Donne contro il Femminicidio #3: le parole che cambiano il mondo con Maria Antonietta Macciocu

Le parole cambiano il mondo. Attraversano spazio e tempo, sedimentandosi e divenendo cemento sterile o campo arato e fertile. Per dare loro il massimo della potenza espressiva e comunicativa, ho scelto di contattare, per una serie di interviste, varie Donne che si sono distinte nella lotta contro la discriminazione e la violenza di genere e nella promozione della parità fra i sessi.

Femminicidio

Ho chiesto loro, semplicemente, di commentare poche parole, nel modo in cui, liberamente, ritenevano opportuno farlo.

A continuare la staffetta della neo rubrica “Donne contro il Femminicidio“, prendendo il testimone, è Maria Antonietta Macciocu, nata a Sassari e residente a Torino. Laureata in Storia del Teatro, dopo anni d’insegnamento di lettere nelle periferie torinesi, ha lavorato presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, collaborando alle attività del Teatro Regio.

Ha collaborato con la rivista romana “Inoltre”. Poetessa e scrittrice, ha pubblicato poesie e romanzi, questi ultimi in collaborazione con Donatella Moreschi. Si interessa di problemi politici, sociali, culturali, con particolare attenzione ai diritti delle donne.

Femmina

Provo ambivalenza verso il termine. Quand’ero un’adolescente magra e piatta, un ragnetto, andavano di moda le maggiorate. Avrei voluto essere un bel mammifero come loro, femmine catalizzatrici dell’attenzione maschile, che mi ignorava.
Crescendo e trovando la mia dimensione fisica e culturale di ragazza graziosa, libera e impegnata, femmina mi irritava, rappresentava l’oggetto di un desiderio primitivo,una preda da cacciare che, come donna di tempi nuovi, non potevo accettare. In quell’accezione, molto più diffusa di quanto non si creda, mi urta ancora.
Ma dentro di me quella voglia di seduzione frustrata, con cui mi sono affacciata al gioco dei sessi, ha lasciato indulgenza e nostalgia per la femminilità tutta fisica, prorompente e provocatrice che il termine mi evoca. Per quanto sforzo faccia, non riesco a collegare femmina con i nomi  per me comuni di femminismo e femminicidio, di cui è la radice. Quasi fossero due mondi diversi, separati e inconciliabili.

Femminismo

Maria Antonietta Macciocu

Non sono femminista, dice mia figlia, autonoma, libera e strenua difensora dei diritti di genere. A ricordarmi, se mai ne avessi bisogno, che il femminismo è un momento storico a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso. Un movimento di grande impatto, che ha portato le donne in piazza non solo tra lo sbigottimento dei benpensanti, ma anche di quei ragazzi e partiti che si dicevano compagni e che si battevano per la liberazione degli ultimi. Avere partecipato mi riempie di gioia e di orgoglio: divorzio, aborto, pillola, nuovo diritto di famiglia, decidere della propria sessualità sono conquiste che abbiamo fatto non solo per la nostra generazione, ma per quelle successive. È vero, da parte di molte c’era rivalsa e aggressività verso gli uomini, ma gli spazi vitali da conquistare erano troppi e non ci si poteva permettere indulgenze verso la controparte.
Quel tipo di femminismo non esiste più, ma la questione femminile sì, con le discriminazioni che si porta dietro. Ora l’impegno  delle donne è proteso verso una parità di genere sostanziale, che scaturisca dalla consapevolezza  acquisita dalla  società, per maturazione culturale e non per obbligo di legge, dell’importanza di favorire la presenza delle donne in ogni ambito, al di là degli stereotipi di compagna, madre, donna in carriera, oggetto sessuale, con cui si divide, si controlla e si frena l’universo femminile. La si vuole ottenere non contro gli uomini ma con gli uomini, almeno quelli, e sono tanti, di buona volontà. Se ai tempi del femminismo storico, in presenza di  leggi discriminanti, l’esigenza primaria era codificare l’uguaglianza, ora lo è la sua attuazione, nel rispetto e valorizzazione della persona e delle differenze.

Femminicidio

All’inizio la reazione era estetica e pseudo-linguistica: che brutta parola, non esiste nella lingua italiana. Quasi che le parole si possano catalogare in belle e brutte e la lingua sia una sistema immutabile nel tempo. Poi la reazione sul merito: è distorcente, ideologica, è un omicidio e basta, già contemplato nel codice.  Infine la resa, l’accettazione diffusa, il riconoscere  subito una particolare forma  di delitto. Perché il femminicidio non è solo un atto di violenza come tanti altri, ma l’accanirsi dell’uomo contro la  donna in quanto donna, e contro certe specie di donne: incapaci di appagare le esigenze maschili, disubbidienti, recalcitranti, che antepongono la libera scelta a quella imposta dai compagni. Un atto spesso mimetizzato e veicolato con l’equivoco di troppo amore, di malattia, di raptus. Sappiamo che non è così. Dietro quasi tutti i femminicidi ci sono menti lucide, prodromi di vessazioni, violenze, omertà di chi subisce e di chi sa,  premeditazione tenace: l’annientamento di chi non sei come  ti voglio e te la faccio pagare, che non è certo amore. Sarebbe lungo disquisire sull’intensificarsi di morti così specifiche, alla luce delle opinioni correnti: insicurezza dell’uomo di oggi, incapace di reggere alla prova di un mondo femminile che si sgancia e lo priva del ruolo di cui si beava da secoli; l’ossessione di avere una cosa tutta sua, che lo rassicuri nella precarietà del lavoro e del futuro; l’incapacità di sopportare la frustrazione, frutto di educazione permissiva e protettiva; la violenza di cui siamo circondati; l’avere ridotto le donne a merce di consumo, se non mi soddisfi ti butto via; e la responsabilità di tante di noi, ancora intrappolate nel mito della sopportazione, del fa così perché mi ama, lo cambierò. Penso sia un cocktail di tutte queste  cose. Preferisco far mie le parole di mia madre ultra-novantenne: eh, l’uomo, non sopporta di perdere tutto quel potere prepotente che ha sempre avuto su di noi. Ecco, il vecchio vizio del potere e della prepotenza, così difficili da estirpare da chi li esercita da secoli.

Educazione sentimentale

Emma Fenu - Maria Antonietta Macciocu

Per educazione sentimentale intendo educazione all’empatia, al rispetto di sé e degli altri. Non ho mai creduto a una educazione precettiva, che se pure genera comportamenti in apparenza corretti, non sempre è capace di farli interiorizzare. Il processo educativo profondo è mimetico e simbolico, scaturisce più da esempi concreti e suggestioni che da input. Non basta ripetere bambini e bambine hanno uguali diritti e prospettive, le bambine non sono virgulti da proteggere e i maschietti pilastri su cui appoggiarsi, non ci sono gusti maschili e femminili, ma personali, bisogna rispettarsi, se poi, nella realtà familiare e sociale, gli esempi sono quelli di madri vessate e padri padroni, o viceversa, di scuole dove i bambini giocano a pallone e le bambine alle veline, di giocattoli  e colori di vestiario diversi per sesso, di fiabe con principe azzurro che salva povere fanciulle indifese svegliandole con un bacio, di emozioni ammesse nelle femmine e represse nei maschi, di pubblicità dove gli stereotipi di genere impazzano indisturbati. L’educazione sentimentale, che si esprime nel riconoscimento di sé e dell’altro in quanto persona unica e irripetibile e non prodotto da batteria, è il risultato di processi emotivi e culturali che si imprimono nella psiche e nell’immaginario fin dalla nascita, segnandone il comportamento. A cominciare dal linguaggio, attraverso cui non solo descriviamo il mondo, ma lo ricreiamo e indirizziamo.

SNOQ di Torino, di cui faccio parte, promuove da anni nelle scuole il progetto”Potere alla parola”, intesa non solo come capacità di dialogo interpersonale, ma come mezzo per promuovere una diversa percezione della realtà. Declinare il mondo del lavoro anche al femminile, per esempio: dire sindaca, magistrata, avvocata, difensora, senatora, medica non è  vezzo o peggio strafalcione, ma dare per scontata la presenza delle donne in ogni ambito  in modo strutturale e non eccezionale, come invece può suggerire l’usare vocaboli  presi in prestito dal maschile. Leggere fiabe con diverse tipologie di principesse, principi e finali, invitare gli stessi bambini a inventarne, mischiare i giochi, scambiarsi gli abiti, favorire quel disordine creativo che libera dallo stereotipo, non vuol dire confondere i sessi, ma creare un’attenzione e un rispetto verso il genere di  cui ogni bambino è portatore. Nel rispetto, i sentimenti crescono attenti all’alterità e alle sue esigenze, si attrezzano per  le frustrazioni. A scuola e famiglia dovrebbero affiancarsi le immagini dei media, troppo spesso infarcite di simboli e modelli sessisti e retrogradi. Una battaglia culturale che non è facile vincere, ma che vale la pena di perseguire.

 

Written by Emma Fenu

 

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