“The Witch” di Robert Eggers: quando il sonno dell’horror risaputo non genera mostri, anzi…
Sull’onda delle rivelazioni “Babadook” (2014) e “It Follows” (2014, ma distribuito su larga scala nel 2015), l’horror dell’anno (il 2016, dopo aver riempito i mesi precedenti con una distinta mole di anteprime festivaliere) porta il nome di “The Witch”, scritto e diretto dall’esordiente Robert Eggers.
Trascorso un passato da scenografo e costumista per un discreto numero di cortometraggi, il 30 gennaio 2015 al Sundance egli si è improvvisamente trovato fra le mani il suo primo riconoscimento ufficiale, un Directing Award motivato dalla “visione coerente e ottimamente resa” di una “storia ossessivamente dettagliata”.
Produzione il cui budget oscilla fra 1 e 3 milioni di dollari, cui ne hanno risposto oltre 40 di incasso globale, distribuito dall’indie A24 (ben tre fra i suoi titoli hanno trionfato alla scorsa edizione degli Oscar), “The VVitch” (pare si tratti di una semplice stilizzazione grafica e nulla più) è una “New-England Folktale” costruita attorno ad una triste e povera famiglia, esiliata per la profonda inconciliabilità dei dogmi di fede che il padre non è più disposto a trattare coi suoi compaesani.
Il sogno è quello di rendersi autosufficienti occupandosi di una fattoria, con capre e granturco, qualche uova e la selvaggina che la foresta limitrofa saprebbe offrire. Ma la ricerca dell’armonia e della prosperità è destinata a fallire miseramente, sabotata giorno dopo giorno da alcuni inspiegabili eventi che gettano prima fra tutti l’isterica madre nello sconforto più nero.
L’origine di queste sciagure è svelata già nel titolo; dall’iconico caprone alla prorompenza sessuale, sia essa naturale o indotta, dai gorghi sanguigni alle metamorfosi, gli elementi per denunciare le cifre di una stregoneria ci sono tutti, e uno dopo l’altro si riconoscono posti in virtù di uno scopo ultimo oscuro e irresistibile.
Più che a spaventare, Eggers è interessato a ricostruire con singolare fedeltà una cronaca post-medievale, concentrandosi precipuamente sul ceppo domestico e i suoi traumi, vittima di sortilegi demoniaci d’inafferrabile provenienza, tenuti a rispettosa distanza persino dagli spettatori, invitati piuttosto ad osservare sullo schermo con costante applicazione, appunto, la progressiva tragica disgregazione dei rapporti di fiducia fra i caratteri protagonisti, perdita rispecchiata in tutta la sua afflizione nei grandi occhi della figlia Thomasin.
Mai mancando di rispettare la cadenza austera assegnata al lungometraggio fin dal suo incipit, già solenne e aspro nella sceneggiatura, notevolmente insistita dagli ammonimenti paterni che spronano ad una totale osservanza della Bibbia e delle sue discipline contro la “vacuità di grazia” che attanaglia l’uomo da Adamo in avanti (di qui, si noti, i nomi ebraico-anticotestamentari imposti al secondogenito Caleb e ad uno degli insopportabili gemelli, Jonas), il regista possiede la riconoscibile facoltà di saper coniugare il dominio dell’attendibilità storico-filologica (molti dettagli della vicenda sono tratti da testimonianze dell’epoca, siano esse quaderni personali o atti processuali) con le tinte della messinscena, ponendone al centro corpi e voci che si dibattono in uno scenario stretto, sterile e insidioso.
Alla radice di quest’ultimo vi è poi una meravigliosa sensibilità pittorica, la quale, nel rappresentare l’aridità della stagione fredda, la cenciosa catapecchia in cui si rifugia il parentado, la macchia ostile, le penombre del disco lunare (e negli interni del focolare e delle cere accese), può ricordare “il paesaggismo lirico” o “dell’umore” dei pittori ottocenteschi come Savrasov.
Sul rovescio della medaglia è sbalzato il livello generale della tensione, un po’ atrofizzato per via dell’eccessiva rarefazione delle sequenze dedicate al vero e puro terrore, così come, invece, del tendenzialmente immoderato spazio concesso alle paturnie genitoriali. È una scelta di stile, che nella sua liceità rischia però di perdere quella larga fetta di pubblico non (ancora) abituato ad apprezzare i frutti della pazienza.
Non che la suspense sia ridotta all’osso: basti riportare alla mente il costante accompagnamento musicale, che con astuzia serpentina penetra nella diegesi arrivando coi suoi timbri multiformi a far dubitare della stessa, quasi si trattasse dell’ennesima malia della strega senza nome.
“The Witch” è quindi uno dei più recenti rappresentanti di un genere che sta riflettendo su se stesso, sui propri statuti, su ciò che è bene anteporre a quei pressoché ineludibili luoghi comuni che contraddistinguono il cinema dell’orrore in quanto tale, a volte inabissandolo, a volte offrendogli linfa vitale; si deve tuttavia ancora giungere ad una nuova sintesi che sappia per davvero, trascendendo l’identità di razza, lasciare protratto il segno nella storia.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni