“Hanna” di Minna Canth: l’ipocrisia della società borghese dell’Ottocento
“Hanna” è il libro più celebre sociale dell’attivista Minna Canth, pubblicato per la prima volta nel 1886, nel 2016 è riproposto in italiano da Vocifuoriscena.
L’autrice è stata la prima donna a ricevere un “Flag days” nella sua Finlandia: il 19 marzo, giorno della sua nascita, è infatti, dal 2007, dedicato all’uguaglianza.
Siamo in Finlandia, nella seconda metà dell’Ottocento, quando la famiglia tradizionale di stampo borghese era ritenuta il perno dello collettività, quale struttura sociale perfetta per la realizzazione di ogni uomo e di ogni donna e, soprattutto, per l’avanzamento della civiltà della nazione di cui ognuno è parte integrante.
Ma Minna Canth è una, non l’unica, voce fuori dal coro: non a caso il romanzo “Hanna”, che oggi non contiene un messaggio rivoluzionario, quanto la testimonianza delle incertezze di un’epoca, incertezze di cui la nostra non è certo avulsa, risente del clima che seguì la pubblicazione di “Casa di bambola” di Ibsen, nel 1879.
L’esordio del romanzo fa ben comprendere le intenzioni dell’autrice: abbiamo fra le mani un romanzo di formazione caratterizzato da note fortemente intimistiche che mettono a nudo le contraddizioni dello sbocciare alla vita della giovane Hanna, che incontriamo appena quindicenne.
Non riuscendo a prendere sonno, la ragazzina assiste al rientro in casa, a notte fonda, del padre ubriaco che ha un atteggiamento verbalmente violento verso la madre.
Ed è in quell’oscurità interrotta dalle luci del braciere che Hanna abbandona le sicurezze dell’infanzia: non solo è pronta a vedere la natura meno nobile del padre ma anche a vedere la fragilità della madre, prima idolo indiscusso di femminilità.
Nel corso di un paio di anni si assiste ad un altro mito che si infrange nella vita della fanciulla, quello della famiglia borghese, basata sui valori cristiani e sulla difesa strenua della morale, dove l’uomo si dedica al lavoro e alle attività fisiche all’esterno della casa, mentre la donna si realizza nel ruolo di moglie e madre virtuosa, trascorrendo in tempo libero a ricamare e a cucire.
Ma la realtà non è così lineare. Non ci sono case di bambole, se non destinate a diventare prigioni di intelletti femminili a cui è preclusa l’indipendenza e l’autonomia che solo l’istruzione e il lavoro retribuito possono consentire.
Le donne sono tenute a non assumere atteggiamenti, anche del tutto innocui, che potrebbero comprometterle, ossia deprezzarle del più grande valore che possiedono: la verginità e la pudicizia.
Al contrario, gli uomini, se pur non apertamente, contravvengono perfino alle basilari regole di fedeltà coniugale, arrivando a dar prova di ciò contagiando le consorti di sifilide.
Le donne ricevono un’educazione che non è che finalizzata a completare il prestigio del futuro marito, che può godere, in casa e in società, di una presenza discreta e opportuna, votata all’obbedienza.
Al contrario, gli uomini sono liberi di decidere le proprie sorti e di dedicarsi allo studio perché considerati intellettualmente più vivaci, fisicamente più forti e caratterialmente più decisi.
C’è una via d’uscita? C’è.
È quella delle donne senza marito, le zitelle, coloro che per decisione del destino o propria, talvolta per il concorso di entrambe, vivono affrancate dall’autorità di un marito e dall’obbligo dell’accudimento della prole. Ma sono davvero libere e socialmente integrate?
Written by Emma Fenu
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