Le métier de la critique: Bambini ossessivi e disadattati, un approccio pedagogico nell’analisi dell’opera di Ian McEwan
Inserendo continuamente episodi legati al mondo dell’infanzia nelle sue storie e avendo addirittura tra i personaggi principali ragazzini e quasi adolescenti, è innegabile che vi sia un’attenzione in Ian McEwan nei confronti di questa particolare età della vita dell’uomo. Io credo, contemporaneamente, che sia possibile affermare che vi sia anche un interesse pedagogico, al di là di quello meramente letterario, per lo meno in alcune storie.

Per meglio spiegarsi, non credo però che l’autore abbia congegnato determinate storie, elaborato vicende e costruito personaggi con il fine ultimo per noi lettori di estrapolare una sorta di insegnamento o didattica di ciò che va fatto o ciò che va evitato. Lo stesso autore si è sempre detto ben distante da una narrativa di denuncia ossia volta in qualche modo a permettere nel lettore la formulazione di un giudizio di tipo etico-sociale. Nel momento in cui ci propone l’incesto di Jack e Julie nel celebre Il giardino di cemento la sua finalità non è quella di condannare questo determinato comportamento che nella realtà sociale corrisponde a un reato sanzionabile, né di sostenerlo o tanto meno mitigarne la gravità, piuttosto il suo interesse è prettamente letterario. Legato cioè a delle tematiche da poter percorrere e sviluppare in una data società (ricordiamoci che i primi lavori furono scritti tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80) nella quale certi argomenti, tanto nell’opinione comune come nella letteratura, rappresentavano degli invalicabili tabù. Da qui proviene la gran critica negativa che l’autore incassò con opere quali Primi amore, ultimi riti, Fra le lenzuola e ancor più con il citato Il giardino di cemento e il successivo Cortesie per gli ospiti.
Debbo anche osservare che, nel momento in cui si decide di studiare l’opera dell’autore e quindi di calarsi nelle sue tematiche che spesso sono sinonimo di problematiche esistenziali, è necessario prendere in considerazione la componente sociale, tanto quella ideologica (se ve ne è) e quella appunto pedagogica. Le storie di McEwan si svolgono quasi sempre in un universo domestico chiuso ed asfissiante dove sono i soli membri della famiglia (nessun amico né conoscente) a intervenire ed è di per sé questo spazio stretto ed annichilente, il contesto ambientale, a rappresentare una prima manifestazione di disagio dove nascono dati comportamenti e si sviluppano. McEwan, con il suo stile apparentemente fluido e semplice, mostra di essere un grande conoscitore della psiche, soprattutto di quegli episodi che riguardano quelli che potremmo definire “inceppamenti della psiche” che si realizzano in rapporti tra madre-figlio o fratello-sorella tanto da ipotizzare che sia più preciso parlare di psicopedagogia in relazione alla sua opera. In particolare la giusta attenzione deve essere posta non tanto nei fatti in sé stessi, pur nella loro gravità, piuttosto nel sistema di relazioni intra-familiari che li dettano (o in un certo senso possono motivarli) dacché spesso è proprio dalle complicate dinamiche familiari o dalla mancanza di una ripartizione di ruoli che si origina quell’anarchia pericolosa dalla quale è poi difficile fuggire.
Ho l’impressione che l’autore non abbia scritto questi testi con una particolare intenzione pedagogica in mente, sebbene sia possibile, leggendoli in profondità e con il supporto di studi appropriati, andare a ricavarne una lettura di questa tipologia. Se la dimensione educativo-formativa è rappresentata dalla famiglia e dalla scuola in primis, è intuitivo credere che, venendo a mancare i genitori in età scolare e mettendo fine alla frequentazione della scuola, i ragazzi come avviene ne Il giardino di cemento, non abbiano né considerino la necessità di un ente che li istruisca al mondo. L’istruzione che a loro manca, con eccezione forse di Julie che è la maggiore e può considerarsi già donna, è relativa alla conoscenza del mondo, alla conoscenza di sé, alla necessità di dialogo, all’apertura e alla condivisione, compreso lo stupore e la curiosità che vengono a mancare di colpo con la morte dei genitori. Trasformandosi quel che resta di una famiglia, senza organizzazione alcuna, in una monade in sé autosufficiente perché ciascuno autosufficiente per sé nella propria indipendenza emotivo-attitudinale, il possibile aiuto esterno è scongiurato e la sussistenza familiare dei ragazzi, come noto, si manterrà sino a che un episodio cruciale non interverrà a distruggere la conservazione di quel dissestato e residuale aggregato umano.

Mi vengono, però, in mente anche le tante disattenzioni, latitanze, silenzi, noncuranze e lontananze di molti genitori nei riguardi dei figli sempre troppo occupati con l’amante di turno o le loro questioni lavorative (Michael Beard, ad esempio è un gran libertino ma poco ci viene detto della sua esemplarità quale genitore) o religiose (il padre di Serena Frome è un vescovo anglicano austero, quasi perennemente assente dalla vita concreta della famiglia). Se i ragazzi e i bambini assumono nei loro trascorsi aggressività e indifferenza nei confronti degli altri è in parte dovuto a questa carenza di calore, vicinanza e di affetto sincero. Nell’immensità di giornate vuote trascorse da soli, con un fratello ancor più piccolo del quale hanno l’obbligo di occuparsi, o in compagnia del solo animale domestico, è lì che matura la diversione: l’immaginazione sfrenata che fa viaggiare il bambino ad occhi aperti in un mondo migliore da quello che gli è dato di vivere (Peter Fortune, Briony Tallis), la remissione e il senso di nichilismo (Sue in Il giardino di cemento), gli istinti vittimistici, sadici, violenti e gli impulsi di una sessualità deviata, vissuta come forma di dominio o gioco (numerosi e facilmente rintracciabili i rappresentanti di questa categoria).
Sono tendenzialmente d’accordo con quei critici che hanno ravvisato un legame tra la trattazione di certe tematiche in McEwan ed episodi della sua vita personale, soprattutto partendo dalla convinzione che chiunque scriva, per quanto possa de-personalizzarsi e narrare una storia altra, immancabilmente inserisce qualcosa di sé. Nel caso di McEwan ciò è ben più palese per il fatto che lo stesso autore ha rivelato in varie interviste come visse l’assenza di fratelli, e la soggezione di un padre austero non di meno violento con la madre. Non sono d’accordo, invece, con coloro i quali vogliono in un certo senso motivare con una granitica certezza che l’introduzione di temi scottanti e anti-letterari quali l’incesto, la pedofilia, la prepotenza in fasce di ragazzi, la mancanza di una dimensione etica siano connaturate nel pensiero dei primordi dell’autore perché da lui sperimentate simili situazioni di disagio. Bisogna stare infatti sempre molto attenti quando si analizza un autore perché ciò che ci interessa sono ciò che propone e i suoi temi e credo che non si debba travalicare più di tanto l’analisi focalizzandola sulla persona, cioè sulla vita privata. Pertanto posso dire che alcune preoccupazioni, divagazioni e propensioni a debordare dalla normalità descritte dal primissimo McEwan possono in effetti avere una ragione nel contesto ambientale vissuto dall’autore durante l’infanzia ma non sarei altrettanto sicuro nel sostenere che l’esperienza personale abbia giocato in lui un “ruolo decisivo” diversamente da ciò che ha rivestito una serie di letture di autori propensi appunto da trattare determinate tematiche.
Nel caso dell’autore al quale ci stiamo riferendo, non parlerei di diseducazione, termine che sta a significare la mancanza di validi modelli formativi da seguire e comportamentali e dal punto di vista linguistico, quanto di sterilità affettiva e di privazione familiare.
Il disagio esistenziale che connatura da subito le verdi esistenze di varie storie di McEwan sarebbe radicato più in circostanze ambientali, ossia nel contesto in cui le stesse si realizzano, dominato da abbandono, disinteresse e disorganizzazione che decretano l’impossibilità di individuare un eventuale centro che possa garantire ordine, sicurezza e rappresentare una autorità da seguire. Mancando l’affetto e l’interesse tra i genitori di un nucleo familiare è intuitivo pensare che la progenie, crescendo, non avrà saldi esempi d’interazione sociale, di apertura, cooperazione solidale, amicizia, comprensione permettendo al contempo la radicalizzazione di attitudini narcisistiche che riguardano e investono, come centro di interesse, il proprio sé e non l’altro da noi. Che a ciò faccia seguito la diseducazione, ossia l’adozione di atteggiamenti preoccupanti e lesivi, che derogano la normalità, la considero come una sorta di conseguenza, dunque un fatto che, pur essendo collegato all’arsura emotiva, ne è un effetto. Sarà sufficiente pensare ai ragazzi del Il giardino di cemento che, dopo la veloce e quasi insignificante morte del padre e il più rilevante decesso della madre, assumono ciascuno atteggiamenti privati (l’esasperante attività onanistica di Jack, la regressione di Joe, il silenzio doloroso di Sue) dettati dalle proprie frivole necessità privi di quella consapevolezza e responsabilità che con il nuovo nucleo familiare venutosi a creare, dovrebbero ricercare e concretizzare convintamente, a salvaguardia dell’istituto familiare stesso.

Mi verrebbe da pensare anche ai figli di Mary di Cortesie per gli ospiti, lasciati non si sa dove e non si sa con chi per avventurarsi in una vacanza erotica con il suo giovane amante, Colin, nella struggente Venezia. Per porla in altri termini: il vivere in una coppia genitoriale frantumatasi dove i ragazzi vengono talora affidati ad uno per poi passare all’altro, il rendersi conto che la propria madre abbia un compagno momentaneo a lei molto più giovane con il quale non manca di viaggiare preferendo questa compagnia a quella, doverosa, verso i propri figli non sono elementi altrettanto validi che potrebbero significare, nell’approdo di questi giovani alla loro fase adolescenziale (già problematica di per sé), elementi causanti o comprovanti una disaffezione tra loro e la madre? Di per sé non sono fenomeni diseducativi né pericolosi per i giovani qualora intervenga una serie di altre variabili quali un sano affetto ricambiato tra genitore e figli, stima e riconoscimento dei rispettivi ruoli, attenzione e premura, ascolto verso di essi e che, laddove questo venga soppiantato da un mero disinteresse camuffato ad esempio da telefonate di circostanza per poterli sentire (e mostrare che, in qualche modo, la madre è con loro perché li pensa), potrebbe contenere in effetti le ragioni di uno sviluppo di un’anima inquieta pervasa da un senso di solitudine e anaffettività. È in queste condizioni, in questo dar eccessivo spazio libero ed autonomia ai giovani (ossia nel genitore che limita al massimo i momenti di ascolto e compartecipazione) che si contribuisce a fomentare quei germi per una famiglia de-familiarizzata: la madre diventa un compagno, una comparsa, la persona che cerca di ripagare le disattenzioni di cui è consapevole mediante una materialità illusoria che, se al momento allieta il bambino, a lungo termine contribuisce ad aggravare le vere mancanze.
Un analogo discorso potrebbe essere fatto se prendessimo in esame da più vicino il problematico personaggio di Henry Stevens in una delle più celebri sceneggiature dell’autore: L’innocenza del diavolo. Apparentemente amato e con alle spalle una salda famiglia e un benessere invidiabile manifesterà una tempra sadica e misantropica, di contro al cugino ritrovato che, pur orfano di madre, lontano dal padre e adottato nella nuova famiglia, ripudia l’uso della violenza e ama il sano divertimento. Questo, che potrebbe apparire addirittura contraddicente con quanto si è sin qui detto, per sostenere che non è solamente la presenza fisica di una famiglia a garantire un buon ed efficace rapporto genitori-figli ma anche la qualità e il valore umano e morale degli insegnamenti impartiti in forma non autoritaria.
Dal mio personale punto di vista mi sono occupato di queste devianze comportamentali spesso afferenti alla sfera sessuale che si realizzano nei giovani abbandonati a sé stessi dove figure genitoriali o comunque sociali od assistenziali latitano e questa mancanza silenziosa contribuisce alla derelizione e alla depravazione di questi adolescenti che, privati d’affetto e costretti a crescere velocemente senza guide di riferimento, trovano intuitivo e giusto adottare certi comportamenti. Se la comunità, quale cellula sociale intermedia tra il singolo e il mondo pubblico, non ha asservito al suo impegno umano e primordiale (il crescere i figli non solo materialmente nel dargli da mangiare, ma anche crescerli formativamente) allora è ovvio constatare che l’individuo, solo e lontano da una dimensione pubblica e corale nella quale potrebbe rispecchiarsi o trovare aiuto, attui nel privato meccanismi di difesa validi per sé in quelle circostanze ma che, da un punto di vista sociale, si configurano come forme di disagio, problematiche manifeste e addirittura aberrazioni spaventose.
Il mio interesse, da critico letterario, è stato mosso dall’individuazione di queste terminazioni nervose scoperte nella prosa di McEwan, dalle vicende più cupe e grottesche che travalicano la sanità per iscriversi nel borderline propriamente detto, da un punto di vista prettamente letterario, dunque contenutistico e concettuale, per andare a rintracciare i prodromi, sempre all’interno delle relative storie, di concause che motivano situazioni di un determinato tipo. In ciò si è evidenziato il riflesso psicanalitico di determinati aspetti della psiche quali ad esempio la regressione all’infanzia nel personaggio di Joe del Il giardino di cemento o la manifestazione di perversioni che concernono la sfera sessuale ponendo l’oggetto del desiderio su un interesse che svia dalla normalità consentita (si veda il vasto universo delle parafilie nell’opera del Nostro). Mi sono avvicinato a queste situazioni al limite, aggiungerei da vero e proprio maudite, con interesse e desiderio di comprendere maggiormente se ciò che l’autore narrava era frutto di un suo ghiribizzo personale volto dunque a creare shock nel pubblico ma comunque una risposta forte nella sua audience, o se fosse, invece, frutto di studio ed analisi di situazioni di disagio, magari osservate e vissute, mosso dalla volontà di rendere su carta dinamiche familiari e sociali da lui investigate in altre forme, nel mondo della realtà.
Come si diceva pocanzi, affinché possa parlarsi di un rapporto tra adulto e bambino è necessario che vi sia una serie di occasioni ed elementi, nella narrazione, che ci consenta di valutare i due soggetti come interagenti e comunicanti. Laddove adulto e bambino risultino due realtà sì presenti ma prese in esame e narrate in momenti tra loro separati è difficile parlare di un vero e proprio rapporto tra loro.
L’esistenza di trame in McEwan nelle quali figurano bambini con i rispettivi genitori od altri adulti sono nella gran parte dei casi portate (per lo meno se ci riferiamo alla sua prima produzione) a focalizzare il mondo infantile, quella repubblica dei ragazzi per dirla con parole di William Golding che nella sua opera magistrale, Il signore delle mosche, mise in luce come anche in assenza di una dimensione adulta e matura si realizzi all’interno del mondo infantile una sperequazione tra forti e deboli che porta alla lotta e all’emarginazione, ad una realtà in cui, in piccolo, si ripropongono gli errori storici della diseguaglianza e dell’autoritarismo, in forma ancor più amara e colpevole per il fatto di interessare una fascia di popolazione tanto giovane (McEwan rivelò di aver avuto tra le sue fonti quest’opera).

Parlando di Peter Fortune e Briony Tallis in effetti questa premessa potrebbe servire nel dire che sia l’uno che l’altra, i ragazzi, sono attori degli eventi che avranno un significato cruciale nella loro vita. Peter Fortune de L’inventore dei sogni è un bambino atipico che si caratterizza per la sua propensione al silenzio e a non intervenire direttamente nei discorsi degli altri e per ciò che potrebbe essere sbadatamente intesa come una forma di asocialità. È un ragazzo che non conosce la noia e che fugge dalla stringente realtà delle sue giornate per sperimentare vie alternative, rincorrere i pensieri e figurarsi cosa di interessante vorrebbe, forse, succedesse davvero.
Il personaggio di Briony in Espiazione pone delle osservazioni anticipatorie necessarie. Se è giusto osservare che la sua infanzia è vissuta a villa Tallis, dove pure vivono la sorella e la madre e quindi in pratica ha un rapporto diretto con il mondo adulto, (compreso il suo rapporto con Robbie Turner, il figlio della serva della famiglia, che è ben più grande di lei) al contempo è giusto asserire che le sue giornate vengono vissute piuttosto in una libertà solitaria, in completa indipendenza alla ricerca di un suo mondo creativo e ispirativo (non fantastica propriamente come Peter Fortune che avanza idee improponibili nella realtà, ma è comunque una visionaria portata alla creazione di realtà parallele essendo una scrittrice, seppur in erba), per questo la vediamo spesso sola nella prima parte del libro, semplicemente perché è una dimensione che ha scelto perché a lei maggiormente confacente con la sua natura creativa. Entrambi i genitori, però, sono completamente assenti poiché la madre è spesso ritirata nella sua stanza a causa di dolori alla testa o perché stanca mentre il padre è lontano per questioni di lavoro e di fatto non interviene mai direttamente sulla storia. Le figure genitoriali, dunque, un po’ come nelle vicende del disumano Henry Evans, sono sì presenti a contornare le giornate rituali ma in realtà risultano assenti e da un punto di vista empatico, dunque a livello affettivo nel mondo dei sentimenti, e da un punto di vista regolatore-formativo ossia quale polo fondamentale d’educazione.
D’altra parte è senz’altro ravvisabile una certa fascinazione di Briony ragazzina verso il mondo degli adulti rappresentata da una serie di episodi quale la profonda infatuazione per Robbie, l’amore fraterno verso il fratello Leon, la competizione che nutre con la cugina Lola di qualche anno più grande di lei e della quale è palesemente invidiosa, l’autorità che mostra nei confronti dei cugini gemelli durante le prove per la rappresentazione del dramma che ha scritto. Il traghettamento dall’uno all’altro mondo, dall’infanzia al mondo degli adulti, è sancito da alcuni episodi cruciali dei quali è lei stessa a denunciarne il potere epifanico quale l’aver visto la sorella spogliarsi e tuffarsi nella fontana sottomessa al volere di Robbie Turner (ciò che lei ha intuito) che la porta ad osservare: “Quella non era una fiaba, era la vita vera, il mondo adulto, nel quale le rane non parlano alle principesse, e gli unici a scambiarsi messaggi sono gli esseri umani”.
Qualcosa di non molto dissimile accade nel racconto “Le bambole” de L’inventore di sogni dove, dopo esser stato minacciato e preso d’assedio da un nutrito manipolo di bambole nella stanza di sua sorella, Peter è in grado di confessare con lucidità: “Ma per piacere, voi siete solo delle bambole…” un po’ come la trasognata Alice nel Paese delle Meraviglie, dopo le strampalate avventure alle quali ha assistito nel mondo al-di-là dello specchio, riuscirà ad asserire: “Ma a chi credete di far paura? Siete solo un mazzo di carte da gioco!”. In entrambi i casi il personaggio avverte, come ricevendo una scintilla di razionalità di derivazione quasi provvidenziale, che il mondo al quale hanno creduto di far parte fino a quel momento in realtà è falso ed è una proiezione del reale tanto che in esso non possono soffrire danni, essere minacciati né rischiare la morte. L’atto di sconfessare quel mondo (pur con la necessaria conseguenza, però, di continuare a farne parte ancora per un po’) è un atto necessario e nevralgico col quale il bambino che lo attua in realtà è come se si scoprisse non più bambino, improntato cioè verso un mondo adulto dove gli oggetti animati (siano bambole o carte da gioco) assolutamente non esistono con indubbia convinzione.
Peter e Briony, ragazzi dotati di una fervente immaginazione e creatori di storie, il primo di raccontini che sono sogni stesi sulla carta, la seconda di drammi ossia di testi teatrali che presuppongono una determinata orchestrazione dei personaggi e strutturazione delle vicende in maniera appunto scenica, viaggiano nei loro pensieri, rincorrono le loro idee, perseguono continuamente una realtà che non è quella concreta che la famiglia sta vivendo (la frenesia della famiglia al momento della colazione in L’inventore di sogni è per Peter momento in cui perdersi in riflessioni bizzarre sul gatto Williams, mentre Briony che vive in un periodo di guerra, è intaccata dalla spietatezza del momento storico) e solamente in determinati momenti McEwan, gradatamente, li fornisce di una autocoscienza tale da ritornare con i piedi nel mondo concreto.
Il rapporto bambino-adulto in queste due opere è ambivalente: Peter sembra inizialmente disinteressato dal mondo degli adulti che vede come l’ennesima replica di impegni e oneri che anche lui da bambino ha (l’andare a scuola si trasforma in andare al lavoro, ma poco cambia) e non sembra nutrire particolari propositi o aspirazioni nell’età adulta salvo narrare nel racconto che chiude la raccolta, il sogno in cui è diventato uomo maturo e ha ben altre preoccupazioni e necessità che lo riguardano rispetto a prima, quando faceva scorribande col gruppetto di ragazzini. Briony, invece, pur nelle vesti di una bambina, è una donna che lentamente sta formandosi sotto ai nostri occhi, che ha dei progetti, che vede con maggior lungimiranza e circospezione e anela, in un certo modo, al raggiungimento dell’età matura non tanto per poter uniformarsi in famiglia come non-più-bambina ma anche perché ha scoperto impavidamente e rivalutato con saggezza la materia concreta di cui la vita è fatta: l’atto sessuale della sorella con Robbie in biblioteca è interpretato dalla Nostra come una violenza ingiustificata sebbene lei stessa abbia ricercato già da tempo maggiori attenzioni nell’altro sesso, segno di una adolescenza che si compie accelerando l’esigenza di certe manifestazioni d’affetto avulse all’età infantile. Così come l’attrazione che Peter Fortune scopre di avere, nel sogno dove è ormai adulto, nei confronti della bella Gwendoline.
Ian McEwan ha sapientemente posto il tema dell’infanzia, collegato a quello più ampio del tempo e del suo incedere, in tutte le sue narrazioni anche laddove non sono i ragazzi ad essere i principali protagonisti delle sue storie. In particolare ha caricato i suoi personaggi anche di devianze collegate a un difficile rapporto con il tempo e a forme di regressione e di fissazione, testimoni di un complicato sviluppo psicosessuale del soggetto. Charles Drake è senz’altro la manifestazione di quell’eterno bambino ossia di una persona che, pur matura fisicamente e dal punto di vista anagrafico, rincorre il tempo dell’infanzia, ricercandolo di continuo, riattualizzandolo. Nel momento in cui capisce che tecnicamente questo non è possibile e che non è consentito dalla realtà sociale, attua un comportamento che potrebbe essere maniacale nel quale riesce ad inseguire il suo scopo: si allontana dalla società, da tutto ciò che questa presuppone e da sua moglie per rintanarsi in un posto raccolto, intimo, personale, collegato al mito della infanzia. Ma nel suo isolamento e nello spasso infantile di questa frenetica rincorsa nei confronti di ciò che non è più, non riuscirà a riportare la vittoria e a persistere, dunque, in quel mondo di carta che si è prodotto dando fede ai suoi pensieri e sogni illusori e, irraggiungibili.

Stephen Lewis di Bambini nel tempo, dopo l’annullante realtà del sequestro di sua figlia, sarà predisposto a un cammino diverso, non involutivo come quello di Charles Drake, nel quale darà spazio a una ampia considerazione nei confronti del tema centrale del tempo. Il flusso di coscienza che traspare dalle pagine evidenzia il tormento di un uomo che di colpo non è più padre e che non è in grado di ritrovare quelle certezze di un nucleo familiare costituito nel tempo che di fatto si è disfatto di colpo. Sono entrambi personaggi che si rapportano in maniera conflittuale e angustiata col tempo presente preferendo rifuggire nel passato privo di tormenti e dominato dal calore materno (Charles) o dall’ardore della figura genitoriale (Stephen). In questo serrato confronto che saranno costretti ad osservare tra loro e le persone che erano in un prima ormai indefinito e di certo tramontato, reagiscono in maniera diversa: Charles affogherà in un istinto di morte autoprodottosi mentre Stephen permetterà al futuro incalzante di riscrivere la sua vicenda.
Come si è accennato in precedenza, l’assunzione da parte di ragazzini di certe attitudini, sia ne Il giardino di cemento che nelle due raccolte di racconti iniziali, risponde a un meccanismo di autodifesa necessario per poter garantire la sopravvivenza dei personaggi stessi. Il fatto che Jack dapprima sia frustato della sua condizione e poi, senta l’esigenza di rappresentare una figura di influenza per i fratelli più piccoli (il girare con la mazza che ha trovato in una casa abbandonata è segno di un attributo di un’autorità che in qualche modo va cercando) non sarebbe, dunque, una vera e propria decisione consapevole, cioè un suo atto responsabile e lucido ma risponderebbe alla necessità stessa che il contesto impone. Sono ragazzi che in assenza di figure genitoriali perché clamorosamente latitanti e disinteressate o assenti perché morte, impongono indirettamente ai ragazzini di sviluppare una logica comportamentale e sociale che, se da una parte tenta di emulare quella dei grandi, dall’altra travalica il mondo consentito dei rapporti sociali. La scempiaggine e l’efferatezza, la crudeltà e l’insensatezza di molti dei loro atteggiamenti sono da leggere proprio in ciò: nell’essere attitudini assunte senza convinzione, per dar mostra di sé o per manifestare di essere qualcuno, per ricevere rispetto o più spesso per incutere timore e soggezione. Non parlerei, dunque, di atteggiamenti adulti in alcuni adolescenti di McEwan perché in questa maniera significherebbe riconoscerne intuitivamente la loro validità sociale. La mancanza di una dimensione etica, di rispetto comune, la non-osservanza di legami e ruoli sono aspetti che si nutrono ancor più dell’incoscienza e della penuria di insegnamenti, tanto educativi, quanto affettivi: chi non è amato non può saper amare. La loro indipendenza, dunque, non è tanto frutto di una seria rivendicazione dinanzi a un’autorità in qualche modo imposta ma è frutto di un contesto degradato e anarchico che si è venuto a formare negli anni: se pensiamo a Il Giardino di cemento è facile individuare il lento abbandono e incuria della casa e con essa della famiglia che si radicalizza poi con la morte della madre. I ragazzi, soli e chiusi nel loro mondo asfissiante che è quello di una famiglia imposta, estranei a rapporti sociali altri che potrebbero eventualmente aiutarli, finiscono così per prediligere l’interesse personale a quello comunitario e ben presto la casa non mancherà di puzzare o di mostrare il proprio degrado e quelle forme stravagantemente indipendenti che caratterizzeranno i ragazzi non saranno altro che meccanismi di lotta contro sé stessi e la loro condizione, adoperati in maniera errata perché esasperati e non tesi a una finalità comune.
Per quanto concerne, invece, il personaggio di Briony, uno degli episodi narrativi con il quale McEwan sia meglio riuscito a suscitare grande presa e trasmettere emozioni, va osservato che dal momento in cui la ragazzina testimonierà ciò che crede di aver visto mandando in carcere Robbie Turner, la sua vita non conoscerà più calma interiore. Briony, che comincia a titubare della veridicità di quanto ha sostenuto dagli inquirenti dal momento stesso del fatto, avrà la vita rovinata per sempre e non serviranno gli anni di sacrificio ad assistere malati come crocerossina e i vari tentativi di redenzione a pacificarne il tormento. Anche in questo episodio, quello dell’accusa, possiamo ben vedere come Briony sia già (e si consideri essa stessa) maggiormente affine al mondo degli adulti piuttosto che a quello dei bambini, sentendosi chiamata, quasi mossa da un impegno civile, verso il bene della collettività a denunciare quanto ha visto. D’altra parte sono gli stessi inquirenti ad avvalorare subito la sua testimonianza e a decretarla vera e confacente a quanto accaduto senza titubare sulla veridicità di quelle dichiarazioni scombinate e forse non completamente lucide che escono dalla bocca, appunto, di una bambina.
Perché McEwan ha affidato il potere di scrivere tutta una storia e l’esistenza di varie persone direttamente alle mani di una bambina? Perché la dichiarazione di una bambina –per altro grande inventrice di storie e sognatrice- viene tenuta così di conto dagli organi preposti, senza avanzare dubbi o riconsiderazioni? Sarebbero dei quesiti da poter investigare con più attenzione e sui quali sarebbe necessario conoscere la vera intenzione dell’autore stesso dell’opera.
Una annotazione sul rapporto esistente tra fantasia e creazione nel caso delle narrazioni di Peter Fortune. Questo personaggio, se intervenissero numerosi altri fattori oltre al fatto della sua fervida immaginazione, al suo spirito libero e all’incapacità di concentrazione, potrebbe a ragione essere considerato un ragazzino patologico sofferente di una sindrome da deficit di attenzione che, come gli studiosi del settore osservano, è un disturbo con una sua eziologia e un particolare trattamento che assolutamente non va banalizzato né trascurato. Questo per dire che il fatto che il ragazzino si contraddistingua dalla massa per non asservirsi alle indicazioni dei maestri o per la più spiccata natura di sognare ad occhi aperti, non ci consente (e non dobbiamo cadere nell’errore di farlo) di dedurre semplicisticamente che sia un bambino carente o improduttivo dal punto di vista della resa scolastica, ma casomai disattento o eventualmente disorganico nell’organizzazione delle idee.
Come sottolinea il testo, però, ciò non avviene ed è spesso più facile considerare la diversità del singolo, seppur dettata dallo sviluppo di un genio creativo, come atipicità che genera apprensione e che implica nel corpo docente la presa di certe misure. Viene detto nel libro, infatti, che Peter Fortune viene inserito in un gruppo di recupero di bambini dove –intuiamo- sia in compagnia di ragazzini che realmente soffrano di qualche disturbo, forse linguistico o di apprendimento, e dunque necessitano di una maggiore supervisione, cura e un insegnamento più capillare e riepilogativo. Peter Fortune non è assolutamente un bambino che ha bisogno di essere “recuperato”, semmai necessita di quella consapevolezza più matura nel saper scindere la divagazione dai momenti in cui, proprio come a scuola, deve predisporsi a una maggiore concentrazione. Cosa che, se non gli è innata, deve sicuramente apprendere e, se non è la scuola a poter insegnare un qualcosa che si dà per acquisito, allora di certo è la famiglia che in ciò va imputata, nel non aver o nel non essere riuscita a “raddrizzare” il proprio figlio in questo senso, fornendogli le abilità nel saper scindere il divertimento (nel momento in cui lui sogna e crea, effettivamente si diverte) dall’obbligo (ciò che va fatto per il suo bene futuro, anche se al momento non ne comprende l’esigenza).
Peter Fortune ha un potenziale creativo molto sviluppato ma credo che se ciò venga trattato nel giusto tempo e nella giusta maniera dalla famiglia non possa costituire nessun problema né per sé stesso né nel momento in cui gli altri andranno a giudicarlo (come a scuola).
Per quanto concerne Briony, la cosa è leggermente diversa in quanto, pur ragazzina, è conscia ella stessa del suo grande afflato creativo che l’ha già portata alla sua giovanissima età a scrivere un dramma, a volerlo portare in scena e che ha altre idee di scrittura. Briony sembra essere in grado di individuare quel limite, pur difficilmente rintracciabile, tra realtà (ciò che vive) e fantasia (ciò che immagina) se non fosse che, come ogni ragazzina, è fortemente suscettibile e dunque influenzabile da ciò che accade attorno a lei e di fronte a ciò che non conosce (perché non ha la giusta esperienza) si sente comunque chiamata in causa a darne una lettura, una interpretazione. Ma come si sa è difficile leggere negli occhi e ancor più nella testa degli altri soprattutto se non si sono acquisite tutte quelle esperienze, vissute quelle occasioni che hanno fatto della nostra esistenza una persona più concreta, coscienziosa e in grado di valutare con obiettività. Per queste ragioni anche lei finirà per restare ingabbiata in questo falso specchio di realtà-fantasia arrivando a pronunciare il falso nel momento in cui le verrà richiesta una deposizione su fatti reali, veramente accaduti sui quali lei si professa testimone.
Prendendo in esame romanzi più recenti mi sento di osservare che non credo che McEwan si sia lasciato alle spalle l’argomento educativo con la sua ultima pubblicazione. Semplicemente lo ha posto in altri termini.[1] Nel caso di La ballata di Adam Henry, infatti, molte cose potrebbero essere rivelate con attenzione al mondo dell’infanzia, tratteggiando nel corso del tempo la vicenda complicata di un giovane che, per rispondere ai dogmi religiosi imposti dai genitori, finirà per vivere una spersonalizzazione prima e poi un vero e proprio tormento.

Se di pedagogia si può parlare nel romanzo, e dunque di insegnamento, il discorso deve essere condotto su due livelli. I genitori che sono dei Testimoni di Geova hanno volutamente imposto al figlio un modello comportamentale da seguire che non è frutto di una sua libera scelta e che motiverà tutto il corso del dibattimento a partire da quando la vicenda diventa un vero e proprio caso giudiziario. Se, per semplificazione, possiamo dire che i genitori sono portatori di un modello pedagogico pre-impostato, dogmatico, da seguire imprescindibilmente senza porsi troppe questioni e dunque con l’imposizione, dall’altro lato si staglia il diritto alla libertà di decidere. Il giudice, infatti, fa suo il caso ed è convinto non solo che un bambino non si possa lasciar morire per il rifiuto di una trasfusione salvavita, ma che il modello pedagogico di quei genitori sia viziato e possa produrre nel loro figlio problemi a lungo termine.
Chiaramente l’interesse del romanzo si centralizza proprio su questo dibattito tra la necessità di salvare una vita sempre e comunque al di là di posizioni ideologiche e la strenua difesa in un credo che acconsente alla privazione di un nostro caro. Il pubblico avrebbe sollevato aspre critiche e condanne se in qualche modo l’autore avesse fatto scontrare la religione cattolica con quella dei Geova, incenerendo le disparità ideologiche tra branche del credo cristiano e in ciò ha giocato, come sempre, d’astuzia. Fiona Maye è un giudice a cui il caso è affidato affinché giudichi con imparzialità sul fatto venutosi a creare senza che si perduri in qualche maniera una controversia ideologica.
Ma è tutta l’opera ad investire l’attenzione sul mito dell’infanzia: la stessa Fiona Maye, che fuoriesce da un matrimonio diventato difficoltoso, non ha mai avuto un figlio e, anche se lo nega, è chiaro che ne senta la mancanza. Il ravvicinamento che avverrà nel corso dell’opera tra Adam Henry e Fiona Maye mostrerà ben presto, infatti, come è difficile tener lontano il sentimento da una questione che, pur tecnica, giudiziaria e burocratica, riguarda il rapporto umano. McEwan mette allora in scena un attaccamento ossessivo di Adam verso Fiona tanto da giungere a un vero e proprio stalking poiché ha operato una ri-attribuzione della figura materna: dalla madre naturale alla donna che l’ha salvato e alla quale crede di essere attratto. Nell’incomprensione di quanto gli eventi stiano scaturendo e succedendosi in maniera improvvisa Fiona – un po’ come la giovane Briony – commetterà un gravissimo errore: quello di interpretare male la realtà.
La vicenda relativa al credo di Geova proposta da McEwan appare centrale e importantissima per comprendere l’intero romanzo. È vero anche che avrebbe potuto descrivere una situazione similare nella quale un ragazzo si allontana dalla famiglia dalla quale viene ripudiato e cerca smaniosamente di ricongiungersi al giudice che in sede di dibattito l’ha salvato senza chiamare in causa una dimensione religiosa. Che, in effetti, non interessa affatto a McEwan. Non è propriamente la realtà Geova il focus dell’azione (l’autore dipinge la realtà Geova in poche immagini per altro stereotipate) piuttosto le dinamiche intra-familiari ed extra-familiari (dunque sociali) che si realizzano a partire da una data disputa di natura etica.
Al contempo – come spesso l’autore ha già fatto – pone l’accento su quanto il potere di una scelta presa da una sola persona in una data circostanza possa essere determinante nello scrivere, nel bene o nel male, il futuro di una o più persone, di una famiglia, di una società e di quanto sia necessario, allora, agire nella propria vita con una tale responsabilità che sia garante e a salvaguardia anche del senso di comunità.
Written by Lorenzo Spurio
Bibliografia
Spurio Lorenzo, “Il rifiuto della condanna in Ian McEwan”, edito in rivista «Oubliette Magazine», 23-10-2016.
Spurio Lorenzo, “Incroci creativi nel primo Ian McEwan tra violenza e deviazione” edito in rivista «Oubliette Magazine», 21-10-2015.
Spurio Lorenzo, Flyte & Tallis. Ritorno a Brideshead ed Espiazione, una analisi ravvicinata di due grandi romanzi della letteratura inglese, Photocity, Pozzuoli, 2012.
Spurio Lorenzo, Ian McEwan: sesso e perversione, Photocity, Pozzuoli, 2013.
Spurio Lorenzo, Il sangue, no. L’aporia della vita ne “La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan, Poetikanten, Sesto Fiorentino, 2015.
[1] Un accenno a un episodio di pedagogia religiosa, di indottrinamento e proselitismo, è presente in un riferimento che viene fatto nel racconto “Il ladro” ne L’inventore di sogni quando, nella descrizione di una vicina di casa dei Fortune, una certa Mrs Goodgame, viene detto che un suo parente “usava [un bastone] per picchiare i bambini africani che non studiavano il catechismo” (72), impiegando cioè la catechesi come strumento di una violenta repressione.