Intervista di Irene Gianeselli agli attori Alessio Boni e Marcello Prayer: “I Duellanti”

“Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni”. – Stig Dagerman

Alessio Boni e Marcello Prayer

Armand D’Hubert e Gabriel Florian Feraud sono due ussari dell’esercito napoleonico, legati visceralmente da una sola ossessione: duellare. In vent’anni, diciassette sfide, sempre all’ultimo sangue, sempre rispettando le regole della cavalleria. In vent’anni il divario ideologico tra i due cresce, ma non diminuisce il desiderio di confrontarsi. Tra i due uomini il deserto gelato della guerra in un’Ottocento che comincia a marcire e porta in sé i prodromi dello sconvolgimento mondiale del secolo successivo.

Lo spettacolo è nato dalla traduzione del romanzo di Joseph Conrad a cura di Francesco Niccolini e dalla drammaturgia e co-regia di Roberto Aldorasi che hanno lavorato intensamente con Alessio Boni, Marcello Prayer in scena con Francesco Meoni e con la violoncellista Federica Vecchio. Le musiche sono di Luca D’Alberto.

Alessio Boni e Marcello Prayer raccontano ai lettori di Oubliette Magazine il loro teatro e la genesi de “I Duellanti“.

 

I.G.: La prima domanda non può essere che questa: perché avete scelto di portare in scena “I Duellanti“?

Alessio Boni: Perché ci volevamo massacrare. È una metafora anche del duello della vita questo duello in scena. Ogni volta che cominciamo non sappiamo mai se arriveremo alla fine, c’è sempre un’incognita – filerà tutto liscio? – e credo che quest’incognita non parta dall’intelletto, dalla memoria, dalla pratica teatrale, parte proprio dal primo duello, quello vero, che crea tensione per tutto il resto dello spettacolo: non si sa quel duello lì come andrà a finire, può funzionare tutto bene, ma può esserci qualche intoppo, mi può scivolare la sciabola… e quest’incognita ci tiene sulle spine tutte le sere, perché non puoi distrarti un secondo. Non l’abbiamo scelto solo per questo, ovviamente, c’è tutto Conrad, tutto il suo pensiero, la dualità, è un testo forte e il nostro gruppo l’ha scelto per l’intensità, ma con intensità non intendo solo sudore e movimento, intendo in tutti i sensi, i generi, gli intenti. Quando vedo una totalità nella scena che è dettata dal testo, dalla dedizione degli attori, dalle luci, dalla scenografia, dalle transizioni perfette da una scena all’altra, allora mi sento appagato totalmente. È spettacolo. Che sia teatro-danza, concettuale, di ricerca, di parola… comunque lo si voglia chiamare, ci interessava fare uno spettacolo totale che ci appagasse ogni sera. Io e Marcello ci conosciamo bene, facciamo già da tempo un lavoro sulla poesia italiana e su questi concertati a due, ci è venuta subito l’idea di creare questo essere-non essere nel testo che è appunto la scena della ritirata dell’esercito napoleonico della campagna di Russia. La genesi è quella, questo germe che ci portiamo dentro che è stato poi sposato anche dal nostro co-regista, Roberto Aldorasi, vogliamo darci, donarci totalmente, è una sfida tutte le sere. Non vorremmo mai che questo spettacolo si definisse rappresentazione.

 

I.G.: Il duello è ossessione. Lo è anche il teatro?

I Duellanti

Alessio Boni: Dovrebbe. Il teatro è un amore e un distacco. È un amore totalizzante. C’è gente che ha divorziato, che ha lasciato la famiglia per il teatro. Perché ti porta via anche il privato, è uno dei mestieri in cui non riesci a tirare giù la saracinesca quando vai a casa, dove forse sei solo più regista e pensante rispetto a quando provi in scena: a casa mediti, non dormi, rimugini, riscrivi. È un po’ ossessivo il teatro se preso in un certo modo, non lo molli e non ti molla mai. In questo mestiere è un po’ come nel rapporto con la persona che si ama: ci sono dei casi in cui si ama, si odia, si odia, si ama, ti manca, poi è troppo con te, lo senti, non lo senti abbastanza. È un’ossessione che ti tiene sempre sulle spine, però è amore, totale. Si dice che l’amore totale viene dai cani, oppure i genitori lo provano per i figli. Vorremmo arrivare a questo amore totale. È una cosa molto forte quella che sto dicendo, me ne rendo conto, anche molto difficile, devi adorare appassionatamente e totalmente quello spazio e quel momento che occupi, perché se ti doni impercettibilmente anche solo un po’ meno, lo percepisce il teatro, lo percepisce il pubblico, si incrina tutto. È come un divario di mezzo millimetro che alla fine dello spettacolo è diventato ampio più di un metro. È come un bambino, un bambino lo sente immediatamente che c’è qualcosa che non va, anche se non urli. Bisogna veramente tornare alla dimensione puerile del bambino. E adorare il teatro, ma veramente, senza la venerazione fine a se stessa, ma con senso estetico, di equilibrio, di saggezza. Per donarsi, con grande amore e serenità, e allora ti ritorna tutto. Questo per me è il senso del teatro, quando diventa liturgico, una terapia di gruppo, diventa un rito collettivo, diventa ieratico. Vorremmo impossessarci di questo. Infatti quando vediamo in platea volti di spettatori  – che stanno evidentemente utilizzando il cellulare – illuminati dalla luce dello schermo, è come se ci dessero ogni volta delle coltellate nei fianchi. Come se pugnalassero un figlio.

 

I.G.: Il duello è metafora della costante fuga dell’attore. È un altrove mentale e fisico?

Alessio Boni: Certo, il duello è metafora di questo. Noi lo diciamo alla fine: senza dovere fare morti, ma la stoccata deve essere data. Adesso si combatte e si stocca in un altro modo, questi ussari dell’Ottocento usavano la sciabola. Per quando mi riguarda l’attore è in fuga da tutto ciò che appesantisce l’Occidente oggi e l’essere umano. Non ti parlo del Mercato, ma ti parlo delle disarmonie quotidiane, delle non-passioni che incontri ogni giorno, dell’andare avanti solo per guadagnare i soldi, perché il Dio Denaro diventa tutto. Dalla sete di potere, da tutto questo si fugge. Perché se queste cose ti hanno posseduto e ti possiedono, non riesci a resettarti totalmente per metterti a nudo e vestirti di un costume per diventare Gabriel Feraud, Armand D’Hubert, Amleto, Orazio… devi essere completamente avulso da tutto ciò, altrimenti non puoi fare questo mestiere. Infatti io ho un fratello che mi fa da economo perché non voglio neanche controllare il conto corrente, cosa che mi allontanerebbe da un dinamismo che so essere un privilegio per molti, ma per me è una necessità. Se tu stai troppo dentro ai problemi del quotidiano, non riesci a dare all’anima, alla persona, al personaggio che devi interpretare, quella intensità, quella totalità, spontaneità, quella genuinità, saggezza, equilibrio che devono avere Amleto, Orazio… io aborro il cicisbeo, il gossip, le cose bieche, volgari, grasse, banali, credo di essere in fuga da tutto questo. Perché, ti ripeto, con Marcello e gli altri colleghi ho il lusso di potermi perdere otto, nove ore al giorno e parlare di sentimenti umani, parlare dell’uomo che è l’emisfero più importante di questo pianeta, il più complesso in assoluto. Ognuno di noi ha dentro un microcosmo che diventa un macrocosmo su una palla che gira a 29.8 Km/s e non ce ne rendiamo conto. Se vuoi riassumere in poche parole: rifuggo dalla volgarità grassa, dal volgare, dal banale, dal retorico per cercare di arricchirmi ogni volta delle poesie di Shakespeare, Molière, Conrad… è un modo per noi, tutti quanti, di migliorare.

Marcello Prayer: Uno dei tanti, anch’io./ Un albero fulminato/ dalla fuga di Dio”.  Mi vengono in mente questi versi di Caproni, posso risponderti così.

 

I.G.: Cos’è per voi la linea d’ombra?

Alessio Boni: La linea d’ombra di Conrad è quando lasci uno spazio e varchi una soglia, e coscientemente lasci l’innocenza della giovinezza – e questo mi rispecchia parecchio – e vuoi farti carico degli altri più di te stesso, non hai bisogno di esibirti, ma vuoi fare esibire e pensi ai tuoi figli o ai tuoi amici o ad altre persone. Quel passaggio lì è la maturità, la responsabilità, sei nato e non puoi più nasconderti. Ma non è una questione anagrafica. Non è il fatto che ti sposi, fai figli… è piuttosto una coscienza onesta, sincera dentro di te. C’è chi lo capisce come Freud a tredici anni (Freud si rese conto che suo padre era un imbecille), c’è chi lo capisce a diciassette, chi a trentadue, chi a cinquanta. Ognuno ha la sua linea d’ombra, c’è chi non lo raggiunge mai e neanche in questi casi riesco a ghettizzare o giudicare. C’è una canzone bellissima di Vasco Rossi, “Deviazioni”, che dice: “Pensi che basti avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio?”. Fanno di tutto per renderti uomo nella società. Perché professione, tappe e dogmi ti creano uomo: battesimo, comunione, cresima, matrimonio, ecco, sei uomo. È uno sfacelo perché non è vero niente. Nessuno ti dà l’etichetta di uomo, te la cerchi tu, la studi. La linea d’ombra è quella, quella che varchi. E fa paura. Come quando ti stacchi dalla placenta della madre ed entri in questo mondo, piangi, poi c’è l’inconscio, la giovinezza, e alla fine si tirano i remi in barca e si tira su la rete e vedi quanto hai pescato. E rispecchia anche me quello che credo sia Conrad. Questi due ussari arrivano fino a più di quarant’anni, vent’anni di duelli e davvero la linea d’ombra la varcano alla fine, e per un uomo dell’Ottocento i quaranta corrispondono ai sessanta anni di oggi. E non si tratta di peterpanismo. Però quasi nessuno ha questa coscienza di dire “Sono ancora al di qua della linea”. Perché il sistema dell’Occidente, davvero ti fa credere che pagare le tasse, guadagnare, portare i compiti a termine alla fine della settimana, significhi essere uomo. La condizione di uomo cosciente e onesto è difficile, rara. La cogli poche volte, senza ostentazione e con grande serenità. Sai ascoltare, osservare, le differenze sono una ricchezza. Io non ho paura delle differenze, mentre l’omologazione è un mondo in bianco e nero, non hai scelta. Non dico di avere ragione in assoluto, è questa la mia idea sulla linea d’ombra.

Marcello Prayer: La mia linea d’ombra non mi lascia mai, finché c’è luce c’è ombra. Non è necessario il sole di mezzogiorno. Se c’è luce c’è ombra. È come la navigazione di bolina stretta, sei sempre inclinato.

 

I.G.: Il vostro maestro, Orazio Costa: “Diverrete poesia aitante, metamorfosi perenne dell’io inesauribile, soffio di forme, determinati e imponderabili; di tutto investiti, capaci d’assumere e di dimettere: passioni, violenze, affezioni, restandone arricchiti e purificati… tesi alla rivelazione di ciò che l’uomo è […]“. Come I Duellanti vi ha arricchito e purificato?

Alessio Boni e Marcello Prayer

Alessio Boni: A differenza di tutte le altre esperienze che io ho avuto, salgo sul palcoscenico e mi sento abbracciato in una ovatta, contornato da un gruppo che sento essere pro-progetto, senza oligarchia, senza protagonismi e questo per me è il senso dell’essere teatranti e stare su un palcoscenico. Non voglio fare il democratico, ma sento di non dovere lottare contro ego o narcisismi o avvitamenti di altri attori, ma sento una forza centrifuga che si espande, tramite loro, con me, e sento una forza nuova che percepisco tra di noi. Su questo treno bisogna salire in questo modo, che abbiamo ideato io e Marcello, altrimenti scendi da solo perché il viaggio non può appartenerti. C’è solo un momento in cui mi sento solo, quando sono sdraiato sulla chaise-longue e fumo l’oppio, ma io sento l’energia degli altri. Io non mi sento solo veramente. Si è veramente soli quando non si è il numero uno per qualcuno. Io mi sento il numero uno per tutti. Marcello si sente il numero uno per tutti. Ciccio (Francesco Meoni, ndr) si sente il numero uno per tutti. Sento la solitudine di rappresentazione che fa parte del testo. Mi è capitato di sentire la solitudine accanto a grandi talenti ed è la solitudine peggiore. È come quando ti può essere capitato di sentirti sola magari accanto al tuo uomo. L’arricchimento più grande tra noi è invece ogni volta amalgamarci con le nostre anime e il nostro sapere e spalleggiarci. Ho avuto dei mancamenti, Marcello mi ha spalleggiato, ho avuto un’esitazione con Francesco, lui subito mi ha imboccato. Io sento l’amore nell’aiuto, vero, onesto, senza la “furbetteria” di mettermi lo sgambetto; in altre situazioni m’è successo, con la risatina quando sbagli la battuta per sottolineare l’errore. Invece il teatro dovrebbe essere un atto d’amore. Perché è una genesi, un concepimento, una creazione e lo dico onestamente: il testo teatrale è una creazione. Soprattutto il nostro che parte dalla drammaturgia. È come quando due fanno un figlio, un atto d’amore potentissimo. Se tu non ami il progetto, il progetto non va avanti. Questo spettacolo specialmente, te lo posso garantire. Ho una vera fratellanza con Marcello, c’è fra di noi questo tipo d’amore e di stima viscerale per cui guai se qualcuno dovesse andare contro di lui, perché io so la sua storia, lui sa la mia, nessuno deve permettersi di azzardare qualcosa su di lui, o su di me o su di Francesco: questo è il legame vero tra noi. Nella scena dell’Amleto quando quel bastardo dello zio re manda Rosencrantz e Guildenstern per capire se Amleto è pazzo o finge, Amleto li vede arrivare… e al termine del dialogo Amleto porge il flauto a Rosencrantz e gli dice di suonarlo. Rosencrantz risponde “Ma no, signore, non ho mai studiato”  allora Amleto gli chiede “E tu vuoi suonare me? Io sono uno strumento ben più complesso di un semplice flauto”. Se non sai tutto di Marcello, se non sai tutto di Francesco, se non sai tutto di me, dico “Non vi permettete mai di dire qualcosa”. Ecco, per questo c’è tra noi la difesa, per questo ci difendiamo reciprocamente. Abbiamo tutti delle vicissitudini e le vedi, lì, sul palcoscenico. Ma stiamo come degli atomi molto collegati, per lasciare il nostro segno, è un modo per partecipare al mondo e lasciargli qualcosa. È il nostro modo di dare la stoccata in maniera totalizzante, non vogliamo sconti, non vogliamo finzioni. Vogliamo creare questa cosa, prendere la vostra energia ed essere più ricchi il giorno dopo per ridarci. È uno scambio continuo, bello, forte. Mi sembra anche riuscito, senza presunzione. Perché tutte le ruffianerie, le micragnose caratterizzazioni non ci riguardano, volevamo essere onesti come una lama rovente in un panetto di burro.

Marcello Prayer: Onestà, dedizione, rigore, amore. E poi tutto quello che diceva Alessio, è quello che crea lo spazio, che dà la possibilità allo spazio di nutrirsi di immagini. La tua immagine della Russia è diversa da quella del tuo vicino di poltrona.

 

I.G.: A proposito di immagini. La scena della ritirata russa è un momento molto tensivo, lo spettatore ha tre punti di vista da riassumere: il proprio e quello dei due personaggi, come avete costruito la scena? È un qui e ora che non si vede spesso a teatro.

Marcello Prayer: Questo viene dall’insegnamento di Costa. La prima sillaba è già la prima parte dell’immagine, il tuo corpo è a servizio di questo.

Alessio Boni: Sì, quella scena non è di Conrad, l’ha scritta Francesco Nicolini ed è la vostra immagine di Russia, il nostro lavoro sulla parola.

Marcello Prayer: Devi allenarti ad essere qui e ora, e poi è un dovere se fai questo  mestiere. Devi essere presente per restituire e trasferire le immagini.

Alessio Boni: Per questo ci allontaniamo, fuggiamo. Se non siamo presenti, tutto è perduto. É un distacco necessario il nostro, non è una fuga dalle responsabilità.

 

I.G.: Rimanendo sulla parola, Marcello, perché avete scelto per il tuo personaggio di dargli un momento di sfogo nella lingua barese antica che di fatto è la tua lingua d’origine?

Alessio Boni e Marcello Prayer

Marcello Prayer: Per la visceralità. È il primo idioma a certi livelli di discussione che parla per te, è la terra che ti parla da dentro, dai piedi fino alla pancia. Queste battute sono un momento molto apprezzato anche in Emilia, Toscana…  dove magari non capiscono le parole, però arriva il senso. Ci sembrava un colore interessante: il personaggio è un guascone del sud, potente, forte, che non può più spiegare in quella scena la sua rabbia in una lingua diversa da quella che si porta nelle viscere. Abbiamo anche provato a tradurlo in italiano, ma rimbalzava ed era volgare. Queste parole girano su se stesse e feriscono il personaggio stesso mentre colpisce l’altro, non potevano che uscire dalla pancia.

 

I.G.: Tornando alla poesia, cosa significa nutrirsene e portarla in teatro?

Marcello Prayer: Prima di tutto bisogna intendersi su che cosa è la poesia, su cosa è un atto poetico. L’atto poetico è un atto di creazione di lingua, immagine, suono, spazio, profondità, prospettiva.

Alessio Boni: La poesia viene da un gesto di una madre verso un bambino, da un gatto. La poesia ci circonda. Se tu vai in giro con il cellulare non senti niente, non vedi nulla, passa tutto. Quel signore là che cammina, storpio, può essere il mio personaggio. E noi rubiamo poesia da uno storpio. È un dovere stare all’erta.

Marcello Prayer: Per un attore, poi, frequentare la poesia è importante. Per me non c’è miglior palestra che Dante. Soltanto riuscire a vedere quello che Dante ci fa vedere è un momento fondamentale. C’è l’immagine dell’Ulisse, è il fuoco a parlare. Già ti dà gli indici di come affrontarlo.

 

I.G.: Tornando all’essere uomini, come si fa a rimanerlo anche fuori dal teatro, come si conserva questo stato di grazia?

Alessio Boni: Lo stato di grazia ti invade. Tu lo accogli e ti possiede, lo porti con te. Tanti anni sul palco, tanti anni di grazia e di non-grazia, puoi anche essere terribile in scena. È un equilibrio che acquisisci piano. Questo microcosmo scimmiotta la realtà e quindi senza paura di accogliere e respingere, certo sapendo discernere, con grande semplicità, devi confrontarti con la gente mantenendo i piedi per terra. Non per fare il modesto, serve avere i piedi piantati per capire e migliorarti. È più facile essere un attore che un uomo.

 

I.G.: Ma un attore che non è un uomo come può essere un buon attore?

Marcello Prayer: Ma è il cammino che ti porta a vedere come essere uomo. L’importante è che cammini con la tensione costante per essere uomo.

Alessio Boni: Io do sempre precedenza all’uomo. Noi diamo sempre precedenza all’uomo.

 

Written by Irene Gianeselli

 

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