ne jamais entrer dans son monde. A côté de son cher corps endormi, que d’heures des nuits j’ai veillé, cherchant pourquoi il voulait tant s’évader de la réalité. Jamais l’homme n’eut pareil voeu. Je reconnaissais, – sans craindre pour lui, – qu’il pouvait être un sérieux danger dans la société. – Il a peut-être des secrets pour changer la vie? Non, il ne fait qu’en chercher, me répliquais-je. Enfin sa charité est ensorcelée, et j’en suis la prisonnière. Aucune autre âme n’aurait assez de force, – force de désespoir! – pour la supporter, – pour être protégée et aimée par lui. D’ailleurs, je ne me le figurais pas avec une autre âme: on voit son Ange, jamais l’Ange d’un autre, – je crois. J’étais dans son âme comme dans un palais qu’on a vidé pour ne pas voir une personne si peu noble que vous: voilà tout. Hélas! je dépendais bien de lui. Mais que voulait-il avec mon existence terne et lâche? Il ne me rendait pas meilleure, s’il ne me faisait pas mourir! Tristement dépitée, je lui dis quelquefois: “Je te comprends.” Il haussait les épaules.
“Ainsi, mon chagrin se renouvelant sans cesse, et me trouvant plus égarée à mes yeux, – comme à tous les yeux qui auraient voulu me fixer, si je n’eusse été condamnée pour jamais à l’oubli de tous! – j’avais de plus en plus faim de sa bonté. Avec ses baisers et ses étreintes amies, c’était bien un ciel, un sombre ciel, où j’entrais, et où j’aurais voulu être laissée, pauvre, sourde, muette, aveugle. Déjà j’en prenais l’habitude. Je nous voyais comme deux bons enfants, libres de se promener dans le Paradis de tristesse. Nous nous accordions. Bien émus, nous travaillions ensemble. Mais, après une pénétrante caresse, il disait : “Comme ça te paraîtra drôle, quand je n’y serai plus, ce par quoi tu as passé. Quand tu n’auras plus mes bras sous ton cou, ni mon coeur pour t’y reposer, ni cette bouche sur tes yeux. Parce qu’il faudra que je m’en aille, très loin, un jour. Puis il faut que j’en aide d’autres: c’est mon devoir. Quoique ce ne soit guère ragoûtant…, chère âme…” Tout de suite je me pressentais, lui parti, en proie au vertige, précipitée dans l’ombre la plus affreuse: la mort. Je lui faisais promettre qu’il ne me lâcherait pas. Il l’a faite vingt fois, cette promesse d’amant. C’était aussi frivole que moi lui disant: “Je te comprends.”
“Ah! je n’ai jamais été jalouse de lui. Il ne me quittera pas, je crois. Que devenir? Il n’a pas une connaissance ; il ne travaillera jamais. Il veut vivre somnambule. Seules, sa bonté et sa charité lui donneraient-elles droit dans le monde réel? Par instants, j’oublie la pitié où je suis tombée: lui me rendra forte, nous voyagerons, nous chasserons dans les déserts, nous dormirons sur les pavés des villes inconnues, sans soins, sans
peines. Ou je me réveillerai, et les lois et les moeurs auront changé, – grâce à son pouvoir magique, – le monde, en restant le même, me laissera à mes désirs, joies, nonchalances. Oh! la vie d’aventures qui existe dans les livres des enfants, pour me récompenser, j’ai tant souffert, me la donneras-tu? Il ne peut pas. J’ignore son idéal. il m’a dit avoir des regrets, des espoirs: cela ne doit pas me regarder. Parle-t-il à Dieu? Peut-être devrais-je m’adresser à Dieu. Je suis au plus profond de l’abîme, et je ne sais plus prier.
“S’il m’expliquait ses tristesses, les comprendrais-je plus que ses railleries? Il m’attaque, il passe des heures à me faire honte de tout ce qui m’a pu toucher au monde, et s’indigne si je pleure.
” – Tu vois cet élégant jeune homme, entrant dans la belle et calme maison: il s’appelle Duval, Dufour, Armand, Maurice, que sais-je? Une femme s’est dévouée à aimer ce méchant idiot: elle est morte, c’est certes une sainte au ciel, à présent. Tu me feras mourir comme il a fait mourir cette femme. C’est notre sort, à nous, coeurs charitables…” Hélas! il avait des jours où tous les hommes agissant lui paraissaient les jouets de délires grotesques : il riait affreusement, longtemps. – Puis, il reprenait ses manières de jeune mère, de soeur aimée. S’il était moins sauvage, nous serions sauvés ! Mais sa douceur aussi est mortelle. Je lui suis soumise. – Ah! je suis folle!
“Un jour peut-être il disparaîtra merveilleusement; mais il faut que je sache, s’il doit remonter à un ciel, que je voie un peu l’assomption de mon petit ami!”
Drôle de ménage!
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