Le métier de la critique: Claudia Salvatori, profetessa divorata tra l’iperletteratura e la paraletteratura
Claudia Salvatori è una scrittrice di professione nel senso più puro, e forse meno poetico, dell’espressione: Claudia Salvatori scrive narrativa in cambio di soldi. Da trent’anni. Da trent’anni Claudia Salvatori scrive narrativa per sopravvivere.

L’opera omnia di Claudia Salvatori è un guanto in faccia a tutta quella schiera di scrittori e scrittrici più o meno emergenti (e critici e critiche; e lettori e lettrici; e semplici passanti) che parlano dell’impossibilità di conciliare il lavoro mercenario (lo scrivere su commissione) per grandi case editrici con il produrre letteratura non “venduta” nel senso più ideologicizzante del termine. Perché ovviamente Salvatori è una venduta, nel senso più letterale del termine – come la maggior parte dei grandi scrittori europei passati, che senza un mecenate sarebbero morti di fame. La sua penna non scorrerebbe se il denaro di un committente non le pagasse l’inchiostro.
Ma, per quanto restrittiva possa essere la commissione, per quanto commerciale possa essere il prodotto che le viene chiesto di confezionare, Salvatori si riconosce sempre. Salvatori trapela. Salvatori è autoriale pur essendo una creatrice seriale di prodotti commerciali. E, da autrice forte, ha usato le sue storie per raccontarci una storia più grande, più ampia, che esce dai romanzi e si allaccia con la Storia. Quella in cui ha ambientato alcuni dei suoi romanzi, quella che stiamo vivendo, e quella che potrebbe venire.
Qualche anno fa mi sono proposta di curare la pagina Facebook di Salvatori. Era un lavoro volontario, il mio, svolto per la voglia di appoggiare un’autrice che vorrei scrivesse sempre più, e sempre più come autrice “libera” e non come creatrice seriale di prodotti. Avevo, allora, creato una sezione che raccoglieva non solo i titoli dei romanzi, ma anche stralci da recensioni e interviste, sì che i lettori di passaggio potessero orientarsi per capire quali dei suoi romanzi avrebbero potuto essere di loro interesse. Serviva un titolo, per questa sezione, e sapevo quale sarebbe stato: La Profetessa.
Questo appellattivo mi era venuto in mente dopo aver letto il romanzo con cui l’ho conosciuta: “Walkiria Nera: Golden Dawn”, Segretissimo n. 1537. I Segretissimo sono quei romanzi davanti a cui passate ogni volta che entrate in edicola, quelli che Schulz-Buschhaus (qui sociologo della letteratura) definirebbe “Trivialliteratur”, termine la cui traduzione fa sorgere problemi ideologici. “Letteratura di consumo”? “Di massa”? Spinazzola, italiano – e, aggiungerei, da italiano – la chiama “paraletteratura”, e nello specifico:
Quarto e infimo livello, la cosiddetta paraletteratura o meglio letteratura marginale. Si tratta delle pubblicazioni da edicola etc etc…

Non so quanti suoi simili, ma di diversa nazionalità e cultura, avrebbero fatto uso di quell’infimo aggettivo che è “infimo”. Spinazzola o qualche suo collega potrebbe controbattere che questa sprezzante parola va letta letteralmente, con un dizionario etimologico in testa, non lasciandosi affascinare dalla connotazione acquisita. Ciononostante “infimo” rimane un termine un po’ infimo per parlare dell’ultimo gradino di una gerarchia. Intendiamoci: quella proposta da Spinazzola usa come criterio quella della complessità tecnica, non parlando di altri generi di valore. Però quell’“infimo” pesa comunque, nella percezione pubblica – quel pubblico che decide chi è un Grande Autore e chi un Venduto. Eppure è stato proprio quel Segretissimo a farmi innamorare di Salvatori – e a farmela contattare e a far sì che io adesso sia qui a scrivere di lei. Perché in “Walkiria Nera: Golden Dawn” Salvatori straborda dal formato in cui è costretta – un formato che, di solito, richiede molta attenzione alla trama e all’azione, un linguaggio semplice e diretto, e in generale poca presenza dell’autrice (poca autorialità) a favore della centralità del prodotto. Un formato difficile da accontentare, se si vuole esprimere la propria visione del mondo, se questa non corrisponde a quella – molto strutturata – che viene venduta come parte integrante del prodotto. Un formato in cui è teoricamente arduo, quindi, trovare un romanzo che ti dia l’impressione che l’autrice non solo ti sta dicendo tanto, ma che potrebbe dirti ancor di più, se potesse, ma è costretta a riassumere e sublimare tutto ciò che non è richiesto da quella committenza scrivendone tra le righe, facendosi sibillina come una veggente. Ed è proprio nel veggente di Rimbaud che ho visto Salvatori come una profetessa:
“Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza.”
Ho successivamente scoperto, sistemando la pagina Facebook di Salvatori, che Sergio Altieri mi aveva preceduta, definendo Salvatori una “straordinaria profetessa della narrativa dell’inquietante”. Rileggo quell’“inquietante” come un Unheimliche, come un disordine dei luoghi comuni, uno scuotere per rivelare.
Si può essere profeti del presente?
Sì, se il presente ha lati ancora da rivelare, ed è tale genere di profetessa che ho visto in Salvatori.
Ma che cosa profetizza?
Salvatori scrive di personaggi che – come il veggente rimbaudiano – fanno proprie e rappresentano tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia. Sono personaggi ambigui come ambiguo è l’essere umano visto dall’interno, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni – paradossi e contraddizioni che solitamente non sopravvivono all’esposizione pubblica. L’interazione sociale, quella in cui agisce la politica (la Politica con la P maiuscola che finisce sui giornali e quella che intercorre tra singoli individui facenti parti di una società, quella per cui the personal is political, proprio perché le relazioni sociali, anche se avvengono tra due persone, rimangono sociali) avviene tra persone – ossia, dal latino, “maschere”. E le maschere sono immote, fisse, costrette a un’espressione, a un ruolo in società, quale esso sia, positivo o negativo, purché sia un ruolo. Un’identificabilità, non un’identità.

L’“arroganza” dei protagonisti salvatoriani è quella di non accettare di essere ridotti a maschere, ostinandosi a viversi come esseri umani – contraddittori e irrisolvibili, indefiniti, che in sé contengono tutto e l’opposto di tutto: sono maschili e femminili, prevaricatori e prevaricati, tiranni e devoti al popolo, trascendenti e immanenti. Sono catari, insomma (e non è un caso che Il cavaliere d’Islanda, edito da Mondadori nel 2012, proprio dei catari parli), ma lo sono oggi. Non ieri, né l’altroieri: proprio oggi.
Alcuni dei lavori di Salvatori, infatti, per l’essere romanzi di formazione imperniati su un dialogo tra opposti, potrebbero ricordare quelli di Hermann Hesse. C’è, però, una differenza fondamentale: se in Hesse lo sviluppo del romanzo coincideva con lo sviluppo di un confronto tra gli opposti che ne rivelasse la solo apparente mutua esclusività (“rivelazione” che illumina le coppie di protagonisti dei suoi romanzi più celebri), in Salvatori tale sintesi è già avvenuta all’interno dei personaggi. I suoi eroi e le sue eroine si affacciano al mondo avendo già in sé questa coesistenza di opposti, che opposti non sono all’interno degli esseri umani di cui narra, ma che opposti rimangono nelle società in cui costoro vivono.
Da questo incontro – tra l’essere umano polimorfo, non cristallizzato in un ruolo e che non indossa una maschera, e la società in cui vive, che per maschere e ruoli ragiona – scaturisce il dramma dei romanzi di Salvatori.
Che cosa succede quando questo incontro ha luogo?
Nei primi romanzi l’incontro, in un certo senso, non l’aveva.
In La filosofa (Più tardi da Amelia) (vincitore del Premio Tedeschi 1985), addirittura, il personaggio ambiguo – la filosofa, per l’appunto – è presente nella sua assenza: è dalla sua scomparsa che scaturisce la trama. E, mentre il giallo si dipana, un’altra storia ci viene raccontata, una storia di cui non ci verrà data la chiave: chi era Amelia Valenti? Perché tutti ne parlano in toni tanto forti, tanto contraddittori? Non si sa e non si saprà. Ma la filosofa tornerà, in altri sembianti e corpi, per farsi conoscere.
La donna senza testa (Graphos 1990; Alacrán 1996) – altro personaggio che si fa depositario dei desideri, delle paure, delle rabbie e rivendicazioni della società in cui nasce e cresce – è viva, ma è aliena al mondo in cui vive. Senza testa, può solo osservare, solo capire, solo introiettare senza agire. Può solo subire.

Sarà Anthony (Il sorriso di Anthony Perkins, Alacràn 2005) ad agire in suo nome (e, forse, a nome di tutte queste individualità irriducibilmente polimorfe che non si riconoscono nella società contemporanea), ma lo farà da serial killer – per definizione antitesi della società in cui vive, che non capisce e che non lo capisce, in una incomprensione tale da precludere ogni forma di dialogo.
Ma ci sono anche vie di mezzo, nei primi romanzi (e non solo) di Salvatori, tra esclusione e contrapposizione; ci sono individui che nella società finalmente entrano, ed entrandovi se ne scoprono ai margini. È il caso di Schiavo e padrona (Marco Tropea 1996) in cui il sadomaso diventa un mezzo per parlare di ruoli e società (the personal is political). È quello di Abel (Epix 2009), zombie in una società in cui i mostri, depauperati del sacro mistero che incarnavano, sono diventati squallide minoranze.
Salvatori sarebbe potuta diventare, a questo punto, una scrittrice che desse voce alle minoranze. Ma non l’ha fatto. Invece, ha cambiato terreno di sperimentazione.
Negli ultimi cinque anni Salvatori si è data al romanzo storico.
Ricordo nostri scambi sulla “caduta” del romanzo ottocentesco, il romanzo del vate, il romanzo che si fa quadro sociale dipinto da un autore (più raramente un’autrice) la cui visione conta, la cui visione si fa portatrice di verità, si fa guida. Sono i romanzi di Hugo, Zola, Manzoni. Sono quei tomi dalle molte pagine in cui immergersi come ci si immerge in un mondo, sapendo che una voce, dall’alto, commenta – come un Dio commenterebbe la Terra che ha creato mentre ci guida alla sua scoperta.
Il romanzo ottocentesco – che fosse o meno storico – non è sopravvissuto alla svolta novecentesca. Quel narratore assoluto (onnisciente) è caduto assieme alla caduta del positivismo, alla disillusione che ne è seguita, al fallimento di un’epoca sempre più certa di poter scovare (e descrivere) La Verità. Un sogno frantumato pezzo dopo pezzo dal potere relativizzante della psicoanalisi, dall’uso e abuso che si è fatto della fisionomia fino alle leggi razziali, la sterilizzazione di massa e poi la bomba atomica. Seppelliti i vati (metaforicamente e non), è arrivato Joyce con il flusso di coscienza, Woolf e il suo spostare il focus dai grandi ai piccoli eventi quotidiani, gli Uno, nessuno e centomila pirandelliani che relativizzano l’oggettività. La Verità cade e le penne si dedicano all’analisi delle singole individualità. L’oggettività smette di esistere e costringe a focalizzarsi su unicità che tutto relativizzano. Stiamo, insomma, entrando nel post-modernismo.

Il sorriso di Anthony Perkins è uno splendido quadro di questa percezione del mondo. È un romanzo imperniato su una sola personalità (deviante) che non trova senso al mondo. È, credo, il romanzo di Salvatori che ho preferito, ma anche una pessima condizione esistenziale a cui l’autrice non si è arresa. Dopo aver fatto uscire il pulcino (Anthony) dall’uovo, averlo fatto interagire con il vasto mondo e avergli fatto scoprire di essere una minoranza marginalizzata (e che forse, in un mondo post-moderno e frammentato, siamo tutti minoranze senza voce), Salvatori è tornata indietro nel tempo. Letteralmente, come narratrice: Salvatori ha cominciato a scrivere di epoche passate, non ancora condannate a essere post-moderne. Epoche in cui i suoi personaggi polimorfi non sono ossia condannati a essere assolti e liquidati dall’etichetta di una minoranza, ma in cui – comunque – una condanna li aspetta: la damnatio memoriae.
Salvatori ha cominciato a scrivere romanzi storici per ridare voce alle voci che la damnatio memoriae aveva seppellito. Tarantino ha fatto qualcosa di simile. Ha ripescato minoranze storiche che, ai tempi, non avevano voce, per vendicarle. Ha riscritto storie che, ai tempi, non potevano essere scritte dai propri protagonisti. Ha vendicato gli schiavi afro-americani (allora solo africani) in Django Unchained e gli ebrei in in Inglourious Basterds. Tarantino l’ha fatto mutando gli eventi storici o agendo in quei buchi neri che la cronaca non ha registrato. Salvatori ha fatto di più e di meno al contempo.
Salvatori si è “limitata” a scrivere una nuova versione della stessa storia, facendosi ibrido tra la narratrice ottocentesca di romanzi storici e la narratrice post-moderna che, come arma contro l’ingiustizia, ha la propria personale e relativa visione. Ed è una visione, se non pessimista, decisamente fatale.

Come a voler rivendicare gli ultimi (“gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”, scrisse Matteo), li ha resi primi nel suo discorso (a)storico. Confrontandosi con un presente che, nella sua precedente produzione letteraria, sembra sempre più essere un luogo in cui per gli ultimi non c’è più speranza, Salvatori si è rivolta a un passato in cui forse la celebre frase di Matteo poteva essere realtà. Un passato – più passati – in cui i mistici, i puri e gli artisti avevano un ruolo importante nella società. In cui le persone che custodivano in sé un’irreducibile ambiguità potevano essere d’ispirazione, nel bene e nel male.
I personaggi polimorfi, fatti di opposti che non si annullano né attenuano a vicenda, sono i protagonisti dei romanzi storici degli ultimi anni. E da minoranze diventano (anti)eroi condannati a essere divorati dal popolo che li ama/odia. Salvatori ha voluto unire due archetipi che raramente sono perdonati, quando vengono incarnati in un sol corpo: il/la governante e l’artista. E si veda, nel secondo caso, l’artista che si fa veggente rimbaudiano, che accoglie in sé tutto per tutto rappresentare, per dare voce a tutti. Questo dovrebbe essere un governante democratico, letteralmente: la persona che tutti rappresenta, che di tutti si fa portavoce. Ma, nelle realtà dipinte da Salvatori, questo ideale si incarna in tragedia.
Troverete questa storia ne Il mago e l’imperatrice (Mondadori, 2010), in cui a essere salvata dal calderone della damnatio memoriae non è solo Messalina, ma anche Simone Mago. La troverete ne Il sole invincibile (Mondadori, 2011), il cui Eliogabalo è forse il caso più esemplare di che cosa accada a chi troppo viene idolatrato nella propria ambiguità: ciò che non si può controllare viene abbattuto. Famelicamente. Come sanno Nefertiti e Akhenaton de La splendente regina della notte (Mondadori, 2013).
È la storia, raccontata in maniera diversa, de Il profumo di Suskind. Jean-Baptiste Grenouille riuscì a creare la fragranza perfetta, che l’avrebbe fatto desiderare da tutti, e quando se ne ricoprì andò incontro a quella che viene presentata come una forma estrema d’amore – sempre che d’amore ancora si tratti, e non di una pulsione più forte e amorfa: venne divorato.

I personaggi polimorfi di Salvatori nascono già ammantati da tale fragranza, condannati ad attrarre e repellere, o attrarre o repellere, sentimenti tanto forti quanto le contraddizioni (che contraddizioni non sono, nella loro interiorità) che li compongono. Il popolo – quello storico – non perdona l’ambiguità, quando questa non può essere catalogata in qualche anfratto – in quegli anfratti che diventeranno le minoranze contemporanee, in quella contemporaneità che non ha più senso del sacro né del giusto perché tutto relativizza. Salvatori ha cercato nel passato un principio unificatore ma che tutti rispettasse, una sorta di democrazia multiculturale ante litteram, e quel che ha trovato – che ha postulato – è un fato che non perdona chi non sottostà al gioco di maschere sociali. Che non perdonerebbe lei come autrice vate.
È con l’ultimo romanzo che ha scritto, “La splendente regina della notte“, che posso chiudere il cerchio. È un prodotto palesemente commissionato sulla scia del successo di “Cinquanta sfumature di grigio“, e, in quanto tale, prima di tutto un prodotto (iper)commerciale. Eppure, anche in quest’angolo di letteratura che si compone delle copie delle copie dei prodotti di successo, Salvatori è riuscita a portare avanti il proprio discorso, storico e astorico, (ri)dando voce a niente meno che un faraone. È infatti ad Akhenaton che viene detto:
“Hai paura di doverti mostrare ancora al popolo, di affrontare il suo odio, dopo che ne hai avuto l’amore. Ebbene, lascia che ti dica che mescolato al loro amore c’è sempre stato odio, e ora ti daranno odio mescolato ad amore.”
Non so se esista una formula per il successo commerciale di un romanzo. Non so se, come Salvatori teme, e come un certo marketing promuove, la contemporaneità abbia sostituito alle masse ottocentesche un pubblico frammentato a priori, composto di nicchie che non si parlano, di minoranze celebrate e auto-celebrate. I romanzi di Salvatori sembrano dimostrare che il rapporto tra le esigenze di un certo marketing (la parcellizzazione del pubblico che dà vita ai diversi generi di cui la cosiddetta “paraletteratura” è composta) e l’autorialità non sono necessariamente nemiche. Non lo erano nell’Ottocento, quando i vati parlavano di Una Sola Verità facendosi Dei dei loro romanzi. Quell’unica verità oggi non esiste più, sostituita da una relativizzazione che ha aperto le porte alla libera espressione individuale (a tantissime libere espressioni individuali), che ha in sé il potenziale di arricchire il romanzo contemporaneo, anziché frammentarlo a sua volta in sottogeneri.

Se ho scelto Salvatori per portare questo discorso, è perché lei riesce a gettare un ponte tra lo ieri, l’oggi e il domani: le minoranze ci sono, e ci sono così tanto da essere interiorizzate nei protagonisti, ma questo non impedisce loro – così come non impedisce ai romanzi di Salvatori – di rivolgersi a pubblici paganti diversi pur mantenendo il proprio segno – il proprio discorso – distintivo.
È davvero così tanto impossibile conciliare la vendibilità di un prodotto alle masse e l’autorialità, in questo presente tutto frammentato? È davvero così tanto impossibile – come un certo vasto pubblico ancora sostiene, usando ancora come presupposto la dicotomia tra “torre d’avorio” e “narrativa popolare” di gramsciana memoria – coniugare la figura della scrittrice che comunica messaggi con quella della scrittrice che scrive per guadagnare? Possono il vivere per scrivere e lo scrivere per vivere divenire un’unica cosa?
Claudia Salvatori (Genova, 1954) è una scrittrice e sceneggiatrice italiana. Ha pubblicato racconti e romanzi con Mondadori, Alacrán, Marco Tropea e altri. Nel 1985 il suo romanzo Più tardi da Amelia ha vinto il Premio Tedeschi., nel 2001 Sublime anima di donna il premio Scerbanenco e nel 2005 La donna senza testa è arrivato finalista al Premio Calvino. Ha sceneggiato diversi fumetti, tra cui Topolino, Nick Raider, Julia e storie in Skorpio e Lanciostory.
Written by Serena Bertogliatti
Pur vivendo da “casalinga” so capire.
Leggo oltre, forse aldilà della concretezza delle parole, le parole di una scrittrice, le tue parole.
Forse non ti ho mai “letta’ come avrei voluto fare,
oggi però ho ritrovato un modo nuovo e antico,vecchio di 50 anni..e ti rileggo, ti ritrovo,con tutta la tua consapevolezza e la mia.
Grazie Claudia per l’emozione.
Spero di rivederti. Apprezzero’anche il tuo sorriso.
Un abbraccio affettuoso Giulia
Leggo. Leggo Claudia e leggo Serena. In linea di massima approvo, ma anche mi viene da riflettere; che poi potrebbe essere ciò che volevano tutte e due. Eppure la riflessione principale è che vedo troppe parole inglesi, francesi, straniere in genere. Non che l’inglese mi crei difficoltà, è il testo inframmezzato di termini stranieri che mi crea disagio. E’ evidente che l’uso del termine straniero è funzionale alla scrittura, ma ho troppo presente Orwell (La politica e la lingua inglese) per non sospettare degli innesti di lingue straniere nel testo. Chi scrive mente sempre, mi viene da pensare, e l’uso di termini stranieri aiuta a mentire, ma le parole sono anche armi, armi da fuoco, direbbe Brice Parain. A me piace invece pensare che le parole siano armi da taglio, machete di Occam, strumenti di combattimento che funzionano tanto meglio quanto più sono affilati. E certamente nella mia lingua madre riesco ad essere affilato in una misura in cui non mi riuscirebbe in altre lingue. Ecco. Perchè ogni volta che scrivo ho una vaga sensazione di combattere.
Concordo con te, l’essere umano è menzognero. Basta guardare che di un bugiardo e traditore ne abbiam fatto l’esempio (Odisseo). Dante però saggiamente individuò il personaggio e lo condannò. “Per virtute e canoscenza” sì, forse più per narcisismo e voglia di avventura, che certamente la si può ricercare ma forse prima non ci si deve sposare e far un figlio. Se dunque chi scrive mente sempre come tu hai sottolineato, stai mentendo anche tu. L’inglese è la lingua ufficiale del mondo, ovvio che per ragioni di superstrato le parole tendano ad imbucarsi nella lingua italiana (come in qualsiasi altra lingua). Prima di Orwell c’è stato il 1700 e gli intellettuali dell’epoca scrivevano e parlavano in più lingue con sagaci prestiti. Talvolta una parola non è propriamente traducibile perché perde di immediatezza, ti faccio un esempio: busy (nel senso in cui viene usato in Inghilterra non ha traduzione in lingua italiana se non con parafrasi). Io personalmente adoro la lingua italiana ma mi capita di utilizzare parole in greco, in latino, in inglese, in tedesco (poche pochissime) ed in francese. Semplicemente perché mi piace il loro suono o perché non c’è una traduzione. Sarebbe come tradurre flâneur… Se hai qualcosa da esprimere sui contenuti dell’articolo, dimmi pure.
Grazie dell’ospitalità. Leggendo a tarda notte l’articolo mi sono venuti dei pensieri che mi è piaciuto trascrivere.
Riguardo alla parola flâneur, l’ho incontrata di recente in un saggio di estetica che traducevo e non ho pensato minimamente a tradurlo (anche perchè era in francese in un testo inglese),
Nel merito, mi piace molto l’inizio dell’articolo, che fa notare come si possa fare letteratura di notevole qualità anche all’interno del sistema commerciale, e questo è un fatto che viene detto raramente. Sono più comuni le lementele per un sistema che rifiuta la qualità, l’estro dell’artista, la fantasia. Presumibilmente sono veri tutti e due i punti di vista: nel mondo commerciale circola molta robaccia e vengono scartati autori bravi, ma a volte uno davvero bravo si impone comunque.
Mi sembra che Claudia Salvatori trovasse pure degli aspetti positivi, cioè formativi per lo scrittore, nel trovarsi a scrivere all’interno della gabbia di un genere piuttosto stretto (il giallo, o il fumetto, o la storia di spionaggio, …). Questo aspetto del genere come palestra per lo scrittore mi sembra interessante.
Sugli scrittori che vengono, anni dopo, definiti profeti mi resta la sensazione (penso a Pasolini e Guy Debord più che altro) che fossero “semplicemente” attenti lettori della realtà intorno a loro, quindi capaci di vedere nel presente ciò che altri avrebbero visto solo molti anni dopo, quando ormai i fatti si erano rivelati.
Un saluto.