“Pelle di donna” di Alina Rizzi: diciotto storie nude di violenza
“Pelle di donna” è una raccolta di diciotto storie vere di violenza, esito della fedele trascrizione di altrettante interviste, edita da Bonfirraro Editore nel 2015. L’autrice, Alina Rizzi, è una giornalista e scrittrice da tempo impegnata contro la violenza di genere.
Pelle di donna veste la bimba che piange inascoltata.
Pelle graffiata, violata, bruciata, accoltellata, massacrata.
Pelle di donna nasconde l’orrore di una vita all’apparenza normale.
Pelle di donna tagliata e cucita per coprire, con una maschera, il volto del mostro.
L’immagine della cover del libro, accompagnata dal titolo, è fortemente simbolica: si tratta di una donna ridotta ad un aborto di femminilità o di una dea madre che, raggomitolata in posizione fetale, manifesta l’intento di autopartorirsi e allattare al proprio seno la bambina che le vive dentro?
È un simbolo volutamente contrastante.
Sono storie nude, queste raccolte da Alina Rizzi. Nude di fronzoli, di filtri, di velleità letterarie, di giustificazioni sessiste.
Le protagoniste si raccontano: sono bambine, donne giovani, donne di mezza età, italiane, straniere. Sono tutte vittime di violenza fisica e psicologica perpetuata da compagni, fidanzati, mariti, padri, familiari, educatori, istituzioni statali e organizzazioni criminali; molte sono riuscite a rinascere, alcune no, non possono neppure avere il ruolo di voce narrante. Non più.
Allora sono altre a narrare per loro, perché nessuna donna sia dimenticata, uccisa mille volte dall’indifferenza e dall’ingiustizia, violata senza fine dal silenzio che condanna a essere vittime in eterno, perché ree di essere, paradossalmente, colpevoli.
«Per me questa non è giustizia. Perché mia figlia è morta massacrata dall’uomo da cui desiderava un bambino. Vorrei che qualcuno mi spiegasse che senso ha tutto questo. I giudici non hanno saputo farlo».
Colpevoli di voler esercitare la propria libertà, di non voler sopportare botte o insulti, di essere troppo sole, troppo povere e troppo emarginate per poter reagire.
Colpevoli di non subire passivamente regole sociali e culturali disumane, retaggio pesante e decomposto di secoli, e di voler avere voce e scrivere la propria storia.
«Sono una Malanova, che al mio paese, San Martino di Taurianova, in Calabria, significa “portatrice di sventure”. Per questo sono dovuta fuggire e nascondermi. […] Per i miei ex-concittadini io ero solo una puttanella che si era presa gioco di tutti i maschi del paese: ragazzini e uomini sposati. Ho portato il disonore nelle case, ho scardinato gli ingranaggi menzogneri che tengono in piedi le famiglie».
L’hanno scritta la loro storia. Leggiamola. È anche la nostra, anche se ci sembra lontana, in realtà dista un pianerottolo dalla nostra casa, o forse meno.
Written by Emma Fenu