Gli ultimi ragazzi del secolo di Alessandro Bertante: quando della nostra giovinezza non sapevamo che farcene

“Davide e io, a bordo di una vecchia Panda marrone e con il tettuccio apribile, viaggiamo solitari ma determinati a proseguire. Dobbiamo raggiungere Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina in fiamme.”

 

Gli ultimi ragazzi del secolo

Per parlare dei mitici anni Ottanta, Alessandro Bertante parte da un viaggio che dalla Croazia conduce a Sarajevo, allo scopo di constatare gli effetti di una guerra non ancora terminata. Il protagonista è nato nel 1969, come lui. Abita a Milano, come lui, e si chiama Alessandro Bertante.

In copertina c’è l’autore da piccolo, accanto al pulmino rosso Volkswagen col quale era solito viaggiare con la sua famiglia. Siamo autorizzati quindi a pensare che si tratti di un romanzo autobiografico, anche se gli scrittori sempre sorprendono e riescono ad elaborare frammenti vissuti da sé o da altri e farne una storia. Il bravo scrittore riesce a raccontare ciò che vuole: la verità la sapranno solo pochi intimi.

Una cosa è certa, di quanto Bertante afferma in “Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti Editore, gennaio 2016): “difficile capire quel periodo se non lo si è vissuto”. In effetti è così. Se negli anni Ottanta non c’eri, il racconto sembra un’esagerazione. Chi invece ha udito uscire dal juke- box dei bar “Da da da” dei Trio, guardava Dallas e Drive In alla tv e aveva a che fare con amici che si vestivano da Paninari, rivolgendosi alle ragazze chiamandole “sfitinzie”, sa a cosa l’autore si stia riferendo. E ancora, la spilla nera degli AC/DC che alternavamo a quella con la lingua dei Rolling Stones – mi permetto di aggiungere – e che puntavamo sulla “cinghia” per tenere insieme i libri; così come la diceria, poco edificante, che lanciando un pezzo di porcellana della candela del motorino si poteva rompere il parabrezza di una macchina, sono cose che ci riportano dirette a quel periodo.

Una generazione, quella degli anni Ottanta, che ha un po’ il sentore di essere stata defraudata di qualcosa; che ha la sensazione di essere arrivata in ritardo e di non avere saputo fermare il tempo; che ricorda quel periodo con nostalgia, perché si era meno smaliziati e pareva che ad ogni occasione venisse data una dimensione goliardica.

Siamo nel 1996 e durante una vacanza estiva in Croazia, con l’amico Davide a bordo di una Panda scassata, il protagonista incontra tre ragazzi di Sarajevo, di cui uno senza un braccio a causa del proiettile di un mortaio. “Andate a Sarajevo, non restate qua”, dicono loro questi giovani. “Andate a vedere quello che è successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è rimasto dopo la guerra civile”.

Alessandro Bertante

Il senso di colpa di una generazione che si sente un po’ “spettatrice” di quello che accade nel mondo, spinge i due ragazzi ad intraprendere questo lungo viaggio. Testimone silente la Neretva, teatro di tante battaglie, lungo le rive della quale ora sorgono fila di croci. Visitare Sarajevo, via Monstar, è pericoloso. La sera c’è ancora il coprifuoco, lì nulla è un gioco. È tutto vero, e morte e distruzione sono di scena. Sono zone dove hanno combattuto per tre anni consecutivi i bosniacchi – bosniaci di religione mussulmana –, una guerra che non è ancora cessata del tutto, e soprattutto dove non è facile capire chi abbia davvero vinto. In queste pagine si avverte la forte capacità descrittiva dell’autore, che raggiunge il suo apice con quel tuffo “liberatorio” del sedicenne Nemanja nella Neretva, con quel pugno alzato al cielo, simbolo del coraggio di un intero popolo; evocativo al punto che sembra di essere lì. A fare da contraltare al viaggio, i ricordi dell’autore in quella Milano, metropoli degli anni Ottanta, nella quale si è svolta la sua infanzia.

Dove inermi adolescenti non vivevano solo il “luccichio” di quel momento, ma anche il lato negativo, poiché scelti come nuovi consumatori di quella droga che veniva vista come un conquista sociale. E qui il protagonista è molto sincero col suo pubblico, poiché racconta tutto senza filtri, né fa grossi sconti. Anche sul fatto di esservi trasformato in un piccolo delinquente, pur di avere un tornaconto.

Sono gli stessi anni Ottanta che, con la caduta del muro di Berlino nel 1989, sfumano nello spettro di Tangentopoli e nella piaga dell’Aids, malattia misteriosa e ghettizzata. Ci siamo illusi di avere una risposta per tutto, noi lì, a casa, davanti alla tv. Sarajevo invece era un luogo giusto dove poter trovare delle risposte.

Con uno stile incalzante, che predilige la descrizione al dialogo, Alessandro Bertante ci propone uno spaccato della nostra storia recente, dove attraverso un processo di formazione – come sempre quando c’è di mezzo un viaggio – il protagonista diventa cosciente dei drammi che affliggono la nostra società.

Illuminante è un passaggio, che compendia l’intera opera:Noi siamo stati gli ultimi ragazzi del secolo, adesso ce ne andiamo per sempre, senza rimpianti né sensi di colpa. Non abbiamo avuto ragione, non ogni volta, questa sciocca pretesa è diventata una debolezza che ha condizionato tutte le nostre scelte. Ora ci sbarazziamo di ogni eredità e della stanchezza di sentirci generazione mancata”.

 

Written by Cristina Biolcati

 

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