L’Italia sceglie “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi – I documentari presentati agli Oscar come film in lingua straniera
Il 2016 segna una svolta di rilievo nella condotta internazionale inerente il cinema italiano: per la prima volta è un documentario ad essere presentato agli Oscar come film in lingua straniera.
“Fuocoammare”, quarto lungometraggio di Gianfranco Rosi, esordiente già nel 1993 col mediometraggio “Boatman”, ma particolarmente attivo in veste di regista solo a partire dal 2008 con “Below Sea Level”, affianca al Leone d’oro conquistato grazie a “Sagro GRA” (2013) l’Orso d’oro berlinese. Così recitava lo scorso febbraio la dichiarazione della Giuria: “È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. […] Un film urgente, visionario, necessario”.
In una recensione dedicata, il sottoscritto si era espresso con toni entusiastici acclamando al capolavoro: “[“Fuocoammare”] propone uno sguardo di assoluta discrezione e limpidezza, attento ad ogni sfumatura che l’entroterra, la costa, la superficie e le profondità del mare aperto assumono solcati dalla presenza umana”. E ancora: “[…] nella sua intricata, ammirevole architettura di rimandi, […] diviene […] l’astrazione mentale di un inferno quotidiano che abbandona esanimi montagne di carne bollente, le quali a quanto pare ancora non bruciano abbastanza nelle coscienze di tanti boriosi raccomandati e avidi vitaliziati”.
La scelta di Rosi ha suscitato un certo clamore negli ambienti intellettuali, favorevole in taluni casi, contrario in altri; nel ventaglio da cui attingere, ove erano contenuti 7 titoli provenienti dalla presunta crème dell’arte cinematografica italica della stagione 2015/2016, figuravano pure l’acclamato “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, il quale avrebbe certo costituito una scelta assai coraggiosa (ma, secondo l’opinione di chi scrive, anche azzardata ed, in ultima analisi, indebita nei confronti del reale valore dell’opera), e un nome quasi ancora inapprezzabile, quello di Edoardo De Angelis, regista dell’“Indivisibili” recentemente premiato a Venezia e per questo, al tempo dello scrutinio, non ancora diffuso nelle sale delle diverse regioni.
Presentare il primo avrebbe significato osare un genere inconsueto non solo per il Paese, ma anche per le “lists of submissions” che ogni anno accolgono sempre più numerose richieste di partecipazione da ogni angolo del pianeta. Nel corso degli ultimi 60 anni ben 115 Paesi, di cui 3 non più esistenti (la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e l’Unione Sovietica), si sono avvicendati in questo grande concorso sovrannazionale, chi esibendo anche un solo titolo in una singola occasione, chi superandone la sessantina, oscillando dai moltissimi drammi alle commedie, dai musical ai film di guerra, dai western alla crime fiction, sbilanciandosi poi con fantasy, horror, sci-fi, persino action e pellicole improntate a contenuti schiettamente erotici.
Optare per il secondo, conformemente al pensiero dell’unico membro della commissione a dichiararsi insoddisfatto dell’esito, vale a dire il nostro fiero Premio Oscar Paolo Sorrentino, avrebbe significato non incappare in “un inutile masochistico depotenziamento del cinema italiano”: a suo parere “Fuocoammare” rimane “un bellissimo film”, che però “andava candidato all’Oscar nella categoria dei documentari”.
Fermo restando che, almeno nelle intenzioni, il fine del collegio riunito dovrebbe essere la limpida e unanime individuazione del titolo di maggior pregio artistico offerto in patria negli ultimi mesi e non di quello che possa maggiormente sedurre gli spesso discutibili gusti d’oltreoceano, augurando com’è purchessia lecito la sorte migliore a Rosi e alla nazione che rappresenta, la contestazione di Sorrentino offre lo spunto perfetto per diradare un certo velo nebbioso attorno alla questione, il quale potrebbe ai più impedirne una lettura lucida e scrupolosa.
In altre parole, è fatto incontestabile che il genere documentario venga designato quale più proficuo esponente della cinematografia di un dato Paese sin dal lontano 1958, quando “La grande paura” (1956) di Carlos Velo divenne il primo lungometraggio in competizione proveniente dal Messico e non appartenente all’alveo della fiction.
Da quell’anno ammontano a 35 le opere appartenenti a questa specie (in condizioni formali assolutamente pure, senza alcuna intromissione cioè da parte della fiction) selezionate per concorrere in qualità di film in lingua straniera: un’esigua minoranza se confrontate alla moltitudine di titoli finzionali, di conseguenza impossibilitate ad assurgere anche parzialmente al titolo di “tradizione”. Il cinema dell’invenzione non accennerà mai a demordere, pur profilandosi all’orizzonte una possibile crescente affluenza agli Academy Awards da parte di questo “cugino” meno fortunato, come si avrà modo di constatare a breve.
A sostegno della visione “masochistica” si pone poi la circostanza per cui ad oggi l’unico documentario della storia ad essere entrato in cinquina è “The Missing Picture” (Cambogia, 2013) di Rithy Panh, escluso invece dalla categoria destinata al genere specifico. Viceversa, è bene non scoraggiarsi di fronte la percepita estraneità di qualunque prodotto che, pur non contravvenendo al regolamento vigente, lo stesso non rispetti i canoni dominanti: è già accaduto che l’animazione, per esempio, arrivasse a competere col live action, precisamente quando venne nominato “Valzer con Bashir” (Israele, 2009) di Ari Folman.
Volendo aprire un rapido inciso sui cartoon, è facile accorgersi come prima e dopo l’evento appena citato altri Paesi abbiano anticipato e seguito questo modello: in dettaglio, i titoli prediletti sono “Macskafogó” (Ungheria, 1986) di Béla Ternovszky, “Pom Poko” (Giappone, 1994) di Isao Takahata, “Lapitch, il piccolo calzolaio” (Croazia, 1997) di Milan Blažeković, “Princess Mononoke” (Giappone, 1997) di Hayao Miyazaki, “Manuelita” (Argentina, 1999) di Manuel García Ferré, “Max Pax ai confini del tempo” (Cile, 2002) di Alejandro Rojas, “Le Roman de Renart” (Lussemburgo, 2005) di Thierry Schiel, “Persepolis” (Francia, 2007) di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi, “Alois Nebel” (Repubblica Ceca, 2011) di Tomás Lunák, “Tatsumi” (Singapore, 2011) di Eric Khoo, “Anina” (Uruguay, 2013) di Alfredo Soderguit, “Rocks in My Pockets” (Lettonia, 2014) di Signe Baumane, “La mia vita da zucchina” (Svizzera, 2016) di Claude Barras.
Altre eccezioni si possono riscontrare in “Notti e giorni” (Polonia, 1975) di Jerzy Antczak, della durata di 10 ore e 32 minuti e nonostante ciò concorrente a pieno diritto, o “Khan Asparuh” (Bulgaria, 1981, 5 ore e 23 minuti) di Ludmil Staikov; secondo questa prospettiva avrebbe forse potuto trovare collocamento anche un “Sátántangó” di Béla Tarr (Ungheria, 1994, 7 ore e 30 minuti), seguito da uno dei tanti film del neo-Leone d’oro Lav Diaz.
Ulteriore motivo che si oppone alla tesi di Sorrentino, meglio ancora scruta berteggiando (e probabilmente, ahimè, senza neanche capacitarsene) sostenitori e detrattori di questa e altre decisioni di sorta, è la constatazione che non sono affatto rare le opportunità per gli States di mancare la saggia inclusione di titoli divenuti col tempo destinatari di gran pregio, alle volte entrati scricto sensu nell’immaginario comune di cinefili o semplici appassionati.
La lista è nutrita: affidandosi all’imparzialità dell’ordine cronologico s’incontra “Il settimo sigillo” (1957) di Ingmar Bergman, “Tardo autunno” (1960) di Yasujirō Ozu, “L’anno scorso a Marienbad” (1962) di Alain Resnais, “L’infanzia di Ivan” (1962) di Andrej Tarkovskij, “La notte” (1962) di Michelangelo Antonioni, “Gertrud” (1964) di Carl Theodor Dreyer, “Persona” (1966) di Ingmar Bergman, “Fellini Satyricon” (1969) di Federico Fellini, “El Topo” (1971) di Alejandro Jodorowsky, “La recita” (1975) di Theo Angelopoulos, “L’ascesa” (1977) di Larisa Šepit’ko, “Sacrificio” (1986) di Andrej Tarkovskij, “Il cielo sopra Berlino” (1987) di Wim Wenders, “Sorgo rosso” (1987) di Zhang Yimou, “Città dolente” (1989) di Hou Hsiao-hsien, “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Tre colori – Film bianco” e “Tre colori – Film rosso” (1994) di Krzysztof Kieślowski, “Underground” (1995) di Emir Kusturica, “In the Mood for Love” (2000) di Wong Kar-wai, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” (2003) di Kim Ki-duk, “Volver” (2006) di Pedro Almodóvar, “Gomorra” (2008) di Matteo Garrone, “Mother” (2009) di Bong Joon-ho, per giungere a titoli a loro modo inusuali come il già citato “Princess Mononoke”, o più recenti come “Il cavallo di Torino” (2011) di Béla Tarr, “Miracolo a Le Havre” (2011) di Aki Kaurismäki, “Pietà” (2012) di Kim Ki-duk, “Il passato” (2013) di Asghar Farhadi, “Il regno d’inverno” (2014) di Nuri Bilge Ceylan, “Mommy” (2014) di Xavier Dolan, “Forza maggiore” (2014) di Ruben Östlund, “The Assassin” (2015) di Hou Hsiao-hsien, “Il club” (2015) di Pablo Larraín, “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari.
In effetti se ci si dovesse ora inoltrare negli affari inerenti qualifiche e squalifiche dubbiamente debite, riuscirebbe impossibile non rimpiangere a titolo esemplificativo la mancata nomination di “Niente da nascondere” (2005) di Michael Haneke, capolavoro maledettamente ermetico escluso per la totale predominanza di una lingua, il francese, tutt’altro che propria del Paese rappresentato, ossia l’Austria.
Eppure giusto l’anno scorso “Mustang” (2015) dell’esordiente Deniz Gamze Ergüven, toccante storia di ribellione in terra e lingua turche, con regista e attori turchi, ossequiata una totale apparente arbitrarietà, è stato proposto agli Oscar (decisione di innegabile successo, peraltro, visto che l’opera è effettivamente entrata in cinquina) dalla nazione francese, co-produttrice al fianco della Germania, del Qatar e, ovviamente, della Turchia, mentre quest’ultima ha scelto un nome di rilevanza assai minore (“Sivas”, 2014, di Kaan Müjdeci).
Dalla loro, quanti si sentano a livello approfondito coinvolti dalla tematica possono gratuitamente giovare dell’ufficialità massima, ovverosia il regolamento degli Academy Awards consultabile online visitando oscars.org, puntualmente aggiornato all’edizione 2016 (con tanto di impellenti ammodernamenti). Da esso desumiamo senz’ombra d’esitazione che per i film in lingua straniera “la registrazione del dialogo originale debba essere preminentemente in una lingua o in delle lingue diverse dall’inglese, fornita di accurati e ben leggibili sottotitoli”; è inoltre affare del Paese partecipante “certificare che il controllo creativo dell’unica opera presentata risieda largamente nelle mani dei propri cittadini o residenti”.
Riguardo la classe dei documentari si leggono alcune norme che si applicano ugualmente alla sezione di primario interesse in questa sede: oltre alla richiesta di rispettare le direttive linguistiche, v’è la possibilità per ogni titolo di “accedere alle qualificazioni per altre categorie purché esso incontri specifici requisiti”. A tal proposito si riportino alla mente i casi de “La tigre e il dragone” (Taiwan, 2000) di Ang Lee piuttosto che “Fanny e Alexander” (Svezia, 1982) di Ingmar Bergman, entrambi vincitori di 4 Oscar, o, per non scavalcare i confini nazionali, di “Woodstock: tre giorni di pace, amore e musica” (USA, 1970) di Michael Wadleigh, documentario nominato anche per il montaggio e il sonoro.
L’ultimo aspetto cruciale su cui è necessario soffermarsi, prima di scoprire la trentina abbondante di titoli che stanno all’origine di questo contributo, circoscrive un risvolto diffusamente oscuro circa l’eleggibilità dei film. Realtà abbastanza nota e mediaticamente coperta è l’esistenza di una giuria, approvata direttamente dall’Academy, predisposta all’individuazione di un’unica opera in lingua straniera da proporre nella categoria corrispondente. I prodotti riversati in quest’ultima vengono vagliati successivamente da un altro specifico comitato, che dal 2007 giunge a selezionarne 9, per poi, in seguito ad ulteriori esaminazioni, nominarne 5.
I documentari da destinarsi primariamente alla sezione dedicata subiscono un processo leggermente diverso: sta infatti al produttore o al distributore singolo (e non ad un’esterna commissione di delegati nazionali, né però ad un gruppo di selezionatori d’ufficio a stelle e strisce) registrare il proprio titolo nello spazio prestabilito all’interno del sito ufficiale dell’Academy, fornendo preventivamente tutti i dettagli occorrenti. Anche in questo caso poi viene stilata una shortlist, dalla cui rosa di 15 assortimenti ne vengono preferiti 5.
Appurato ciò, la nota di biasimo poc’anzi riportata dovrebbe acquistare nuovo spessore, e dato che difficilmente si opterà per un film differente da “Fuocoammare” da presentare come esponente del cinema del reale, considerando pure che né Indiewire.com né Awardscircuit.com danno per favorito il nostro Rosi, magari qualcuno potrebbe mutare partito, limitandosi a sperare ciononostante in un risultato gratificante per la nazione che ha saputo guadagnare il maggior numero di Oscar per i film in lingua straniera (in dettaglio, 2 Oscar speciali, 1 Premio onorario per una coproduzione italo-francese e 11 Oscar di categoria), ma che finora non ha certo saputo distinguersi, perlomeno presso l’Academy, nel campo della non-fiction: due sole le opere di produzione italiana che hanno preso parte alla competizione, cioè “La grande Olimpiade” di Romolo Marcellini (nominata nel 1962) e “Il mondo senza sole” di Jacques-Yves Cousteau (coproduzione italo-francese premiata nel 1965); si badi che “Speaking in Strings” (1999) di Paola di Florio è un prodotto cresciuto unicamente in America, e perciò fuori luogo in questo frangente.
Terminato questo doveroso cappello, altro non resta che dedicare le righe rimanenti al vero nocciolo del dibattito; nella seguente elencazione, che comprende tutti i documentari proposti nel corso dei decenni passati in qualità di film in lingua straniera, non sono stati inclusi né docu-drama, ossia documentari in cui figuri un cast che interpreti personaggi collocati in seno a precise ricostruzioni storiche, come “Der Kreis” (Svizzera, 2014) di Stefan Haupt, “Visaaranai” (India, 2015) di Vetrimaraan e “Kongens nei” (Norvegia, 2016) di Erik Poppe (eccezion fatta per il titolo mongolo, in cui è sì riconosciuta la presenza di attori, acclimatata dal fatto però che essi interpretano sé stessi), né titoli di docu-fiction, ossia documentari contaminati da elementi narrativi di finzione che vadano oltre la semplice funzione ancillare di rievocazione, come “Ana” (Portogallo, 1982) di Margarida Cordeiro e António Reis.
Curiosità di statistica: l’anno con il maggior numero di documentari proposti è il 2017, con 5 titoli; segue il 2016 con 4, quindi il 2010, il 2012 e il 2015 con 3. La Lituania è l’unico Paese ad aver finora presentato 3 documentari (su 9 partecipazioni in totale).
Afghanistan
2010 – “16 Days in Afghanistan” (2007) di Anwar Hajher; si tratta del primo documentario professionalmente prodotto da un team di registi afghani a trattare delle zone che rimangono sotto il pressante controllo dei talebani dopo la caduta del regime di questi ultimi.
Armenia
2010 – “Autumn of the Magician” (2009) di Ruben Gevorkyants e Vahe Kevorkov; mediometraggio sul grande sceneggiatore Tonino Guerra, stimato collaboratore, fra i molti, di Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Mario Monicelli, Francesco Rosi e Andrej Tarkovskij.
Bosnia Erzegovina
2006 – “Sasvim lično” (2005) di Nedžad Begović; il film ripercorre le memorie che il regista e la sua famiglia hanno del periodo comunista, della guerra che ha devastato l’ex Jugoslavia e del periodo post-bellico.
Cambogia
2014 – “The Missing Picture” (2013) di Rithy Panh; il film narra delle atrocità commesse negli anni ’70 dai Khmer Rossi in marcia su Phnom Penh e della conseguente dittatura di Pol Pot.
Cina
2009 – “Zhu meng” (2008) di Gu Jun; il film documenta gli anni di preparazione che hanno preceduto le Olimpiadi di Pechino del 2008.
Cuba
2004 – “Suite Habana” (2003) di Fernando Pérez; il film mostra senza dialoghi la vita di 13 cittadini cubani di diversa età, estrazione sociale e condizione fisica.
Danimarca
2005 – “Le cinque variazioni” (2003) di Jørgen Leth e Lars von Trier; il regista di “Dogville” (2003) propone all’affezionato collega di girare cinque varianti di un suo titolo di successo degli anni ’60.
Finlandia
2011 – “Miesten vuoro” (2010) di Joonas Berghäll e Mika Hotakainen; film sulle saune.
Germania
2012 – “Pina” (2011) di Wim Wenders; primo titolo ad essere entrato in shortlist, nominato all’Oscar come miglior documentario, è un tributo alla celebre coreografa tedesca di teatrodanza.
Italia
2017 – “Fuocoammare” (2016) di Gianfranco Rosi; il film osserva la fanciullezza di Samuele, figlio poco avvezzo al moto marino di un pescatore lampedusano, e l’intercettazione, il salvataggio e l’accoglienza dei profughi africani.
Jugoslavia
1965 – “Skoplje ‘63” (1964) di Veljko Bulajić; il film indaga gli eventi che seguirono il terremoto di Skopje del 1963, nell’ex Repubblica Socialista di Macedonia.
Lituania
2006 – “Pries parskrendant i zeme” (2005) di Arūnas Matelis; il mediometraggio, primo titolo ad essere presentato dalla Lituania, narra dei bambini malati di leucemia ospitati nell’Ospedale pediatrico di Vilnius, capitale di Stato.
2012 – “Ramin” (2011) di Audrius Stonys; mediometraggio sul wrestler georgiano Ramin Lomsadze, riuscito a vincere 7 match in 55 secondi.
2013 – “Pokalbiai rimtomis temomis” (2013) di Giedrė Beinoriūtė; 11 conversazioni con una pausa sulla vita.
Lussemburgo
2015 – “Never Die Young” (2013) di Pol Cruchten; storia di viaggio e sopravvivenza, di amore e dipendenza.
2017 – “La Supplication” (2016) di Pol Cruchten; il film scruta le vite di alcuni abitanti di Černobyl’ prima e dopo il disastro nucleare.
Messico
1958 – “La grande paura” (1956) di Carlos Velo; il film, primo titolo ad essere presentato dal Messico, nominato all’Oscar come miglior documentario, illustra la vita e la carriera del famoso torero Luis Procuna.
Mongolia
2004 – “La storia del cammello che piange” (2003) di Byambasuren Davaa e Luigi Falorni; il docudrama, primo titolo ad essere presentato dalla Mongolia, nominato all’Oscar come miglior documentario, si concentra su una famiglia di pastori nomadi del Deserto del Gobi che aiutano una femmina di cammello a partorire e ad accettare il primo figlio, un raro esemplare albino.
Nuova Zelanda
2017 – “A Flickering Truth” (2015) di Pietra Brettkelly; il film narra di un uomo che tenta di ripristinare gli archivi della Afghan Film a Kabul in seguito alla cattura della città da parte dei talebani.
Paesi Bassi
1965 – “Alleman” (1964) di Bert Haanstra; il film, nominato all’Oscar come miglior documentario, è un resoconto sulla vita quotidiana degli abitanti dei Paesi Bassi ripresa attraverso cineprese nascoste.
Palestina
2016 – “The Wanted 18” (2014) di Paul Cowan e Amer Shomali; il film narra, ricorrendo anche ad una serie di supplementi animati, gli sforzi degli abitanti di un villaggio palestinese per avviare una piccola industria casearia indipendente in cui 18 vacche da latte vengono nascoste alle forze di sicurezza statali.
Panama
2015 – “Invasión” di Abner Benaim; il film, primo titolo ad essere presentato dal Panama, indaga la memoria collettiva e l’amnesia volontaria del popolo panamense in seguito all’invasione del 1989 da parte dell’esercito americano.
2016 – “Caja 25” di Mercedes Arias e Delfina Vidal; il film riporta alla luce 114 lettere scritte dagli operai incaricati di scavare il Canale di Panama, nelle quali vengono riportate le descrizioni delle brutali condizioni di lavoro ed emerge il rapporto travagliato fra lo Stato centramericano e gli USA.
Paraguay
2016 – “El tiempo nublado” di Arami Ullon; il film, primo e finora unico titolo ad essere presentato dal Paraguay, mostra il rapporto della regista con l’anziana madre, affetta dal morbo di Parkinson e da attacchi di epilessia.
Portogallo
2012 – “José e Pilar” (2010) di Miguel Gonçalves Mendes; il film narra gli ultimi anni di vita di José Saramago, Premio Nobel per la letteratura nel 1998, principalmente attraverso la relazione con la moglie Pilar.
2015 – “E Agora? Lembra-me” (2013) di Joaquim Pinto; in esso il regista riferisce in prima persona la propria lotta contro l’HIV, l’affetto per il marito, le sue ricerche su farmaci sperimentali.
Regno Unito
2010 – “Afghan Star” (2009) di Havana Marking; film in lingua dari e pashtu che segue quattro concorrenti dell’omonimo reality show.
Slovacchia
2009 – “Slepé lásky” (2008) di Juraj Lehotský; storia di un amore invisibile agli occhi per via della cecità.
2011 – “Hranica” (2009) di Jaroslav Vojtek; il film ricostruisce le vicissitudini di un villaggio che durante una notte del 1947 è stato smembrato fra Unione Sovietica e Cecoslovacchia.
Slovenia
2017 – “Huston, We Have a Problem!” (2016) di Žiga Virc; a metà strada fra docu-fiction e mockumentary, il film indaga il patto multimiliardario che gli USA strinsero con l’ex Jugoslavia negli anni ’60 per impossessarsi di alcuni segreti progetti aerospaziali.
Svezia
1980 – “Ett anständigt liv” (1979) di Stefan Jarl; storia di alcool e carcere, di eroina e figliolanza.
Svizzera
2014 – “Un mondo in pericolo” (2012) di Markus Imhoof; il film s’interessa alla precaria situazione in cui versa lo stato di sopravvivenza delle api.
2016 – “Iraqi Odissey” (2014) di Samir; il regista svizzero-iracheno ripercorre 50 anni di emigrazioni familiari, anelando ai sogni democratici di un popolo afflitto dagli orrori della dittatura e della guerra.
Ucraina
2017 – “Ukrainian Sheriffs” (2015) di Romab Bondarchuk; mediometraggio tragicomico che segue due ufficiale dell’ordine pubblico all’opera in un remoto villaggio scosso quotidianamente da incidenti spesso causati dalle tensioni politiche.
Unione Sovietica
1982 – “O sport, ty – mir” (1981) di Jurij Ozerov; il film ritrae le Olimpiadi di Mosca del 1980.
Written by Raffaele Lazzaroni
Un film che non entrerà nemmeno in short list 10.
Ti riferisci a “Fuocoammare”?