Oscar 2016: tutti i vincitori, le riflessioni, le statistiche e le curiosità (#5)
Un’altra edizione si è chiusa, ancora 24 le categorie interessate, alcuni record da registrare, qualche sorpresa in più del previsto, con delusioni in media sensibilmente più moderate rispetto a (perlomeno) alcuni degli anni passati.
In Italia la Cerimonia degli Oscar quest’anno, per quanto riguarda i canali in chiaro, è stata all’ultimo destinata a TV8 (ex MTV), scalzando il canale che notoriamente riusciva precedentemente ad accaparrarsela, ossia Cielo, e ottenendo uno share medio di circa il 14%. In America gli ascolti si sono rivelati alquanto bassi (si parla di un primato negativo ignoto alla regia televisiva dal 2008). Che le ridondanti polemiche #Oscarsowhite abbiano finito per influenzare negativamente la trasmissione, nonostante i premi e soprattutto i protagonisti in palio, oggetti di un largo, prolifico tam-tam sui social media, nonostante le ampie libertà concesse agli inviati speciali (per la prima volta dotati dell’autorizzazione all’accesso al Kodak Theatre) e le inedite “visioni mediali” presentate sul Red Carpet?
Chris Rock, nel suo monologo introduttivo e a più riprese durante l’intera durata dello spettacolo, aderendo in pieno al suo stile trascinante ha martellato insistentemente gli spettatori riferendosi ai contrasti sollevati da Spike Lee e compagnia, a volte parodiandoli, infarcendoli di rispettabili critiche fondate sull’uguaglianza fra esseri umani, a parere del sottoscritto pure eccedendo in certe bizzarre proposte come l’Oscar ai neri o l’abolizione delle distinzioni fra maschi e femmine. Forse non s’è tenuto poi conto che, tanto per restare ancorati all’oggettività delle statistiche, già secondo il censimento del 2010 gli ispanici negli USA erano circa 10 milioni in più rispetto gli afroamericani (50 vs 40); quindi una simile e anzi ancora maggiore ondata di risentimento avrebbe (forse) dovuto coinvolgere le popolazioni originarie del Sud America, parimenti non sufficientemente rappresentate in casa Academy.
Fra gli ospiti d’onore di questa edizione si sono distinti il vero Michael Rezendes (uno dei giornalisti di Spotlight, interpretato da Mark Ruffalo), la vera Joy Mangano (interpretata da Jennifer Lawrence) e il vero Suge Knight (produttore discografico interpretato in “Straight Outta Compton” da R. Marcus Taylor), che or ora sta scontando la reclusione per non aver prestato soccorso ai due uomini che aveva investito, uno dei quali mortalmente, nel gennaio 2015.
Copertura, partecipazione e intrugli mediatici a parte, questi 88esimi Academy Awards in generale paiono aver davvero saputo premiare l’eccellenza artistica, per quanto riserve ce ne possano sempre essere fra i cineasti e il pubblico; in fondo nessuna competizione, dai festival ai concorsi, è mai completamente priva di ruggine. Introduciamo quindi le tematiche che più ci interessano, ossia i risultati delle votazioni e i retroterra che le hanno caratterizzate.
Segue la panoramica dei vincitori in ordine decrescente di statuette ottenute:
- 6/10 – “Mad Max: Fury Road”;
- 3/12 – “Revenant – Redivivo”;
- 2/6 – “Il caso Spotlight”;
- 1/6 – “Il ponte delle spie”;
- 1/5 – “La grande scommessa”;
- 1/4 – “The Danish Girl” e “Room”;
- 1/3 – “The Hateful Eight”;
- 1/2 – “Ex Machina” e “Inside Out”;
- 1/1 – “Amy”, “Il figlio di Saul” e “Spectre”.
I prodotti di maggior rilievo che sono invece rimasti a bocca asciutta sono:
- 0/7 – “Sopravvissuto – The Martian”;
- 0/6 – “Carol”;
- 0/5 – “Star Wars: Il risveglio della Forza”;
- 0/3 – “Brooklyn”, e “Sicario”;
- 0/2 – “Steve Jobs”.
Gli studios che hanno fatto maggior incetta di premi attraverso la distribuzione sono la Warner Bros. (6 per “Mad Max: Fury Road”), seguito pari merito dalla Fox (3 per “Revenant – Redivivo”) e dalla giovane A24 (3 per “Amy”, “Ex Machina” e “Room”); terzo posto per la Disney (2 per “Il ponte delle spie” e “Inside Out”) e la Open Road Film (2 grazie a “Il caso Spotlight”).
Altro non ci resta a questo segno che evidenziare, categoria per categoria, le dovute osservazioni.
Miglior film
Chi viene dal post dello scorso mese ricorderà come sia Indiewire che l’Hollywood Reporter puntassero con sicurezza sul trionfatore agli NSFC (National Society of Film Critics Awards) “Il caso Spotlight” (prodotto da Michael Sugar, Steve Golin, Nicole Rocklin e Blye Pagon Faust), che infatti ha letteralmente strappato l’Oscar più importante agli agguerriti “Revenant – Redivivo” (Golden Globe al miglior film drammatico), “Mad Max: Fury Road” (National Board of Review Award al miglior film dell’anno) e “La grande scommessa”, vincitore dei PGA (i Producers Guild of America Awards), le cui scelte dal 2007 al 2014, da “Non è un paese per vecchi” a “Birdman”, erano sempre state ricalcate dall’Academy. Giunti nelle sale italiane “Il ponte delle spie” e “Sopravvissuto – The Martian”, ci rimangono da apprezzare solamente “Room”, (in uscita oggi 3 marzo) e “Brooklyn” (per il quale dovremo aspettare il prossimo 17 marzo).
Al momento della consegna delle statuette ai quattro produttori è stato accennato un appello a Papa Francesco affinché combatta questo flagello ancora in atto. Dall’Osservatore Romano è quindi puntualmente giunto in risposta il commento di Lucetta Scaraffia, che non definisce “Il caso Spotlight” anticattolico, “perché il cattolicesimo in sé non viene neppure toccato”, mentre il film “indiscutibilmente […] ha il coraggio di denunciare casi che vanno condannati senza alcuna esitazione”. Inoltre, il fatto stesso di aver rivolto un’invocazione al pontefice è un chiaro segno di come ci sia ancora fiducia nell’istituzione ecclesiale, “in un Papa che sta continuando la pulizia iniziata dal suo predecessore già come cardinale”.
Vero è che, nell’opinione di chi scrive, se fossero stati ammessi alla corsa anche “Carol”, “The Hateful Eight” e “Inside Out”, tutti e tre di fattura pari se non nel complesso superiore all’incoronato, l’elezione sarebbe stata senz’altro meno scontata e forse addirittura meno lecita. Esulando invece da una considerazione che focalizzi in toto la realizzazione, “Il caso Spotlight” nel costruire la sua stoica critica alla corruzione degli istituti statali ed ecclesiastici non è effettivamente mai venuto meno alla sua ammirevole logica di ricerca e ricostruzione, per quanto classicheggiante (in questo senso assai più, su tutti, di un “Mad Max: Fury Road”), pur sempre valida, coerente e in sé esaustiva.
Ecco perché, nonostante la raffinatezza intrinseca del lungometraggio, per la maggiore derivante dalla sceneggiatura firmata dal regista stesso, a livello visivo ed espressivo può considerarsi superato da “Revenant” o “Mad Max”. È altresì facile comprendere come non sempre sia manifesta la giusta vittoria di un film piuttosto che di un altro, collocato spesso (mi piacerebbe poter dire sempre) un gradino appena sopra gli altri concorrenti per le ragioni più svariate. Ciò dovrebbero essere le cerimonie degli Oscar: gli eventi in cui si premia la crème de la crème, i migliori tra i migliori, l’eminenza fra chi è di natura preminente.
“Il caso Spotlight” dal 28 febbraio scorso è poi dotato della singolare caratteristica di aver trionfato nella categoria règia e in un’unica altra, status che condivide unicamente con “Ali” di William A. Wellman (1927), “All’Ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone (1930), “L’eterna illusione” di Frank Capra (1938), “Rebecca – La prima moglie” di Alfred Hitchcock (1940) e “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille (1952). Un fatto simile non si ripresentava da 64 anni. Il record di un solo Oscar vinto come miglior film spetta a “La canzone di Broadway” di Harry Beaumont (1929, su 3 nomination), “Grand Hotel” di Edmund Goulding (1932, su una sola nomination), “La tragedia del Bounty” di Frank Lloyd (1935, su 8 nomination).
Miglior regista
Dopo il terzo Golden Globe, arriva la quarta statuetta (su nove candidature in totale, comprese quelle per i due film in lingua straniera, non incluse né nell’IMDb, né in oscars.org, probabilmente perché non riconosciute dall’Academy stessa, la quale sembra quasi privilegiare l’opera in sé che il suo autore) per Alejandro González Iñárritu, il titano messicano che sta catturando i membri votanti in una vera “attrazione fatale”, come ha dichiarato il critico Gianni Canova: merito del suo cinema “diverso”, profondamente viscerale, dalla passione contagiosa e visionaria, frutto del suo amore per i longtakes e le costruzioni artificiose, della maestria con cui riesce a coinvolgere lo spettatore in scene di grande violenza e tensione visiva.
In questo modo Iñárritu vince per due anni consecutivi, terzo regista in assoluto a riuscire nell’impresa dopo John Ford (1941 e 1942) e Joseph L. Mankiewicz (1950 e 1951), e prosegue la tradizione che dal 2003 in particolare (con la sola eccezione del 2012) vuole il vincitore del DGA (Directors Guild of America Award) anche scelto per l’Oscar. Battuti Lenny Abrahamson (“Room”), George Miller (“Mad Max: Fury Road”), Thomas McCarthy (“Il caso Spotlight”) e Adam McCay (“La grande scommessa”).
Miglior attore protagonista
Il maestoso Leonardo DiCaprio di “Revenant – Redivivo”, dopo cinque nomination a vuoto, il suo terzo trionfo ai Golden e il primo ai SAG (Screen Actors Guild Awards), ce l’ha fatta. E, quasi pleonastico a dirsi, questa volta ne aveva tutto il diritto. Senza nulla togliere alle ammirevoli performance prettamente facciali di Michael Fassbender in “Steve Jobs”, Bryan Cranston in “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”, Eddie Redmayne in “The Danish Girl” e Matt Damon in “Sopravvissuto – The Martian”, lo stress estremo cui è stato sottoposto l’intero corpo di Hugh Glass nel corso della vicenda ha conquistato secondo giustizia i cuori di tutti, dopo una serie innumerabile di meme, frizzi e lazzi che avevano ironizzato come mai forse è stato fatto su un attore, dando burlescamente per vincitore in questa sessione l’orso e in un ipotetico futuro colui che impersonerà DiCaprio stesso nel relativo biopic.
Miglior attrice protagonista
Si ripresenta anche quest’anno il caso in cui la prima nomination si rivela quella della vittoria: la 26enne Brie Larson, l’altra talentuosa Joy del 2015 accanto a quella di Jennifer Lawrence, che già si era portata a casa grazie a “Room” un Golden Globe e un SAG, è solo l’ultima di una tutt’altro che breve schiera di attrici che hanno vinto nella categoria delle protagoniste alla prima competizione ufficiale.
Prima di lei ci sono riuscite Sandra Bullock nel 2010 per “The Blind Side”, Marion Cotillard nel 2008 per “La vie en rose”, Reese Witherspoon nel 2006 per “Quando l’amore brucia “anima”, Charlize Theron nel 2004 per “Monster”, Halle Berry nel 2002 per “Monster’s Ball – L’ombra della vita”, Hilary Swank nel 2000 per “Boys Don’t Cry”, Gwyneth Paltrow nel 1999 per “Shakespeare in Love”, nel 1998 Helen Hunt per “Qualcosa è cambiato”, Emma Thompson nel 1993 per “Casa Howard”, Kathy Bates nel 1991 per “Misery non deve morire”, Jessica Tandy nel 1990 per “A spasso con Daisy”, Marlee Matlin nel 1987 per “Figli di un dio minore”, Sally Field nel 1980 per “Norma Rae”, Diane Keaton nel 1978 per “Io e Annie”, nel 1976 Louise Fletcher per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, Glenda Jackson nel 1971 per “Donne in amore”, Barbra Streisand nel 1969 per “Funny Girl”, Julie Christie nel 1966 per “Darling”, Julie Andrews nel 1965 per “Mary Poppins”; Patricia Neal nel 1964 per “Hud il selvaggio”, Anne Bancroft nel 1963 per “Anna dei miracoli”, Sophia Loren nel 1962 per “La ciociara”, Simone Signoret nel 1960 per “La strada dei quartieri alti”, Joanne Wooward nel 1958 per “La donna dai tre volti”, Anna Magnani nel 1956 per “La rosa tatuata”, Audrey Hepburn nel 1954 per “Vacanze romane”, Shirley Booth nel 1953 per “Torna piccola Sheba!”, Judy Holliday nel 1951 per “Nata ieri”, Loretta Young nel 1948 per “La moglie celebre”, Joan Crawford nel 1946 per “Il romanzo di Mildred”, Jennifer Jones nel 1944 per “Bernadette”, Ginger Rogers nel 1941 per “Kitty Foyle, ragazza innamorata”, Vivien Leigh nel 1940 per “Via col vento”, Luise Rainer nel 1937 per “Il paradiso delle fanciulle”, Claudette Colbert nel 1935 per “Accadde una notte”, Katharine Hepburn nel 1934 per “La gloria del mattino”, Helen Hayes nel 1932 per “Il fallo di Madelon Claudet”, Marie Dressler nel 1931 per “Castigo”, Norma Shearer nel novembre 1930 per “La divorziata”, Mary Pickford nell’aprile 1930 per “Coquette” e Janet Gaynor nel 1929 (alla prima Cerimonia degli Oscar) per “Settimo cielo”, “L’angelo della strada” e “Aurora”.
Questa semplice statistica parla chiaro: 42 attrici su 89 (contando l’ex aequo del 1969 tra Katharine Hepburn per “Il leone d’inverno” e la succitata Barbra Streisand) hanno vinto al primissimo colpo (e in due casi, precisamente fra il 1929 e il 1932 e fra il 1962 e il 1966, per cinque edizioni consecutive), in un calcolo che esclude tutte quelle che precedentemente alla vittoria (ossia dall’anno prima in su) hanno ottenuto anche solo un’altra candidatura pure in una diversa categoria, come può essere quella delle non protagoniste. Risulta a questo punto chiaro come non debba più sorprenderci (nel caso fosse così stato finora) un trionfo che, per quanto meritato, voglia anche imprescindibilmente spianare la strada alla fortunata diva. Allo stesso modo, anche una semplice nomination può tornare utile, come in quest’occasione è presumibile e augurabile possa accadere per Charlotte Rampling (alla prima candidatura per “45 anni”) e Saoirse Ronan (alla seconda candidatura a 21 anni per “Brooklyn”); il discorso non interessa ovviamente Cate Blanchett (“Carol”) e Jennifer Lawrence (“Joy”), già incontrovertibilmente affermatissime e richiestissime.
Miglior attore non protagonista
Lo stesso ragionamento vale la pena sia applicato alle categorie di coloro che investono un ruolo di supporto. Il 56enne Mark Rylance grazie a “Il ponte delle spie”, dove con grandissima abilità ha giocato di sottrazione, sulle microvariazioni del volto perfettamente aderenti ai contenuti della sceneggiatura dei Coen, ha portato a casa il suo primo Oscar, sorpassando Tom Hardy (“Revenant – Redivivo”), Mark Ruffalo (“Il caso Spotlight”), Christian Bale (“La grande scommessa”) e soprattutto il superquotato Sylvester Stallone di “Creed – Nato per combattere”, vincitore del Golden Globe e per molti ideale trionfatore.
A tal proposito si sono espressi i colleghi Arnold Schwarzenegger (“Sly, ricorda questo: non importa quello che dicono, per me tu eri il migliore. Sei stato il vincitore. Sono fiero di te”) e Michael Rapaport, che nella sua reazione sul web ha lanciato l’hashtag #OscarsSoWack (dove il significato di “wack” si può avvicinare ai nostri termini “spazzatura”, “pazzo”, “inferiore” o “senza valore”), oltre al fratello minore Franck che se n’è uscito con poco amabile “Mark chi?”.
Prendendo le distanze dalle opinioni e dalle maniere più o meno condivisibili di cui sopra, scopriamo quali altri attori hanno vinto la statuetta dei non protagonisti senza essere mai stati nominati in precedenza. Ci sono riusciti J. K. Simmons nel 2015 per “Whiplash”, Jared Leto nel 2014 per “Dallas Buyers Club”, Christian Bale nel 2011 per “The Fighter”, Christoph Waltz nel 2010 per “Bastardi senza gloria”, George Clooney nel 2006 per “Syriana”, Chris Cooper nel 2003 per “Il ladro di orchidee”, Jim Broadbent nel 2002 per “Iris – Un amore vero”, Benicio del Toro nel 2001 per “Traffic”, James Coburn nel 1999 per “Affliction”, Cuba Gooding Jr. nel 1997 per “Jerry Maguire”, Kevin Spacey nel 1996 per “I soliti sospetti”, Kevin Kline nel 1989 per “Un pesce di nome Wanda”, Sean Connery nel 1988 per “Gli intoccabili”, Don Ameche nel 1986 per “Cocoon – L’energia dell’universo”, Haing S. Ngor nel 1985 per “Urla del silenzio”, Louis Gossett Jr. nel 1983 per “Ufficiale e gentiluomo”, Timothy Hutton nel 1981 per “Gente comune”, Christopher Walken nel 1979 per “Il cacciatore”, Jason Robards nel 1977 per “Tutti gli uomini del presidente”, George Burns nel 1976 per “I ragazzi irresistibili”, Robert De Niro nel 1975 per “Il padrino – Parte II”, Joel Gray nel 1973 per “Cabaret”, Ben Johnson nel 1972 per “L’ultimo spettacolo”, John Mills nel 1971 per “La figlia di Ryan”, Jack Albertson nel 1969 per “La signora amava le rose”, George Kennedy nel 1968 per “Nick mano fredda”, Walther Matthau nel 1967 per “Non per soldi…ma per denaro”, Martin Balsam nel 1966 per “L’incredibile Murray – L’uomo che disse no”, Melvyn Douglas nel 1964 per “Hud il selvaggio”, Ed Begley nel 1963 per “La dolce ala della giovinezza”, George Chakiris nel 1962 per “West Side Story”, Hugh Griffith nel 1960 per “Ben-Hur”, Burl Ives nel 1959 per “Il grande paese”, Red Buttons nel 1958 per “Sayonara”, Jack Lemmon nel 1956 per “La nave matta di Mister Roberts”, Edmond O’Brien nel 1955 per “La contessa scalza”, Anthony Quinn nel 1953 per “Viva Zapata!”, Karl Malden nel 1952 per “Un tram che si chiama Desiderio”, George Sanders nel 1951 per “Eva contro Eva”, Dean Jagger nel 1950 per “Cielo di fuoco”, Edmund Gwenn nel 1948 per “Il miracolo della 34a strada”, Harold Russell nel 1947 per “I migliori anni della nostra vita”, James Dunn nel 1946 per “Un albero cresce a Brooklyn”, Barry Fitzgerald nel 1945 per “La mia via” (unico assurdo caso in cui una persona è stata nominata per lo stesso ruolo nello stesso film a due premi diversi, ossia come protagonista e non), Van Heflin nel 1943 per “Sorvegliato speciale”, Donald Crisp nel 1942 per “Com’era verde la mia valle”, Joseph Schildkraut nel 1938 per “Emilio Zola” e Walter Brennan nel 1937 (alla prima Cerimonia degli Oscar che ospitasse tale categoria) per “Ambizione”.
Ossequiando lo stesso criterio di prima, 49 attori su 80 risultano vincere al primo tentativo: qui il fenomeno risulta assolutamente appariscente. Due i casi in cui lo si registra per quattro edizioni consecutive: fra il 1945 e il 1948 fra il 1966 e il 1969.
Miglior attrice non protagonista
Sbaragliata l’agguerrita concorrenza, composta da Rooney Mara (“Carol”), Jennifer Jason Leigh (“The Hateful Eight”), Kate Winslet (“Steve Jobs”) e Rachel McAdams (“Il caso Spotlight”), la 27enne Alicia Vikander arriva al suo primo Oscar, preceduto dal SAG, per il ruolo struggente della pittrice Gerda Wegener moglie del pittore transessuale Einar affidatole in “The Danish Girl”, non di rado preferito a quello meno introspettivo, specie nella seconda parte del film, dello stesso Redmayne in veste di protagonista (o così perlomeno riconosciuto). Il dolore della donna innamorata e generosa che si ritrova un marito disturbato all’inverosimile, di fronte un lungo cammino fatto di sacrifici, separazioni e desideri repressi, traspare tutto dal suo volto angelico, rigato di lacrime vere, sempre credibile pur senza ammiccare manifestatamente al pubblico. Anche lei alla prima nomination ha avuto successo.
Hanno similmente fatto centro Patricia Arquette nel 2015 per “Boyhood”, Lupita Nyong’o nel 2014 per “12 anni schiavo”, Octavia Spencer nel 2012 per “The Help”, Mo’Nique nel 2010 per “Precious”, Tilda Swinton nel 2008 per “Michael Clayton”, Jennifer Hudson nel 2007 per “Dreamgirls”, Rachel Weisz nel 2006 per “The Constant Gardener – La cospirazione”, Catherine Zeta-Jones nel 2003 per “Chicago”, Jennifer Connelly nel 2002 per “A Beautiful Mind”, Marcia Gay Harden nel 2001 per “Pollock”, Angelina Jolie nel 2000 per “Ragazze interrotte”, Kim Basinger nel 1998 per “L. A. Confidential”, Juliette Binoche nel 1997 per “Il paziente inglese”, Mira Sorvino nel 1996 per “La dea dell’amore”, Anna Paquin nel 1994 per “Lezioni di piano”, Marisa Tomei nel 1993 per “Mio cugino Vincenzo”, Mercedes Ruehl nel 1992 per “La leggenda del re pescatore”, Brenda Fricker nel 1990 per “Il mio piede sinistro”, Geena Davis nel 1989 per “Turista per caso”, Olympia Dukakis nel 1988 per “Stregata dalla luna”, Dianne Wiest nel 1987 per “Hannah e le sue sorelle”, Anjelica Huston nel 1986 per “L’onore dei Prizzi”, Peggy Ashcroft nel 1985 per “Passaggio in India”, Linda Hunt nel 1984 per “Un anno vissuto pericolosamente”, Jessica Lange nel 1983 per “Tootsie”, Mary Steenburgen nel 1981 per “Una volta ho incontrato un miliardario”, Beatrice Straight nel 1977 per “Quinto potere”, Tatum O’Neal nel 1974 per “Paper Moon – Luna di carta”, Cloris Leachman nel 1972 per “L’ultimo spettacolo”, Goldie Hawn nel 1970 per “Fiore di cactus”, Estelle Parsons nel 1968 per “Gangster Story”, Sandy Dennis nel 1967 per “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, Lila Kedrova nel 1965 per “Zorba il greco”, Margaret Rutherford nel 1964 per “International Hotel”, Patty Duke ne 1963 per “Anna dei miracoli”, Rita Moreno nel 1962 per “West Side Story”, Shirley Jones nel 1961 per “Il figlio di Giuda”, Miyoshi Umeki nel 1958 per “Sayonara”, Dorothy Malone nel 1957 per “Come le foglie al vento”, Jo Van Fleet nel 1956 per “La valle dell’Eden”, Eva Marie Saint nel 1955 per “Fronte del porto”, Donna Reed nel 1954 per “Da qui all’eternità”, Kim Hunter nel 1952 per “Un tram che si chiama Desiderio”, Josephine Hull nel 1951 per “Harvey”, Mercedes McCambridge nel 1950 per “Tutti gli uomini del re”, Celeste Holm nel 1948 per “Barriera invisibile”, Anne Baxter nel 1947 per “Il filo del rasoio”, Ethel Barrymore nel 1945 per “Il ribelle”, Katina Paxinou nel 1944 per “Per chi suona la campana”, Mary Astor nel 1942 per “La grande menzogna”, Jane Darwell nel 1941 per “Furore”, Hattie McDaniel nel 1940 per “Via col vento”, Fay Bainter nel 1939 per “La figlia del vento” e Gale Sondergaard nel 1937 (alla prima Cerimonia degli Oscar che ospitasse tale categoria) per “Avorio nero”.
Un risultato di 55 attrici su 80 che hanno visto la loro prima (e non di rado unica) nomination tramutarsi in vittoria deve far seriamente pensare a quali possano essere le condizioni alla base di simili esiti: prime fra tutte l’incisività del ruolo e la natura della concorrenza anno per anno. Il record delle edizioni consecutive (8) si è registrato fra il 1983 e il 1990, e al tempo forse avrà indotto a qualche polemica, tanto più che nei 15 anni precedenti (1968-1982) si erano verificati solo sei casi di trionfi di questo genere, ognuno dei quali era distante almeno due anni dal successivo.
Miglior sceneggiatura originale e non originale
Anche la vittoria de “Il caso Spotlight” (scritto da Thomas McCarthy e Josh Singer) e “La grande scommessa” (scritto da Adam McCay e Charles Randolph) è una scelta d’indirizzo marcatamente politico, etichettatura riproponibile con liceità solo nell’eventualità (alquanto remota visto il sacrificato “Inside Out”) che vincesse “Il ponte delle spie”. Le tenaci denunce sociali sugli abusi sessuali perpetrati dai preti di Boston e sulle speculazioni pericolosissime ed insensate del primo decennio della borsa americana hanno avuto la meglio rispettivamente su “Ex Machina” e “Straight Outta Compton”, e su “Sopravvissuto – The Martian”, “Room”, “Brooklyn” e “Carol”. Verrà pure un giorno, e sarà un gran giorno, in cui un film d’animazione porterà a casa la statuetta per la miglior sceneggiatura.
Miglior film d’animazione
E a proposito di questo, presentato da Woody e Buzz, almeno un (altro) Oscar se l’è guadagnato Pete Docter, assieme al produttore Jonas Rivera, per il meraviglioso capolavoro nato dall’osservazione attenta dei bambini, i figli stessi del regista; “Inside Out” ha fatto letteralmente incetta di premi ai 43esimi Annie Awards, distruggendo lì come in casa Academy “Anomalisa”, “Shaun, Vita da pecora – Il film”, “Quando c’era Marnie” e “Il bambino che scoprì il mondo”, miglior film d’animazione indipendente agli Annie. Gianni Canova durante la notte ricordava come l’Italia, dalla distinta tradizione animata, sia uno fra i paesi europei che emettono meno prodotti per l’infanzia. Tenendo conto di quante volte sono stati proposti in questa categoria film non americani, non è disperabile una futura presenza italiana agli Oscar o perlomeno ai Golden Globe.
Miglior film straniero
Un altro film sulla Shoah? Ebbene sì, “Il figlio di Saul” dell’ungherese László Nemes ha indubbiamente fatto conquiste, carismatico ritratto della realtà non così diffusamente conosciuta del Sonderkommando, l’organo incaricato di collaborare con i nazisti carnefici nei campi di concentramento. Al di là degli sconfitti “Mustang” (Francia), “El abrazo de la serpiente” (Colombia), “A War” (Danimarca) e “Theeb” (Giordania), a parere del sottoscritto fra quelli proposti alla candidatura vi erano titoli da un punto di vista prettamente cinematografico più validi (a partire dal nostro “Non essere cattivo”, di Claudio Caligari); certo è comunque che lo spaccato e lo stile adottati nella realizzazione di quest’opera esordiale hanno la destabilizzante capacità di coinvolgere senza cadere nella retorica. Ormai lo si sa, nonostante i millanta gioielli di forma ogni anno prodotti al di fuori dei confini statunitensi, in patria si preferisce farsi suggestionare dalle trame della storia piuttosto che dal valore estrinseco dei film.
Prima di Nemes, solo Florian Henckel von Donnersmarck nel 2007 per “Le vite degli altri”, Danis Tanović nel 2002 per “No Man’s Land”, Richard Dembo nel 1985 per “Mosse pericolose”, Jean-Jacques Annaud nel 1977 per “Bianco e nero a colori”, Jirí Menzel nel 1968 per “Treni strettamente sorvegliati” e Serge Bourguignon nel 1963 per “L’uomo senza passato” hanno vinto l’Oscar al miglior film in lingua straniera grazie al primo lungo interamente diretto da loro.
Miglior film documentario
Come largamente predetto, l’“Amy – The Girl Behind the Name” diretto dall’inglese Asif Kapadia e prodotto da James Gay-Rees ce l’ha fatta: la biografia sulla cantautrice britannica di “Back to Black” e “Lioness: Hidden Treasures” ha bruciato sul traguardo “The Look of Silence”, avversario più temibile di “What Happened, Miss Simone?”, “Cartel Land” e “Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom”.
Miglior colonna sonora
Veniamo al sommo motivo di gloria per la nazione italiana: Ennio Morricone, unico artista italiano in competizione quest’anno, alla sesta nomination per la miglior colonna sonora nel giro di 37 anni, dopo l’Oscar alla carriera del 2007, ha stravinto grazie a “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino, trionfatore nella medesima categoria anche ai Golden e ai BAFTA. Dopo la carezza di John Williams e l’abbraccio di Quincy Jones in veste di presentatore, la platea stessa ha accolto il Maestro, visibilmente commosso, con un’indelebile standing ovation (da segnalare assieme a quella per DiCaprio), tributo sentito all’87enne compositore, canuto e geniale, con alle spalle una carriera inimitabile e dura a morire.
Non se l’è avuta a male il 50 volte nominato John Williams (“Star Wars: Il risveglio della Forza”), vincitore in ogni caso agli IFMCA 2015 (International Film Music Critics Association Awards), mentre l’attesa continua per Thomas Newman (“Il ponte delle spie”, 13esima nomination), Jóhann Jóhannsson (“Sicario”, seconda nomination) e Carter Burwell (“Carol”, prima nomination). Escludendo lo scenografo Robert F. Boyle, l’attore Eli Wallach, l’attrice Maureen O’Hara, il produttore e soggettista Hal Roach, il regista Elia Kazan, il truccatore Dick Smith, l’attrice Angela Lansbury e il regista D. A. Pennebaker (vincitori ognuno di un Oscar onorario rispettivamente a 98, 94, 94, 92, 89, 89, 88 e 87 anni), Morricone è l’uomo più anziano ad essere stato premiato in una sezione competitiva. Si era avvicinata ad un traguardo simile l’87enne Gloria Stuart, nominata come miglior attrice non protagonista nel 1998 per “Titanic”.
Miglior canzone
Non era poi così scontata la vittoria di “Writing’s on the Wall” (scritta da Sam Smith e Jimmy Napes per “Spectre”), premio dedicato da Smith alla comunità LGBT in quanto “gay e fiero di esserlo”, vista la sostanziosa “Til It Happens To You” (scritta da Lady Gaga e Diane Warren per il documentario “The Hunting Ground”). Senza dubbio a livello armonico e melodico la canzone eletta è effettivamente la migliore, da brivido ogni volta che si concedono secondi all’accorato falsetto. Sconfitte anche “Earned It” (per “Cinquanta sfumature di grigio”), la “Simple Song #3” (per “Youth”), e “Manta Ray” (per il documentario “Racing Extinction”).
Migliori effetti speciali
Probabilmente costituisce la maggior sorpresa di questa edizione il trionfo nella categoria dei migliori effetti speciali del fantascientifico “Ex Machina” (a cura di Mark Williams Ardington, Sara Bennett, Paul Norris e Andrew Whitehurst), forse il più screditato nei pronostici, senza dubbio il meno seguito al momento dell’uscita nelle sale (l’incasso globale ad oggi è di appena 36 milioni di dollari). Sempre Gianni Canova sottolineava come, a differenza degli altri candidati (salvo la dovuta eccezione del film di Iñárritu), “Ex Machina” mirasse non a costruire mondi, ma corpi, dando vita ad una attrazione non lungi dall’erotismo per la pelle trasparente di una straordinaria Vikander, secondo un buon numero di critici preferibile alla stessa di “The Danish Girl”. Stando ai verdetti dei VES (Visual Effects Society Awards) risultava probabile o anche semplicemente possibile la vittoria di “Star Wars: Il risveglio della Forza”, “Revenant – Redivivo” o “Mad Max: Fury Road”, mentre per “Sopravvissuto – The Martian” le previsioni erano limpidamente meno rosee.
Miglior montaggio
E qui in pratica si entra in un’aura che sa già di leggenda, forse ancora più dell’anno scorso, quando trionfò il montaggio da cardiopalma di “Whiplash”. Margaret Sixel, moglie del Premio Oscar George Miller, è riuscita, sorpassando i risultati de “La grande scommessa”, “Revenant – Redivivo”, “Il caso Spotlight”, “Star Wars: Il risveglio della Forza”, a compiere il miracolo di organizzare nel giro di circa due anni le oltre 470 ore di girato per “Mad Max: Fury Road”, inserendo la “modica” cifra di 2700 tagli di montaggio, impresa dall’epicità paragonabile a quella compiuta fra il 1936 e il 1938 dalla geniale Leni Riefenstahl alle prese con “Olympia”. Il “videogioco” che finiva per annoiare Paolo Mereghetti, dall’alto di questo quarto Oscar su 6 (magari il più appariscente e rappresentativo), si distingue incontestabilmente e definitivamente dal ciarpame action così indebitamente popolare nei nostri cinema e ancor più nei palinsesti televisivi, opera d’eccellenza da ammirare e studiare.
Miglior fotografia
La storia è stata scritta: il terzo Oscar consecutivo ad Emmanuel Lubezki (con alle spalle un totale di 8 nomination) per “Revenant – Redivivo”, vincitore anche agli ASC (American Society of Cinematographers Awards), ha vanificato le speranze di “Mad Max: Fury Road”, “Sicario”, “Carol” e “The Hateful Eight”. La singolarità di tale riconoscimento sta nel fatto che Lubezki è divento l’unico direttore della fotografia della storia ad aver vinto per 3 anni consecutivi.
Egli entra così nel club di coloro che hanno registrato il maggior numero di vittorie di fila. Riportiamo quindi la lista degli “iscritti”: il capitano incontrastato è Walt Disney (1932-1940, 8 edizioni e 1951-1956, 6 ed.) seguito dal tecnico degli effetti speciali Dennis Muren (1981-1985, 5 ed.), il produttore di cortometraggi animati Fred Quimby (1944-1947, 4 ed.), e quindi da una serie di artisti dai triplici trionfi, ossia il tecnico del sonoro e degli effetti speciali Douglas Shearer (1936-1938), il tecnico degli effetti speciali Farciot Edouart (1938-1940 e 1942-1944), il tecnico del suono Thomas T. Moulton (1938-1940 e 1949-1951), lo scenografo Thomas Little (1942-1944), il produttore di cortometraggi Gordon Hollingshead (1945-1947), il compositore Roger Edens (1949-1951), la costumista Edith Head (1950-1952), lo scenografo Cedric Gibbons (1952-1954), lo scenografo Edwin B. Willis (1952-1954), il tecnico degli effetti speciali Glen Robinson (1975-1977), i tecnici degli effetti speciali Jim Rygiel e Randall William Cook (2002-2004).
Si badi che quest’elenco comprende i vincitori di Oscar speciali ed esclude Joseph Barbera e William Hanna, registi e produttori dei cortometraggi che vinsero 4 edizioni consecutive tra il 1944 e il 1947, ma non figuranti come “Oscar winners” né nell’IMDb, né in oscars.org (qualcuno spieghi al mondo intero perché costoro, assieme al collega Friz Freleng, non abbiano potuto ricevere tali riconoscimenti contrariamente ad altri specialisti dell’animazione, come Walt Disney e Fred Quimby).
Si tenga inoltre conto che dal 1940 al 1957 e dal 1959 al 1967 esistevano un premio per la fotografia in bianco e nero e uno per quella a colori, idem dal 1941 al 1957 e dal 1960 al 1967 per la scenografia, idem dal 1949 al 1957 e dal 1960 al 1967 per i costumi; che solo dal 1985 si è assegnato regolarmente un premio per il miglior trucco (“e acconciatura” dal 2013); che solo dal 2011 vengono assegnate 5 nomination nella categoria dedicata agli effetti speciali, mentre in precedenza, tra il 1929 e il 2010, i criteri di elezione sono stati più volte vistosamente modificati, cosicché si è riusciti a passare da un anno con 14 candidati ad uno con 0; che un panorama simile, anche se dai profili più morbidi, lo si ritrova nelle categorie del miglior sonoro e miglior montaggio sonoro; che per quanto riguarda la categoria della miglior colonna sonora si è riusciti a passare dai 3 titoli del 1935 ai 14 del 1938, fino ai 30 totali del 1942 (divisi in una delle altalenati distinzioni perpetrate nel corso degli anni, fra le quali si possono notare “originale” e “adattamento”, “drammatica o commedia” e “musical”, “drammatica” e “adattamento con canzoni originali”, “originale” e “originale con canzoni”, “drammatica” e “musical o commedia”), e che solo dal 2000 si possono candidare 5 film in totale; infine che solo dal 1947 vengono assegnate (comunque non senza eccezioni) 5 nomination nella categoria della miglior canzone originale, mentre appena l’anno prima (nel 1946) se ne poteva eleggere una fra 14.
Tutte queste puntualizzazioni vogliono evidenziare come, a ben vedere, la predisposizione ad ottenere un numero maggiore o minore di statuette nel giro di pochi o molti anni consecutivi dipenda in gran parte anche da questi esagitati schemi di organizzazione e selezione interna, solo recentissimamente stabilizzati e (volendo lanciare un pronostico) destinati a mutare ancora aspetto nel giro di un decennio.
Altri premi tecnici (miglior scenografia, migliori costumi, migliori trucco e acconciatura, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro)
Domina dovunque incontrastato “Mad Max: Fury Road”, segno di quanto unito, determinato e visionario fosse il fronte degli artisti che ha dedicato mesi di lavoro al terzo film della storia ad aver collezionato, assieme a “Titanic” (1997) e “Revenant – Redivivo”, tutte e otto le candidature nei settori tecnici.
Le scenografie di Colin Gibson e Lisa Thompson, creatori con il loro car design di mostri acuminati di metallo, di chitarre infuocate a doppia tastiera e di danze infernali tra un truck e l’altro su aste oscillanti come “metronomi della morte”, sono riusciti ad attribuire uno status di incontrastato rilievo all’estetica del mondo immaginato da Miller, più di quanto non abbiano fatto con pure innegabile efficacia “Sopravvissuto – The Martian”, “Revenant – Redivivo”, “Il ponte delle spie” e “The Danish Girl”.
La natura dei costumi di Jenny Beavan, vincitrice del CDG (Costume Designers Guild Award) per l’eccellenza in un film con ambientazione fantasy e ora con due Oscar a carico su 10 nomination in totale, si può ben enucleare riconducendo alla mente le maschere indossate dai seguaci di Immortan Joe, evidente richiamo ai musi che conducono la carovana impazzita. Non sono stati preferiti i capi di vestiario retrò di “The Danish Girl” (per l’appunto CDG per l’eccellenza in un film con ambientazione d’epoca) “Carol” (creati dalla pluripremiata Sandy Powell, candidata anche per “Cenerentola”) e “Revenant – Redivivo”.
I personaggi hanno, come dire, il deserto “addosso” per merito di Lesley Vanderwalt, Elka Wardega e Damian Martin, tra i vincitori di ben due MUAHS (Make-Up Artist and Hair Stylists Guild Awards) sempre per il suddetto lungometraggio. Delusione, è proprio il caso di dirlo, per i meravigliosi segni di violenza estrema di “Revenant – Redivivo” e per i truccatori de “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”.
Come se non bastasse “Mad Max: Fury Road” è altresì “un film da vedere con le orecchie”, non solo nel tentativo di cogliere le strutture sinfoniche che emergono dai rapporti fra montaggio, recitazione e regia, ma anche di lasciarsi immergere nella tempesta sonora che hanno saputo superbamente ricreare Chris Jenkins, Gregg Rudloff e Ben Osmo attraverso il missaggio e Mark A. Mangini e David White (fra i vincitori del Golden Reel Award) attraverso il montaggio.
Tornando un’ultima volta alle previsioni, notiamo come la corsa fosse guidata nella categoria del missaggio da “Star Wars: Il risveglio della Forza”, seguito da “Revenant – Redivivo”, vincitore del CAS (Cinema Audio Society Award), “Sopravvissuto – The Martian” e “Il ponte delle spie”, nella categoria del montaggio sempre da “Star Wars: Il risveglio della Forza”, altro Golden Reel, “Revenant – Redivivo”, “Sopravvissuto – The Martian” e “Sicario”.
Vi aspettiamo il prossimo autunno con una nuova rubrica dedicata agli Academy Awards 2017. Nel frattempo restate sintonizzati con le programmazioni (che potete conoscere in dettaglio al seguente link, http://oubliettemagazine.com/2016/03/01/cinema-2016-dai-fratelli-coen-a-pif-ecco-tutte-le-novita-sui-film-in-uscita-nelle-sale-italiane/), e magari dilettatevi nella scelta dei titoli futuri che, secondo voi, meriterebbero un posto alla 89esima Notte degli Oscar.
Written by Raffaele Lazzaroni