“Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu: 12 nomination per la nuova epopea nordamericana
Anche per questa stagione cinematografica il “sogno messicano” si anima di luminescenti linfe vitali grazie all’opera di Alejandro González Iñárritu, gigante che spicca nel panorama internazionale accanto alle figure di Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro.
L’episodio odierno è costituito da uno dei titoli più attesi e rumoreggiati di quest’ultimo periodo, “Revenant – Redivivo”, grandioso film d’avventura che prende parzialmente le mosse in primis dall’omonimo romanzo di Michael Punke (*1964) e in secondo luogo da uno dei lungometraggi più noti di Richard C. Sarafian, “Uomo bianco, va’ col tuo dio!” (1971), che impaludandosi nell’esaltazione degli stilemi più precipuamente western applicabili agli accadimenti, in un soffuso buonismo unito alla flebile reminiscenza del mito della conquista a stelle e strisce dei territori sconosciuti (evidenziato anche dall’orecchiabile inno introduttivo), non di rado rovina nel didascalismo.
La vicenda non può gloriarsi di una fabula particolarmente intrecciata, la quale narra delle peripezie estreme compiute nel 1823 dall’intrepido cacciatore di pelli Hugh Glass, che, sopravvissuto assieme a pochi compagni ad un feroce attacco degli indiani Arikara e all’attacco di un grizzly femmina, viene abbandonato da tutti, dato per morituro dopo aver ricevuto alcuni vani tentativi di cura.
Egli è propriamente il redivivo, l’uomo rinato dalla tomba ove era stato vilmente deposto, colui che prende per le corna il proprio destino, che affronta in pressoché ineluttabile solitaria, impossibilitato nel poter sfruttare il linguaggio verbale per trarne qualche giovamento, una natura impervia abitata da minacciose tribù autoctone, alla ricerca della salvezza e della vendetta in nome del figlio assassinato di fronte i suoi stessi occhi febbricitanti.
Ciò che quindi necessariamente arricchisce il plot è da ricercare in altri campi. Gli otto mesi di riprese in Canada (British Columbia e Alberta), USA (Montana e Arizona), Messico e Argentina, hanno richiesto a 15 mila membri della troupe centinaia di migliaia di ore di lavoro, spesso esigendo (perlomeno da chi ha deciso di perseverare nelle operazioni) di adattarsi a temperature proibitive che hanno causato danni alle apparecchiature e consistenti ritardi nella produzione (il cui budget alla fine è più che raddoppiato, a discredito delle previsioni).
La risolutezza di Iñárritu nel voler girare avendo a disposizione solo luce e fondali naturali (un po’ come accaduto sul set del kubrickiano “Barry Lyndon”, in ripudio oltretutto dell’utilizzo del ben più pratico green screen) ha fatto sì che le ore diurne fruibili si riducessero vistosamente e si raffinasse la cura del due volte Premio Oscar direttore della fotografia Emmanuel Lubezki. Effetti di realismo aggiuntivo sono poi le macchie di sangue e fiato sulle lenti degli obiettivi, che non mirano tanto a tradire la presenza di un qualche fantasmatico ospite, quanto piuttosto ad avvicinare ulteriormente il pubblico al sentire ed agire dei caratteri.
Un tale contesto ha pure offerto a Leonardo DiCaprio il ruolo più difficile della carriera sin qui tracciata. Il suo personaggio si vede costretto ad attraversare fiumi gelati rischiando più volte l’ipotermia (evitata di fatto grazie al cosiddetto EMT, Emergency Medical Technician, che comunque non l’ha salvato da febbri in ogni caso sfruttate per rendere al meglio la crudezza di alcune sequenze), a cibarsi di fegato di bisonte crudo e a combattere corpo a corpo con fiere testarde e uomini ancora più risoluti.
La sofferenza che ne deriva, dall’aspetto di gran lunga più straziante se messa a confronto con quella “ordinaria” vissuta dal Richard Harris negli anni ’70, restituisce un divo spumoso, gravemente menomato, strisciante sul suolo giacchiato, e purtuttavia nelle dinamiche della storia profondamente motivato da quella saggezza che aveva fatto in tempo a tramandare al giovane Hawk, di sangue americano-pawnee, forte di un’impressionante dose di astuzia e caparbietà che sembra celare nel folto della pesantissima pelliccia d’orso e che lo porterà all’agognato duello “ai confini del mondo” col più grande traditore della sua compagnia, l’odiatissimo John Fitzgerald, interpretato da un raggelante Tom Hardy.
La succitata, come altre violente scene d’azione, è costruita seguendo una logica complessamente architettata, che palesa la nota passione del regista per i longtakes (basti pensare a “Birdman”), scelta stilistica che sfrutta la propria capacità di gettare lo spettatore nel vivo del furore, nella mischia gelida e sanguinolenta, supportato da ricorrenti movimenti rotatori che scolpiscono i corpi nello spazio, ne esaltano la tensione superficiale, scorrendo le rette dei fucili contrapposte ai fusti circostanti.
Non meno efficaci risultano i commenti musicali di Ryūichi Sakamoto e del tedesco Carsten Nicolai (aka Alva Noto), nominati sia ai BAFTA che ai Golden Globe, i quali riescono ad evocare l’ostilità minacciosa delle foreste innevate, vaste, rimbombanti ed irte d’insidie. Una simile sensazione è suggerita dalle tracce aggiunte, fra cui compare la meravigliosa “Oraison” di Olivier Messiaen, eseguita sull’eteree onde Martenot.
Di certo non volendo glissare sulla tematica “premi”, vale la pena sottolineare come “Revenant – Redivivo” condivida unicamente con “Titanic” (1997) e “Mad Max: Fury Road” (2015) il record di maggior numero di categorie tecniche nominate agli Oscar: 8 su 8, e precisamente effetti speciali (seriamente preferibili a quelli di “Avergers: Age of Ultron”?), montaggio, fotografia, scenografia, costumi, trucco e acconciatura, sonoro e montaggio sonoro. Si tenga comunque conto che solo dal 1983 e dal 1985 sono state regolarmente assegnate le nomination rispettivamente del miglior montaggio sonoro e del miglior trucco.
Le restanti quattro candidature riguardano il film, la regia (in entrambi i casi è coinvolto Alejandro González Iñárritu, reduce, ricordiamolo, dalla gloriosa triplice vittoria dell’edizione 2015), il sorprendente Tom Hardy (alla sua prima corsa in casa Academy) e, naturalmente, il titanico DiCaprio; se non la spuntasse neanche stavolta, alla quinta nomination su sei come attore, forse dovrebbe cominciare a temere di essere affetto dalla “sindrome di O’Toole”, l’indimenticabile Lawrence d’Arabia, chiamato a far parte della cinquina ben 8 volte, senza mai risultarne il vincitore.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni