“Blackstar” di David Bowie: l’epitaffio di Lazarus che pianificò la sua morte
Paul Sweeney una volta ha detto “Capisci di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico”, la sintesi perfetta di un legame stretto con il lettore che si sviluppa nel corso di una storia, ma anche di quanto il finale sia importante, essenziale per trasformare una buona opera in un capolavoro, e mai come negli ultimi giorni questi concetti sono associati ad un solo nome, quello di David Bowie.

Il più geniale, istrionico e sfuggente trasformista che la musica abbia mai conosciuto se n’è andato, e noi di Oubliette abbiamo deciso di tributargli un intero mese, ripercorrendo le sue opere. Questo che state leggendo è il primo di molti appuntamenti con i dischi del Duca Bianco, e forse il corretto punto di partenza è proprio il capitolo conclusivo, l’ultima pagina…
Perchè diciamoci la verità, un ottimo libro che non ha un finale adeguato appare incompleto, forse addirittura scarso, ed è tutta qui l’importanza dell’ultima pagina, della chiusura, dell’uscita di scena. È quello che distingue un applauso da una standing ovation alla chiusura del sipario, che si tratti di un libro, di una recita, di un disco o – nel nostro caso – di una vita. Quanto sarebbero diverse le opinioni su “Blackstar” se Bowie fosse ancora tra di noi? Come sarebbe stata interpretata l’opera ultima del Duca Bianco ormai diventato una stella nera? Quanto sarebbero diverse queste stesse parole che state leggendo?
Non c’è modo – e ci sto provando da ore – di analizzare un album come “Blackstar“ evitando i riferimenti alla morte dell’artista, e una volta tanto è un bene, perchè – chi ha amato Bowie come il sottoscritto ne è certo – non ci può essere diversa lettura da quella del testamento artistico. “Blackstar” è l’atto più coerente di chi a molti (ai disattenti a dire il vero) è sempre apparso incoerente, è un riassunto in musica di un’intera vita, che ricorda e rinnega il passato allo stesso tempo, orchestrato magnificamente e cesellato con minuzia in ogni sfaccettatura.
Bastano pochi secondi per rendersene conto, i primi della title track, il primo dei sette brani dell’album, l’overture, una turbinante vibrazione di dieci minuti che chiama a sè i migliori Radiohead e poi li ricaccia indietro con le sonorità jazz del sax. Ci sarebbe tutto anche solo in questo pezzo: il passato e il futuro, il jazz come simbolo di libertà artistica e umana (il sax è il primo strumento che Bowie iniziò a suonare da giovane), l’impossibilità di essere inserito in qualsivoglia genere o canone standard, e infine un titolo che riprende il sogno dello spazio e delle stelle, ma si scrolla di dosso gli sfavillanti colori delle paillettes di Ziggy e si veste di nero, a lutto, proprio come è il mondo ora.

Quando arrivano le note finali di “Blackstar” si ha già la sensazione di aver bisogno di una pausa, o forse di riascoltare dall’inizio per i troppi elementi da analizzare, ma è soltanto un attimo, perchè a seguire arriva una versione riarrangiata splendidamente di “‘Tis a pity she was a whore”, con un incredibile lavoro alla sezione ritmica che fa da base ad una nuova ventata jazz, stavolta più scarnificata, tanto free-jazz da poter sentire distintamente gli echi di John Coltrane.
Sono passati 15 minuti e la stella nera Bowie è lassù, nello spazio, definitivamente libera da tutto e da tutti. Uno spazio buio, notturno, silenzioso, e così il penetrante sax lascia spazio ai fiati meno eccentrici di “Lazarus”, struggente e devastante pezzo in cui risuona David Sylvian, e a cui lo stesso Bowie ha voluto dare risalto con il videoclip che lo vede a letto, con gli occhi neri disegnati sulle bende, l’aria di chi sa cosa lo aspetta, e infine lo vede sparire, silenzioso, dentro un armadio che si chiude per non riaprirsi mai più. Lazzaro questa volta non si alza, non cammina, recita soltanto “Io sarò libero, proprio come quell’uccello azzurro, non è proprio come me?“ e saluta tutti, citando Bukowski in una boutade che trasforma “Lazarus” in uno dei suoi più sentimentali e allo stesso tempo arguti capolavori.
È un terzetto di brani che segna un vero e proprio decollo, e ora, alla quarta traccia, Bowie guarda la terra dall’alto come fece nei panni di Ziggy e ci accompagna verso il commiato in maniera più leggera, non più soggetta alla gravità del mondo, regalando nuove vibrazioni, stavolta al suono dei bassi alla Massive Attack di “Sue (Or in a Season of Crime)”, si prosegue con “Girl loves me”, circolare nell’andamento, elettronica quanto basta per guadagnarsi una connotazione inumana, artificiale, quasi robotica, e poi, prima delle battue finali, si corre all’indietro nel tempo, a “Diamond Dogs” o forse addirittua a “Hunky Dory”, con l’acustica “Dollar Days”, piena zeppa del Bowie degli inizi, della sua teatralità dell’essenziale: un’attacco da jazz club che immerge in un’atmosfera malinconica su cui l’artista ricama il più sentimentale dei brani del disco, e si prepara all’addio.

L’album si chiude sofferto ma soffice con “I Can’t Give Everything Away”, “Non posso portare via nulla”, e allora lascia tutto qui, un disco meraviglioso, un artista inarrivabile, che altro non era se non l’ennesimo vestito del trasformista, di un’anima votata all’arte fino all’ultimo secondo.
David Bowie ha trovato quello che per ogni artista – di qualunque tipo di arte si stia parlando – è il sogno più grande, quello di un’uscita di scena definitiva, che non dia spazio a possibilità o voglia di tornare a farlo ancora, una chiusura che dica e faccia dire a chiunque “questo è tutto, non c’è più niente da aggiungere”, ed è proprio questo che accade: è tutto qui, ed è più semplice rendersene conto che farsene una ragione.
Questa è l’ultima opera di Bowie, e non esiste caso al mondo in cui la parola “ultima” sia più appropriata, non per via della morte, quella ne è la conseguenza, Bowie se n’è andato perchè il sipario è calato, non viceversa, ha dato uno sguardo al pubblico ed è uscito in silenzio prima degli applausi, che arrivano scroscianti come non mai ad accertare, se ancora ce ne fosse bisogno, che Bowie ha trovato in “Blackstar” il quinto atto del suo “Enrico VIII”, l’ultimo colpo di scalpello sulla sua Pietà Rondanini, il centesimo canto della sua Divina Commedia.
E infine uscimmo a riveder le stelle (nere)…
Tracklist
- Blackstar
- ‘Tis a Pity She Was a Whore
- Lazarus
- Sue (Or in a Season of Crime)
- Girl Loves Me
- Dollar Days
- I Can’t Give Everything Away
Written by Emanuele Bertola
Un pensiero su ““Blackstar” di David Bowie: l’epitaffio di Lazarus che pianificò la sua morte”